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Performativo
di Valeria Francese
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La notte è dei fantasmi e delle creature di solo buio. E’ il regno di pensieri  orfani   in contesa con l’alba, atomi di cuore senza nucleo, locandine di fantasia in disuso.

 Sveglio, gli occhi  spalancati nel perimetro di una preghiera, nel silenzio di una città che non conosco, immobile sul letto, questo letto che precipita nel soffitto,  sento il peso di un corpo depresso, sì che è depresso.  Solo, cerco di parare i colpi di tutti i voli che non riesco ad intercettare. Solo.

Una luce compassionevole filtra sul pavimento, apre un fondo nel viola, è la luce di una luna che dorme, mai stata sveglia la luna.

Guardo l’ora, è sempre la stessa. Il tempo non scorre con nessuna lentezza. Il tempo non dura, non si conta. Si immola  come in un sacrificio per chiedere perdono d’esistenza.

Ancora, ancora, da lontano, il mormorio dell’onda del mare che s’infrange sul lido. Quant’è banale, sentirlo, vederlo e scriverlo.

Mi ricorda estati in cui ero puro.

Ma oggi c’è qualcosa di piu. E’ puro terrore l’attesa del suo schiantarsi, frantumo di cocci d’acqua. Ieri sapevo riderci.

Trattengo il respiro, perché non ho mai saputo essere costante nelle emissioni di fiato. Divento cisterna di respiro accumulato, un’energia alternativa che non costa nulla a nessuno, se non a me. Prima o poi l’anidride carbonica mi occluderà ogni foro. Nessuna uscita possibile.

Cerco di seguire il ritmo della sveglia per fare di me un tutt’uno ordinato.  Da qualche parte arriva un accento di musica: “Ho accettato il caos. Ora c’è da vedere se lui accoglierà me.” Si ripete, non dà scampo.

Non è andata cosi. Nemmeno il caos mi ha voluto, per lui, sono troppo voluttuoso. Ed anche l’anarchico vuole le sue regole, almeno per prenderle in giro.

Scorre sulla parete l’ombra del faro. E’ un muscolo di luce che si allunga senza sforzo. La seguo, oscillando come un pendolo.

Ciondola il mio capo di questi capelli bianchi e lunghi che non oso tagliare. Sono la chioma di un baobab invernale, sono i filamenti delle meduse che sbavano negli oceani. Lunghi, uno per anno, uno per ogni errore commesso. Sono diventati bianchi, perché il colore se ne è andato, annoiato.

La valigia ancora colma. Di fatti che ogni volta sono costretto a portarmi dietro, pagando un’eccedenza come contributo alla sopravvivenza.

C’è un treno a poca distanza da me. E’ nervoso, non sembra possa fermarsi. Comincio a correre ma solo con tutti i miei umori.

Passa e non mi ha nemmeno chiesto di prenotare la fermata.

Ed io, ancora sul letto, mi metto a seguire, per pura rappresaglia,  un ritmo del tutto personale.

L’unico tempo che riesco a regalarmi è laggiù, in fondo  a me stesso. Finalmente. Forse non sarà un atto giusto ma è tempo che mi ascolti ed io ascolto lui.

L’ultima onda, quella che non si annuncia eppure schiuma, risale dal fondo. Gorgoglia, spacca la pietra, macchia le resistenze.

Attendo l’ultimo, definitivo schianto.

Un rintocco di campana, lontano, pieno, vibrante, si stende proprio sulla sua sonorità. Crescono insieme. L’una celebra l’altra.

Nessuno mi ha sentito.

 

In un attimo sono per strada, mi ritrovo a prender schiaffi dal primo vento del giorno.

Le cose, l’una appoggiata all’altra, dormono ancora. Da qualche parte una finestra si apre, fa entrare l’aria nella cava. Non c’è alcun profumo ma da qualche parte arriva del caffè. A granuli, ad essenze, ad aromi che non si lasciano afferrare.

 Il primo quotidiano è uscito con gia troppe tirature, si legge poco in questa dimensione. Si preferisce guardare e poi, subito, distogliere lo sguardo. M’incammino verso il nuovo treno, lentamente, la stazione è a due passi dal nulla, una linea di fumo che pare sia solo una ferita nella pelle.

Questa volta non perdo il treno ma non è per la solita questione delle occasioni sciupate. Ho bisogno proprio di fuggire. E questa è una delle migliori occasioni che mi siano capitate in vita mia. Quella di andare e non tornare.  E’ lusso di pochi.

Arriva una fetta di luce a far da riflesso al mio umore. Il pulviscolo rosa di una mattina ingenua, apparentemente serena, si inietta nelle vene come alito fresco. Raggiungo un vagone fingendo di sceglierlo in realtà percorro a lungo un corridoio fatto di sedili vuoti ma non c’è un solo posto che sia degno di essere scelto. Un bambino che mi è apparso assolutamente dal niente, prende a correre contro di me,  come se non mi avesse visto.

