|
|
|
|
|
VOTA QUESTO TESTO
|
|
Votanti:
6968
Media
79.7%
|
|
Qualcosa di misterioso, di indescrivibile, di spaventoso era certo sul punto di accaderle, doveva anzi essere imminente se davvero tutte le sue compagne parevano così stupite del fatto che non le fosse ancora accaduto.
Di cosa poi si trattasse, Virginia non sapeva, neanche lontanamente riusciva a immaginare, e quanto alle sue compagne nessuna si decideva a farla finita e a dirglielo una volta per tutte: talune si schermivano timidamente, altre, le più malvagie, preferivano prolungare il divertimento e continuare a prenderla in giro. Se Virginia si azzardava a chiedere a costoro — e ogni tanto le riusciva di trovarne l'audacia — l'interpellata si lasciava andare nella solita feroce risata, a volte stringendo e scuotendo i seni nelle mani, poi le girava le spalle e se ne andava con le amiche, non senza prima rigettarle in faccia il foglietto di carta che recava la domanda scritta da Virginia.
— Ancora non ha capito! — talvolta Virginia poteva leggere sulle loro labbra, prima che le compagne svoltassero all'angolo del corridoio.
Le suore si arrabbiavano moltissimo quando sorprendevano le ragazze in tali pantomime e infliggevano punizioni severe. Per fortuna ciò avveniva di rado, anche perché spesso neppure Virginia sfuggiva ai più duri provvedimenti, cosa che lei non sapeva spiegarsi: quasi che si volesse soffocarne la maligna curiosità, mentre le compagne potevano alla fin fine proseguire nel loro gioco atroce pressoché indisturbate.
Virginia era sordomuta.
Ora, nel suo universo fatto di silenzio compatto, impenetrabile, il nuovo mistero di questo destino oscuro ed imminente si affiancava all'antico mistero della sua menomazione. Quasi ogni giorno Virginia si domandava perché: perché non poteva udire e parlare, perché non poteva essere una ragazza normale, come tutte le altre, perché non poteva condurre una vita normale. Anche di questo si trattava: Virginia non era mai uscita dal collegio, se non per brevi gite, nelle domeniche di bel tempo, accompagnata da alcune signore che si prendevano cura di lei. Non aveva genitori, non ricordava nemmeno di averne mai avuti, e a quanto sembrava non esisteva nessun'altro parente al mondo, o perlomeno, se c'era, non si era mai fatto avanti. Ed era l'unica, così, nel collegio: quale amarezza, ogni fine settimana, vedere le compagne tornare a casa con i propri genitori! Perfino l'aspetto fisico sembrava confermare la sua irrimediabile diversità: di fronte allo specchio, guardava ancora una volta quel viso rigato di lacrime, cereo, spettrale, su cui spiccavano le gote infuocate dal pianto, e gli occhi senza colore, senza spessore, sfere di ghiaccio traslucido nel pallore di quel volto, i capelli ordinati e raccolti dietro la nuca, al pari delle sue compagne, sì, ma simili alla neve, stupefacente capigliatura di un essere disceso dal cielo. Forse non era normale, lei, forse non era come tutte le altre? C'erano momenti in cui credeva proprio di no. Vedeva bene, poi, che in confronto alle sue coetanee pareva ancora una bambina, così piccola, gracile, minuta!
Periodicamente, un paio di volte all'anno, veniva il medico a visitare le allieve del collegio, assistito da un'infermiera, una ragazza simpatica e gentile, una chiacchierona, dal volto florido e rubicondo: fu lei un giorno, per consolarla un po', vedendola sempre così triste, a raccontarle la favola del brutto anatroccolo che si trasforma in cigno; fu lei ancora, un altra volta, a mostrarle un testo di zoologia dove era illustrata — in una impressionante sequenza di immagini — la straordinaria trasformazione di una larva, bianca e molliccia, in una meravigliosa variopinta farfalla, in una vorace cavalletta, in un coleottero dai riflessi metallici come aeree corazzate. Alla fine le aveva addirittura regalato il libro. Virginia tornava spesso ad aprire quel libro: ne rileggeva ogni parola, ne assaporava ogni immagine, cercava di figurarsi ogni dettaglio di quelle incredibili trasformazioni. Gli insetti le piacevano molto, come lei, muti nel loro universo di silenzio, forse, perché no, il medesimo universo di silenzio.
Un terribile giorno, nel corridoio all'uscita del refettorio, subito dopo pranzo, si era sentita gridare in faccia da una compagna che ella aveva importunato un po' troppo, questa volta, dopo l'ennesima canzonatura, con richieste di spiegazioni e perfino trattenendola per il grembiule:
— Lasciami andare, mostro! Tu non ce l'hai una madre, sei nata in laboratorio!
