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«Helianthus annuus. Eliotropismo positivo... » Parlano di me. Non riesco a non sentirli. Parlano di me, che me ne sto all’ombra. Quinta fila, prima sezione. E sanno che so farlo, so ascoltare il vento e guardarlo, so sentirlo arrivare di notte, mentre passa sui miei petali. Loro sanno che io posso guardare, è sicuramente per questo che hanno paura di me. Una paura terribile, giustificata da tutto ciò che dovrebbero normalmente fare stami e capolini e per tutto quello che i miei, invece, non fanno. E quello lì, l’Helianthus annuus, per loro, sarei io, perché, sapete, io sono classificato così e mi dovrei comportare così. «Oh, bella! Sei un girasole. Che vorresti fare, allora ?» ….Mi sembra di risentire la voce di mio padre. Quattro generazioni di girasoli giganti, di semi obbedienti. Orgoglio di specie intatta, di oli purissimi e petali dorati. E tutto al macero, invece. Tutto alla malora, perché io soltanto, chiuso sotto un cielo cocente e nessuna voglia di volermi aprire al sole, restavo incapace e visibile tra mille superbe teste bionde, serrato alla luce. «Sei una corolla ostinata! Ecco quello che sei!» sibilava girandosi come tutti al mattino, vergognandosi, intanto, perché le quattro generazioni esemplari stavano andando a farsi benedire, sciupate nell’orgoglio dalla mia linfa infetta. «Girati, Elianto!» mi supplicava mia madre già rivolta al volere del sole. Ed io ci provavo. Mi sforzavo proprio, sapete? Specie quando sentivo la rugiada della sua corolla spingersi fino alla punte della mia e scivolarmi addosso, come rivoli di pioggia dolce. Non ci riuscivo. Avrei voluto, ma proprio non potevo. «La luce del sole mi acceca. È troppo forte, non vedo niente!» «Zitto figliolo, zitto» sussurrava allora «tu non devi vedere niente!» «Ma non vedo neanche te!» «È che nessuno ha mai visto, Elianto. Devi capirlo. È la nostra regola.» La prima volta che provai a farlo fu per caso e sicuramente per la mia errata natura. È strano che non si pensi mai alle difficoltà che si incontrano quando si è spinti verso ciò che appare a tutti un’azione normale o naturale. Io ero nato da poco, eravamo nuovi noi della quinta fila. Devo dire che fino ad allora mi sentivo tranquillo, protetto dalla mia somiglianza agli altri, finché qualcosa cambiò, di colpo. Senza nessun preavviso mi sentii spinto in alto da una forza sconosciuta e imbattibile che mi obbligò a girarmi. Aprendomi per la prima volta, restai abbagliato. Era impossibile resistere di fronte a tanta luce. Faceva male... Mi ritrovai esausto, richiuso sul terriccio morbido, all’ombra. E sì, sì che lo so, so che è proibita qui questa parola. Me ne vergogno anch’io, sapete? Ma accadde proprio là, insomma là, laddove non c’è sole. Strie lucide mi svegliarono. Le sentivo trapelare dai miei petali chiusi e, come spesso accade in natura, equivocai. E mi aprii. La prima immagine fu una montagna enorme, leggera. Poi una luce tenue arrivò come una carezza fugace, tra me e il cielo, facendomi dondolare in avanti, come al vento. Fu allora che mi girai. Ovviamente io non so cosa sia una luce o una carezza. Un bravo girasole, si sa, di queste cose proprio non ne immagini ignote alla mia sa, ma schiusi la mia corolla affinché quel chiarore mi entrasse dentro, delicato e dolce, ed io emozionato e confuso mi consegnai ad linfa. Scoprii il suono dell’erba addormentata, il tepore della terra e il buio che ne occulta dentro, custodendola, l’armonia della vita.: mi aprii alla Luna. Ora non saprei raccontarvi se appare ingiusto o paradossale essere simboli di un messaggio antagonista, visto che a nessuno di noi è concesso di saperlo senza essere stato, almeno una volta nella vita, il contrario di se stessi. «Aprirsi a ciò che ci consente di vedere, miscredente, non è possibilità della nostra specie. Lo conosci il nostro impegno: devi girarti al Sole!» mi accusò la voce, quel giorno. «Il nostro impegno è poter restare nella natura. E se questa non impone uguaglianza, vuol dire che la fallibilità è l’unica perfezione!» mi difesi. Il brusio intorno si fece più fitto. Il Tribunale dei Girasoli era al completo. La pianta più vecchia mi stava giudicando, lei era della prima fila, io non la vedevo, e non solo perché era pieno giorno ed io restavo chiuso. Non avrei potuto comunque vederla, visto che erano girati tutti, come da regola, verso il Sole. «Dicono che si sia mischiato alle felci» sussurrò allora il secondo giudice, piantato alla sua sinistra. «Alle… che?» ripetè il giudice. «Felci» rispose l’altro, con tono disgustato. «Io non so chi siano. Come ben si sa, io da pianta perbene non ne ho mai vista una. Però, dicono che lui se ne stia con loro sotto il sedile all’ombra.» «All’ombra? Ma se è un girasole!» «Beh, ora capirà, Giudice, che razza di pianta può mai essere questo Elianto! E lì sotto, loro sono dei fiori piccoli, inutili, bianchicci, scialbi» continuò poi sottovoce, quasi sussurrandolo «e poi chissà, si dice… si dice persino che… » fece una pausa. «Che...?» il giudice si spazientì. Era vecchio e sicuramente anche un po’ sordo. «Che si apra alla Luna!» concluse allora velocemente