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Per Charles Bukowski
non c’è un’altra America che questa
e ogni volta che ho maledetto il suo nome
ho gridato la sua onnipotenza
e l’America è tutto quello che doveva essere
quello che importa
è stare qui adesso
e non sapere quante ne ho bevute
prima di vederne il culo trasparente
e attraverso quello ogni giorno
ogni notte un fallito aforisma
e Mr Tamburine col mio ultimo deca
incollato alla lingua schiumosa
rompere nella quarta a San Pedro
era facile stapparle e colare
a picco nella notte americana
nel circo macello delle sue luci
nella vanità della sua disperazione
mentre la cosa-in-sé perseverava
nel suo sporco lavoro e la cosa-in-me
bruciava a 43° un passato non degradabile
era facile attraversarne la bocca,
la gola, infilarsi giù nel collo, mischiarsi
al whisky furente e rivendemmiare
il sangue marcio della mia adolescenza
e in un solo fuoco bruciare una ad una
le carte del vecchio poker…
come il Göring di Heartfield
mio padre infuriato che auf Deutsch
ruggiva sulla faccia di me ubriaco il suo
il mio fallimento scritto nelle stelle e nelle strisce
e mia madre che gli faceva da spalla
impettita nella vestaglia logora
automa recitante maledizioni
come un rosario
sullo sfondo dello squallore perbene, composto,
come solo lo squallore deve, può, sa esserlo
bestemmiando la sua la mia nausea
i nove mesi dell’abbraccio inevitabile…
quello che importa è essere arrivati qui, adesso
e tra non molto il mio sangue seccherà come
un fondo di pessimo whisky di una bottiglia
dimenticata sotto un letto di uno dei motel
che imbrattai con il mio vomito, dai muri che
i miei incubi dipinsero, mentre l’oceano stringeva
in vita l’America e la California mandava al cielo
in quelle notti un fiato dolce, afrodisiaco
che in un cielo troppo alto per uno come me
si confondeva con quello del mare senza fondo
e il ticchettio della mia macchina da scrivere
era più lento, troppo più lento del cuore
che non ce la faceva a gonfiarsi per te
e le puttane ridevano se le chiamavo
nel tuo nome, perché la tua assenza, la tua
assenza compisse il miracolo di fartele somigliare…
che una parte di me poi ti chiamasse in tutto questo
era il vero inesplicabile mistero…
quante ne ho stappate…
era quello il compromesso con la morte:
che venisse pure ma prima si piegasse
docile ad entrare nella bottiglia e diventasse
la mia anima confusa dal muto, incomprensibile
amore degli anni scivolati via, bevuti, vomitati…
non c’è un altro vizio che questa trasparenza
di diamante che si rivela come tagliente vetro
e ogni volta che l’ho invocata l’ho pure maledetta.
ma ecco il messaggio.
vuotata la bottiglia, la richiudo
e la lancio alla deriva dell’America
nella marea del suo impeccabile terrore.
io l’ho scolata, voi… voi riempitela, se potete.
©
Pietro Menditto
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