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LA MUSICA DENTRO (ispirato da un fatto di cronaca).
Marina lo sapeva com’era iniziata: aveva trent’anni e si era presa una brutta influenza.
Sola, sdraiata sul divano con quella vistosa macchia sul bracciolo sinistro, dove aveva rovesciato del succo di frutta, aveva cominciato a capire. Non era solo uno stupido raffreddore da soffiare via nel fazzoletto; era l’inquinamento, tutti quei tubi di scarico delle macchine che aumentavano di giorno in giorno, che la circondavano mentre si recava al lavoro. L’aria era il veicolo per una miriade di batteri. Minuscoli, invisibili creature che sapevano come entrarti dentro e ucciderti piano piano.
Si era alzata dal suo giaciglio, avvolgendosi intorno alle spalle una calda coperta a quadretti rosa. Dalle finestre del suo appartamento al terzo piano li vedeva: ecco le macchine che si incrociavano fra loro, persone che correvano stringendosi nei cappotti; riparandosi sotto al tetto degli ombrelli da una pioggerella che arrivava a picchiarle sul davanzale, sospinta da un vento mancino. Sputando addosso al vetro il rimbalzo del suo tuffo.
Frenetica aveva chiuso le persiane, tutte, così che la casa fosse completamente buia.
A tentoni era tornata al divano, starnutendo.
***
Viveva sola e la pazzia ben lo sa dove attecchire. Le sue radici affondano nelle persone lasciate a se stesse. Marina aveva un fratello e una sorella. Ognuno con il proprio tragitto da compiere. Anche lei ne aveva uno: segretaria, una volta alla settimana si recava in quel dancing fuori paese. Con un sorriso da rivolgere a bambini e vecchi. Questo era il perimetro dentro al quale aveva costruito la sua vita.
Non voleva morire! Non voleva che un virus ottuso le si avvinghiasse addosso, abbracciandola nella sua morsa letale.
Decise di non uscire più da casa. Di vivere rinchiusa, di autorecludersi. Niente visite, niente uscite, niente luce, niente aria.
Ah! Che provassero a entrare, escogitando stupidi sotterfugi. Non sarebbero riusciti a rubarle la giovinezza, la pelle bianca, l’esistenza!
Dopo poco dovette chiedere l’aiuto del fratello. Le occorreva qualcuno che le facesse la spesa, doveva pur nutrirsi!
Quel parente stretto, il solo di cui poteva fidarsi, veniva ogni tre mesi a portarle quello che lei chiedeva: cibo in scatola. Provviste che fossero sottovuoto, niente alimenti freschi. Non l’avrebbero imbrogliata intrufolandosi nei sacchetti della spesa.
La sorella, di notte, entrava di tanto in tanto per pulirle l’appartamento. Marina si accovacciava dietro al divano, lontana dai suoi fratelli. Loro malgrado potevano intro-durle in casa dei microbi sconosciuti. Loro erano ignari, non sapevano, non capivano. Lei, restando al buio, aveva visto i batteri incontrarsi e organizzare i loro sporchi piani.
Passava le giornate ascoltando la musica alla radio, ballando con se stessa nel grande e asettico salone della sua fantasia. Danzando nel buio, sulle note che riempiendo l’aria, facevano indietreggiare i mostri della sua mente.
Più di rado guardava la televisione, indifferente a quanto accadeva al di fuori del suo appartamento.
Ogni tanto berciava da dietro la porta, richiamando i suoi vicini, che chiudessero le finestre del pianerottolo: pazzi! Incoscienti! Lo sapevano cosa stavano facendo?
E, poi, tornava a danzare, con quella musica che le penetrava dentro come il più dolce placebo.
Il tempo correva via, con o senza l’aiuto dei batteri. Marina compì cinquantasei anni. Erano ventisei anni che stava reclusa senza vivere, per paura di morire.
Senza guardarsi allo specchio, evitando di vedere quel fantasma pallido, scarno, tutt’occhi in cui si era trasformata. Coi capelli che le ricadevano radi fin quasi alle caviglie. Mangiata a morsi dalla follia della sua fissazione e da quell’ingiustificabile adattamento nel quale si erano adagiati i suoi famigliari. E i vicini, ai quali bastava chiudere la propria porta, per dimenticarsi della vicina stramba, chiusa in una bara formato casa.
Dopo ventisei anni il fratello decise di denunciare il fatto, ma non per un gesto caritatevole nei confronti della sorella, della quale si era preoccupato solo di mantenerne la pazzia; ma semplicemente perché non era più in grado di soddisfarne le pretese.
Ed ecco piombare la polizia, i vigili del fuoco e le ambulanze. Marina li aveva uditi salire le scale. Quando bussarono, docile, andò ad aprire. Gli uomini fissarono l’orrore di quel volto devastato dal tempo e dall’assenza di sole.
La invitarono a seguirli e lei, dopo avere spento la radio e messo a tacere la musica, scese con loro.
Forse aveva aspettato per tutti quegli anni qualcuno che danzasse con lei, che sapesse guidarla altrove, con passi leggeri sulle note della musica che aveva dentro.
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Miriam Ballerini
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