Lo sfido, non mi sposto ancora. Lui sorride, entusiasta, qualche meta lo attende. Le guance gonfiate dall’età che accumula pensieri e desideri, la lucidità negli occhi regalata da una semplice voglia di fare.

Io non devio il mio cammino, è lui che deve fermare il suo, penso. Commetterei un delitto. Ma al momento non me la sento di farlo vincere.

Ti devi pur fermare. Tanto vale farlo subito.

Quel bambino non ha piu di otto anni. Me li metto tutti in tasca i suoi giorni. Otto anni mi son serviti per darmi un nome. Mi punta uno sguardo, ancora ridendo, questa volta più forte, solleva le ginocchia più in alto per dare spinta alla sua corsa. Gli converrebbe fermarsi se non voglia attraversarmi la pancia. Il problema sarebbe suo, incontrando a forza le mie viscere. Io non lo lascerò passare.

Qualcosa poi mi distrae, c’è una mano che saluta là sotto, sul binario. Saluti me? E cosa ne sai che vado? Provo a guardare per un istante come sia fatta quella mano che raggiunge solo un angolo del mio occhio.

E’ lasciva, mobile, un fazzoletto senza pieghe sconquassato da una corrente, le dita disarticolate in corsa centrifuga, bianche e lunghe.

Un saluto nervoso, aizzato dalla fretta oppure da una speranza di ritorno, un movimento vorticoso, una girandola di zucchero schizzata, la mano che dice “vaitornavieninonandaretuttobeneandràaddio”

In quell’attimo il bambino è già oltre me, ormai alle mie spalle, ho solo sentito una corrente ingenua che mi ha sollevato la pelle. Metto una mano sulla mia pancia. E’ integra, non ha perso viscere, non ha conosciuto entrate. In qualche modo, credo che il suo tempo, otto anni che a me son serviti per cercarmi un nome,  mi abbia attraversato. E non voglio nemmeno sapere come sia stato possibile.

Ho accettato il caos. Ora c’è da vedere se lui accoglierà me.

 

In treno una vecchia mi guarda. Dietro le sue lenti spesse, agita il capo minuto, orientandolo come un ago di bussola.

Ruota angoli di rughe per cogliere di me l’esatta prospettiva. Non mi centra. Le sue pupille roride mi bagnano ma non è piacevole.

Fingo di non avvedermi che lei sia lì a presenziare il vuoto eccellente. Mi pare sgraziato che un corpo voglia possedere un’ombra. E’ un rapporto incestuoso che prima o poi si pagherà.

La donna mi appare rassicurante nel venerando pallore della sua età, ha stretto congiura con il tempo, e se l’è forgiato ad immagine e somiglianza.

Non ho storie da raccontarle.

Irrigidisco i lineamenti del viso per apparire cattivo, per incuterle un legittimo timore.

Vorrei ucciderla. Ci penso un attimo ed è questo mi viene in mente.

Ha tanti strati addosso, un grosso scaldacollo, uno scialle che le riveste il cappotto. Ha un cappello. E sotto si scorge una fascia che le protegge la fronte.

E’ densa di successioni.

Lei mi guarda, io opto per una rigida indifferenza. Ci muoviamo sopra il frastuono delle rotaie, ci solleviamo assieme ai singhiozzi del treno, riprendiamo fiato quando questo treno, come un grosso cetaceo di acciaio, si mette a fischiare a pelo d’aria.

Arriviamo al confine, le regioni si danno il cambio senza alcun preavviso, come qualunque ragione.

C’è troppa roba che sta in fila, come le sedimentazioni della vecchia, i suoi anni ed i suoi panni, calati addosso a lei senza ordine né rispetto per i colori, è tutto lì, tutto lei. Separato dalle unioni forzate, dalle connessioni ardentemente volute.

E’ per questo che vorrei ucciderla. Perché si porta dietro ogni cosa, mentre io per paura del peso, ho lasciato la mia valigia in quella stanza. Non ho ricambi, non ho l’agenda con i numeri telefonici, non ho carte di credito, non ho il cellulare, non ho modo per ritornare indietro.

Ci sono due respiri che si rincorrono in questo vagone. Il mio si affanna a suonare spirali, il suo, regolare, lento, lento, percorre linee perfette.

 “Signore, abbiamo superato il confine?”mi chiede.

“Roba di pochi minuti.”  rispondo.

“Ah!” sospira.  “Un po’ triste.”

“Trova?”  scolorisco la voce, non voglio abbia accenti.

“Mah, un vecchio che lascia la propria terra non sa se avrà il tempo per tornarvi.”