l’altro. La disapprovazione fu un coro generale. La condanna immediata. Esemplare. Mia madre gemette, mio padre si girò ad ovest, i petali addolorati delle mie sorelle fremettero. Non ero un girasole, ero un sobillatore di specie onorate, un ibrido. O forse, peggio, ero solo. Con le radici, tutte le file avrebbero spianato la mia parte di terra, non avrei più ricevuto nutrimento. Non ero degno io, ero diverso. Naturalmente ne parlai di notte con i miei unici compagni, sotto quel sedile di pietra dove nessuno dei miei simili si era mai spinto, confinato in una pena implacabile che non mi rendeva infelice. Anzi, non avevo obblighi, non avevo regole, potevo vivere ogni barlume di luce così come la percepivo. Non mi chiesi mai, però, quanto sarebbe durato. «Se vuoi salvarti dovrai girarti, Elianto. Dimostra che sei un vero girasole!» mi consigliarono le felci. «Non posso. Dubiterei di voi, se lo facessi. Dubiterei persino di me, di avervi mai parlato, di essere mai esistito, lo capite? E poi non vi vedrei mai più.» «Ma ti taglieranno. Lo faranno e tu morirai, se non ubbidisci alle regole della tua specie.» L’ultima frase era di una pianta vicina. Aveva fiori azzurri, piccolissimi. La sua fama, dicevano, era invenzione dell’uomo: Myosotis, “Nontiscordardimé”, così pare la chiamassero. Io sapevo soltanto che parlava piano, dolcemente, come sanno fare solo le piante dai petali minuti, e che mi piaceva starle vicino, viverle accanto, nutrirmi di quello che lei riusciva a procurarmi. Insieme nello stesso spazio angusto, nutriti dalla stessa acqua, sotto l’unico pezzo d’azzurro che si intravedeva dalla pietra e che per noi era tutto il cielo che c’è. «Io non conosco altre regole, Elianto» mi sussurrò una sera, «io ho solo questo mondo e mi basta. A me non verrà mai chiesto altro.» «Io non ti chiedo di essere altro» le risposi, confuso. E non sapevo ancora. Non sapevo davvero quello che avrei fatto se non avessi potuto più continuare a risentire il suo canto di petali delicati, in quelle notti lunghissime, accarezzate da luce che non faceva male. Si avvicinava l’estate, intanto. Le notti divennero calde quasi quanto il giorno e quel sedile stava diventando inconsistente protezione per tutti, soprattutto per lei. Doveva avere ombra, ne aveva bisogno per sopravvivere. Le Felci e l’Edera non potevano proteggerla più di quanto avessero voluto. L’unico che avrebbe potuto farlo ero io, aprendomi, ma era una scelta che lei non mi chiese mai. Una scelta d’amore, si direbbe. Ma chissà se le piante possono innamorarsi.. Quello che accadde poi, lo ricordo, fu in un giorno preciso. Mi svegliai con un frastuono di urla. Provenivano dalle cinque file avanti. Nessuno le sentiva, forse perché nessuno sa che le piante possono innamorarsi o urlare. Il cielo si abbassò. Una coltre di polvere dorata arrivò fino a noi, ricoprendoci, e lei era ancora accanto a me, sciupata, i fiori esausti, le corolle soffocate da quel sole che pareva invincibile. Parlava a fatica: «Non aprirti, Elianto. Non devi sacrificarti. Non me lo perdonerei mai.» Non era falsa fama. Myosotis o “Nontiscordardimé”, ora sapevo perché la chiamassero così e perché, senza di lei, sarei stato disperato. Allora decisi. Un petalo alla volta. Uno ad uno e mi aprii. Un fascio di luce mi colpì violentemente. Mi ero girato. Non vedevo più nulla, ero un girasole vero. Come in preda ad una stanchezza infinita, resistetti al dolore e mi chinai su di lei, ebbro di luce. Di tutta la luce che serve a non poter vedere niente. Intorno a me, lì davanti, non c’era più nessuno, né padre, né madre, né sorelle. Nessuno. Solo una grande spianata di terra, un campo d’orgoglio coperto di petali obbedienti che mulinavano al vento, silenziosi: “Tempo di Raccolta”, pare che la chiamino così, gli uomini, quella mattanza muta. Attesi il mio turno, stringendo le mie foglie, aspettando il taglio del mio fusto. Chissà se sarebbe stato un dolore netto o un tuffo al cuore, soltanto Chissà se avrei chiesto al tempo di lasciarmi abbracciare la paura, che, come un affanno, nella anormalità del mio destino, nel paradosso della mia stessa vita, mi avrebbe raggiunto mostrando un coraggio che, credevo, non aver mai posseduto. Non accadde nulla, invece. Restai lì, vicino al sedile di pietra, dove il cielo si vede a tratti e la luce del sole non arriva mai. Ero stato dimenticato, lasciato accanto ad una pianta inservibile, dai petali azzurri. Sicuramente non avrebbero saputo che farsene di me, visto che non ero stato altro, per tutti, che un esemplare avizzito, inutile e diverso. Per tutti, Girasoli e Uomini compresi. Di quell’oro lontano restai incredibilmente il solo, l’unico a conservare in una memoria dolorosa e potente, la capacità di vivere di un raggio differente. Una possibilità che i miei simili non avevano potuto capire né mai accettare, per paura sicuramente, ma anche per quel sottile disagio che reca ogni anormalità, obbligati a guardarsi dentro riflessi di timori che non tacciono e che non raccontano mai quanto nella vita si può essere felici ugualmente, diversamente.
©
Clemy Scognamiglio
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