[Un giovane attivista egiziano arriva in Italia alla guida di un gommone carico di immigrati. Due operatori sociali si mettono sulle sue tracce e si innamorano. Nel confronto tra vite precarie, il simpatico, paranoico precursore della rivoluzione dei gelsomini darà loro una lezione di coraggio e di determinazione. Scanzonato, realistico, trasognato e politicamente scorretto: un racconto che irride i pregiudizi e il buonismo ed esalta le gioie del sesso nelle sue varie declinazioni.]
L’impressione immediata, e perciò epidermica, che “L’amore precario “ evidenzia, è il rimando alla stampa su lastra di un fotogramma di tempi effimeri, volatili, incerti. L’autore riesce addirittura a persuadere dell’incorporeità dell’epoca, quando si avverte che la fotografia scattata è evanescente dagherrotipia.
Il protagonista, è un assistente sociale nella misura di già attempato giovane, che sembra assistere impotente allo scorrere della propria vita contraddistinta dalla precarietà, senza garanzie, senza la speranza di un risultato certo . Da qui tutto il movimento di illusioni, già deluse, che insicuro e incorporeo sposta i personaggi come fantasmi, nella storia di Rizzotti.
Quando il lavoro diventa solo surrogato di lavoro, anche l’amicizia ed ogni altra forma di affetto, indossano l’abito incolore della provvisorietà. Allora il luogo in cui si vive diventa governato dalla solitudine, che non consegna orma e neanche suono, dove l’unica legge vigente impone la condizione di estraneità capace di far perdere il contatto con il mondo reale. Sola fune a cui aggrapparsi resta l’amore che converte il sentimento nella forma d’ un estremo coraggio, che equipaggia il protagonista a progettare la propria vita, nonostante le incertezze e l’ instabilità che la caratterizzano. Le ultime frementi pagine del libro slegano se stesse dalle precedenti, come evase da una prigione, sprangata da sbarre dipinte da un ottuso e daltonico paesaggista dalla tavolozza di sole chiazze grigie.
[Si resiste a star soli finché qualcuno soffre di non averci con sé, mentre la vera solitudine è una cella intollerabile] Cesare Pavese