La vecchia tenta di catturare il mio sguardo, con il solito gioco di prospettive. Non glielo concedo perché neppure io so esso dov’è. A volte lo ficco sotto le sue scarpe, a volte sulla calza destra appena squarciata da una riga. Ora sono fermo sul suo neo, lì, alla base del collo, dove si intersecano linee spesse.

Non mi guardare più altrimenti ti uccido.

“E’ qualcosa di noi, la terra.” Continua.

Si, brava, parla con il finestrino.

“Se potessi bruciarla la mia terra, rispettabile signora..”

 

Ella sorride appena rivolta verso il vetro, ma sciocca, ti vedo, che mi guardi. Hai finalmente individuato la traccia che va da te a me, è obliqua come i pensieri acrobati. Uno sguardo vitreo che mi torna indietro. Opaco, non diretto, trasversale, indagatore su commissione del vetro.

Sono fessurine irritanti. Ti uccido, vecchiaccia.

“Lei non sa quello che dice. La terra lo ha cresciuto come un fiore.” Enfasi retorica d’altri tempi. Guasta il senso dell’opportuno, questa tradizione dei vecchi. Non consola, turba.

“Ma  il fiore è seccato.” Continuo il gioco, mi fingo interprete del suo linguaggio, in realtà la tradirò con l’ultima versione non traducibile.

Quanto sei certa di te, di quello che senti intorno a questa terra, la terra ti è entrata tutta negli occhi, che importa se sia polvere.

La vecchia indugia, mi scruta in silenzio. Attaccherà ancora.

Accenna ad un sorrisino da stregaccia, ma forse è solo perché il sole che spacca il finestrino le accartoccia malamente la pelle.

La giornata è uscita fuori con incredibile bollore. Non si vede, quando c’è caldo. Lei è un grumo di rughe calde, tutto compattato come una tavoletta liofilizzata di sembianze umane.

Sulla piccola mensola dello scompartimento, c’è un giornale. Sorridendo lei mi prega di prenderlo, accennando con una mano alla sua schiena malata.

A malincuore mi alzo, come se nel distendere il mio corpo verso l’alto, perdessi il rassicurante rifugio della nicchia accanto al finestrino.

Le porgo il giornale.

Almeno ora leggi e stai zitta. La vecchia mi occupa sensi e gesti, placca ogni tentativo di restare in me.

Poi  mi fa cenno di seguire le sue manovre. Lentamente, bloccando gli arti, risvegliandoli a scatti, le sue mani bianche sradicano un foglio dalla piegatura centrale. E’ una cesura piana, uno strappo calmo, non c’è voglia di rottura. Con molle sospensione, quelle mani costruiscono un ventaglio. Piega dopo piega, sonorità che sale su sonorità. E’ tale la misura dei suoi gesti da restituirmi quiete, rilassa i miei muscoli il vedere la cura, l’amorevole lentezza con cui si prende a cuore la vita di una carta.

 Sorride e agita con eleganza il ventaglio dinanzi al suo viso, non è gesto da geisha, eppure sembra invitante.

Ma non finisce.

Stende nuovamente il foglio, lo tende agli angoli, stira il suo centro,  e poi lo arrotola. Gomitolo, rincorsa su se stesso, foglio su foglio, come carne stesa sulla carne, è diventato una sorta d’imbuto. No, è un cannocchiale per vedere le stelle.

Se lo porta ad un occhio, l’altro lo strizza e la sua faccia ora diventa un grumo.

 Mi guarda da lì dentro.

“Finalmente, ora vedo il colore dei suoi occhi. Bellissimo. Diafano, si vede la terra.”

Sorrido a quella strana esibizione, mi diverte. Come un bambino imbronciato a cui si conceda un diversivo.

Dopo poco si posa sulle mie gambe un piccolo aeroplano, ha virato solo per un istante, poi, sonoro, è atterrato senza applausi. Quieto, sui miei pantaloni. Lo cingo con le dita ad anello, ho paura di rompergli un’ala. La vecchia è imprevedibile, sta costruendo maschere di carta.

Ed una barchetta subito dopo, galleggia sull’improbabile lago di coca in una tazza.

Sempre con lo stesso foglio che ella pazientemente stende di volta in volta, mi giunge tra le mani, esausto eppure turgido, un  fiore.

“ Tutto viene da lì. Tutto, lì ritorna. Ma per fortuna, sa cambiare.”

Ha una voce di pietra.

“Non amo i cambiamenti. Vorrei calarlo nella calce questo fiore.” ribatto con crescente agitazione.

“Ma lei allora non comprende.”

“Gentile signora, suppongo che lei desideri tornare giovane, tornare come era. Non mi dica il contrario.”

La ucciderò dopo che mi avrà risposto. So di ferirla.