Non poteva udire, Virginia, ma pure aveva letto bene su quelle labbra, non c'erano dubbi. Ne fu atterrita, impallidì, lasciò andare la presa e appoggiò, barcollante, le spalle al muro.
Virginia, naturalmente, non poteva comprendere il significato reale di quanto le era stato detto, ma proprio per questo forse ne rimase ancora più sconvolta. L'effetto di quelle parole da una parte così oscure, per le sue povere conoscenze, ma d'altra parte così chiare nella loro immediatezza («Tu non ce l'hai una madre, sei nata in laboratorio!»), anziché attenuarsi, si ingigantiva fino ad includere il senso di una verità inconfessabile, la sua verità, quella che non le era dato di conoscere.
Tornò a guardarsi nello specchio, ma senza piangere questa volta. Quelle parole, come dardi precisi avevano centrato il cuore dei suoi dubbi, li avevano messi in fuga come razzi che disperdano le ombre della notte. No, non era come tutte le altre. Non era normale, lei. Ora ne era certa. Chi realmente era, presto Virginia lo avrebbe saputo. Presto tutti lo avrebbero saputo.
Qualche giorno dopo, le labbra spente di Virginia si sarebbero dischiuse in un sorriso maligno nel constatare che l'attesa trasformazione era ormai cominciata. Quel rivolo di grumi e di sangue che si era ritrovata nelle mutandine lo testimoniava inconfutabilmente.
Andò così. Il giorno seguente tutti potevano vedere quanto Virginia fosse distratta, assente, muta oltre che nella voce perfino nei gesti e nello sguardo; assorbita, così pareva, in una dimensione tutta interiore. A tavola le compagne, che di solito non si curavano di lei se non per canzonarla, non potevano fare a meno di notare come non avesse toccato cibo e se ne fosse rimasta immobile per tutto il tempo: tanto era evidente questo strano comportamento, che finì per comunicarsi una certa inquietudine fra le ragazze, le suore, le inservienti. Fuori, intanto, una pioggia insistente crepitava contro i vetri.
Fu una rapida sequenza, come immagini sulle pagine di un libro, pochi balzi in un mondo di orrori e poi di nuovo alla normalità, convinti che sia stato solo un sogno… Poco prima che fosse ora di alzarsi da tavola, la bocca di Virginia si aprì, poi si spalancò, ne uscirono alcuni versi gutturali come da inviolate profondità e infine un suono lacerante, innaturale, spaventoso. Prese a dimenarsi selvaggiamente, prima sulla sedia, poi in piedi, mandando all'aria tutto e afferrando le compagne più vicine con forza bestiale. La sua testa iniziò allora a vorticare, regolarmente, ritmicamente, e dalla sua bocca, ormai aperta in una smorfia irriconoscibile e agghiacciante, cominciò a fluire, accompagnato da un gorgoglio orrendo, un filo di bava biancastra e serica che, tessuto intorno al corpo con accuratezza e precisione, solidificava rapidamente nelle pareti di un involucro, entro il quale purtroppo anche alcune compagne, incapaci di sfuggire alla sua presa implacabile, si trovarono prigioniere.
Le presenti, dapprima paralizzate dal terrore, riuscirono poi caoticamente ad abbandonare la sala fra pianti isterici e urla disperate; quando l'ultima uscì, il candido involucro si stava giusto richiudendo sulla testa di Virginia che ancora vorticava furiosamente e sulle grida strazianti, ma via via più fievoli, delle sfortunate compagne.
Non ci volle meno di un'ora per radunare un manipolo di coraggiosi — poliziotti, medici, sacerdoti — che avessero il coraggio di tornare in quella sala. Al di là della porta non si udiva ormai più alcun rumore. La spalancarono. Entrarono, cautamente. La massa bianca e immensa del bozzolo, spaccato e aperto, se ne stava lì in mezzo alla sala. L'interno era vuoto, ma dappertutto, sul pavimento della sala, erano sangue, brandelli umani e altri resti indecifrabili, come pellicole disseccate e contorte, gettate qua e là.
Su tutto, spiccava una scia netta e luccicante, appiccicosa, che dal bozzolo dischiuso procedeva con sicurezza sul pavimento e scavalcava il davanzale della finestra spalancata, oltre la quale, sotto i raggi del sole dopo la pioggia, farfalle e cavallette e coleotteri dai riflessi metallici come aeree corazzate danzavano lievemente sulle ali di una brezza umida e fresca.
©
Loris Bagnara
|
|
|
|
|