“Proprio come prima, dice, uguale in tutto e per tutto?” mi chiede ancora.

“Si, insomma, sì, tornare ad essere proprio quel fiore di cui tanto parla. ” continuo ansioso.

Fai presto che ti uccido.

La vecchia, allora, toglie il fiore di carta dalle mie mani esitanti e lascia che la piccola fiamma del mio accendino bruci appena il lembo del suo stelo.

“ Sarei un fiore nato morto” mi risponde.

“Una poesiola, la sua.” ribatto nervosamente, protendendo innanzi il mio corpo come per divorarla.

“Quanti capricci che sta facendo, per sola paura.” Mi rimprovera, prende forza, mi picchia. E’ diventata giovane sotto tutti i suoi strati di panni.

Irato, mi agito sulla poltroncina. Ella non può comprendere. Cosa conosce di me?

Lascio cadere il capo all’indietro, esausto.

Rivoglio quel fiore. Non altro dalla mia terra.

“Io ho ottanta anni, signore”. Mi dice compiaciuta.

Ottanta ed otto anni. Ottanta anni per capire che  dovrei cercarmi un nome migliore di quello che sono riuscito a trovare in otto anni di vita sprecata.

“Quello che ricordo è  proprio quello che sono. Perché mai dovrei voler tornare ad essere ciò che già sta qua?”

“Posso farle una domanda?” Mi chiede all’improvviso. Me lo chiede e non aspetta risposta.

“Ma quel fiore era così bello?”

“Indicibilmente.” Rispondo secco.

“Per fortuna lo ha conosciuto. C’è gente che per una vita crede ancora che esista il fiore azzurro. Nel perdere tempo a cercarlo, muore.”

“Sono morto dopo averlo conosciuto e perso.”

“Ma vede, io non voglio contraddirla. Il punto è che lei sbaglia proprio universo. La terra è gravida. Perennemente. Non dovrebbe contare il ciò che fa, ma il fatto stesso che lo faccia.”

“Facile, troppo banale.”

 Mi accorgo che la mia rabbia è mal trattenuta. Sento fiamme di calore invadermi il viso. Certo, in pratica sto cedendo.

“Lei è deliziosamente struggente, sa? Ha ragione. Non alletta il pensiero del nuovo quando il vecchio ci sosta sulle spalle. Che corvi, questi ricordi, quando invece di camminare a lato, si mettono a seguirci come spie.”

“Hanno fatto nido. Ci vorrebbe una disinfestazione.”

“Nulla di eroico, mi creda. La storia la fanno le guerre. Qua si tratta di sopravvivenza.”

In qualche modo le sorrido perché questa saggezza congrua mi ricorda radici possenti. Quel suo modo di rabbonirmi mi restituisce mia madre, seduta di fronte a me, con le calze sempre sfilate, i panni addossati l’uno sull’altro come su di una sedia vecchia.

“Ci stiamo dando troppa importanza, eh?”

“Non volevo dirglielo in questi termini. Però a contar i giorni di ieri, ci si perde sempre un po’.”

Quanto sei diventata forte.  Non uccidermi.

“Il conteggio non lo stabilisco io. Penso parta dall’ultimo giorno degno di esser stato vissuto.”

“Che stillicidio, si porti dietro ciò che vuole ma con sana selezione. Su scelga una carta.”

Non mi ero accorto che nel frattempo la vecchia avesse ritagliato dei riquadri leggeri e me li mostrasse così, tra le due mani.

“Cosa dovrei scegliere? Che figure sono?”

“E su, scelga. Chiudendo gli occhi, però, non bari.”

“Che  perdo se non lo faccio?”

“Tutto.”

Il gioco mi pare una sfida cerebrale.

Se vincete, vincete tutto, se perdete non perdete nulla. Scommettete, dunque, che Dio esiste, senza esitare.

Sfilo un quadrato di carta. Lo sfilo con tremore, come chi ha paura di aver scelto quella sbagliata. La guardo, l’occhio non vuole ma spia.

“Che ho vinto con questa scelta?”

“Tutto”. La vecchia è possente.

 “Su, ora, dorma un pochino. La sveglierò io, non appena saremmo arrivati.”

Apro gli occhi.

Sono solo. Il posto di fronte a me, vuoto. Sono arrivato al capolinea.

Sul tavolino, quel foglio di giornale ha assunto una nuova forma.

Un paio d’ali. Me le ha lasciate lei, lei che ho ucciso.

Nell’animo, la mia terra sta assumendo una nuova forma.

Un nuovo volo.

La notte è dei fantasmi e delle creature di solo buio. E’ il regno di pensieri  orfani   in contesa con l’alba, atomi di cuore senza nucleo, locandine di fantasia in disuso. Ma questa non è mai stata una notte.

 

© Valeria Francese





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