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Due linee di luce dorata si disegnarono ortogonali e cominciarono ad espandersi sempre più mentre la pesante porta dell’appartamento si apriva sull’ingresso avvolto nel buio. La figura in ombra fregò i piedi sullo zerbino, si scosse, quindi sembrò indecisa su che fare dell’ombrello, finché gli mise una mano sotto la punta ed entrò oscurando il piccolo stanzino antistante. Sostò nuovamente, ma solo un attimo, poiché con il tallone richiuse l’uscio precipitando l’intera casa nella più completa oscurità.
Luca abitava una casa si tre stanze nella periferia di Milano. Aveva dovuto scegliere se pagare col suo stipendio un monolocale in centro (beh, quasi centro) oppure qualcosina di più abitabile nell’hinterland. La seconda opzione gli era parsa più saggia ma soprattutto più adatta alla sua vita di scapolo molto ricercato dalle donne. A tal proposito non poteva negare a se stesso di aver ben ripagato l’incomodo di abitare non proprio a quattro passi dal cuore della città. Il giorno prima, ad esempio, si era portato a letto una brunetta riccia davvero niente male. L’aveva conosciuta in discoteca. Era la sera di Halloween e lui si era presentato con una maschera da lupo mannaro. Mentre i suoi amici bevevano al bar, lui era andato in giro a “mordere” le ragazze. Aveva subito puntato la coniglietta riccia ed era andato ad importunarla, badando però di non essere troppo insistente. Si era quindi allontanato senza scoprirsi il volto. Luca era un ragazzo alto e ben proporzionato e sapeva di aver quantomeno mosso la curiosità della ragazza. Più avanti nella serata le era passato accanto senza maschera e si era presentato come “il lupo di prima”. Di lì in poi non era stato granché difficile, come del resto tutte le altre volte, soprattutto perché, ormai, era diventato un maestro nel riconoscimento di quelle che ci potevano stare. Avevano fatto sesso per tutta la notte. Si erano svegliati a mezzogiorno. Lui aveva preparato il caffè (cercava sempre di essere gentile, dopo), l’avevano bevuto parlando di locali in cui si sarebbero potuti rivedere e pensando a quando avrebbero potuto svincolarsi dalla reciproca compagnia. Quel pomeriggio stesso era andato a giocare a pallone con i suoi amici ed ora se ne stava lì, sull’ingresso, fradicio di pioggia e con i muscoli doloranti.
Conosceva ormai bene la casa (del resto erano solo tre stanze, bagno compreso, e un corridoio) e non aveva difficoltà a muoversi anche nella più completa oscurità. Un passo avanti per schivare il comodino all’ingresso, poi tre passi e mezzo a sinistra per raggiungere l’interruttore della luce del bagno che era posto sulla parete esterna a destra della porta.
Uno. Con calma perché sul comodino c’era la lampada con le bolle. E poi uno, due, tre e… mezzo. Allungò la mano e fu quasi sul punto di cadere. Si era sbilanciato in avanti ma il muro era quaranta centimetri oltre la portata del suo braccio. Incespicò e urtò contro la parete, non risparmiando per l’occasione il suo repertorio di volgarità. Cominciò a tastare finché arrivò all’interruttore parecchio sulla sinistra. Accesa la luce si accorse di aver percorso il corridoio in diagonale.
Aveva da qualche mese preso l’abitudine di chiudere bene le serrande di tutte le finestre. Un campo zingari si era stabilito in uno spiazzo a circa un chilometro da lì, sotto la tangenziale. A dire il vero, lui non se ne era neanche accorto poiché non passava mai da là. Non era neanche un ascoltatore delle reti televisive locali dove la notizia probabilmente era stata divulgata. L’aveva scoperto una mattina di fronte al portone. C’era la vecchia del piano di sotto che piagnucolava con un’altra vecchia del palazzo. Sarebbe anche passato oltre se non fosse stato chiamato: “Signor Orti, stia attento che stanotte hanno rubato a casa della signora Ghisi”. Venne così a sapere di tutti i particolari ma soprattutto dei risvolti emotivi del furto per la signora Ghisi. Da allora aveva cominciato a lasciare tutte le serrande di casa chiuse quando usciva e quando dormiva.
L’ombrello era caduto, bagnando il pavimento. La luce del bagno illuminava la superficie lucida dell’acqua. “Che palle!”.
Entrò nella stanza, posò l’ombrello nel lavandino e si sedette sul gabinetto. Ne aveva proprio bisogno. Stirò le braccia, poi si rilassò con i gomiti sulle ginocchia nude. I pantaloni alle caviglie. Stette così per qualche minuto, senza sentire il leggero ronzio nell’aria. Poi, senza alzarsi, aprì il rubinetto della vasca da bagno e l’acqua cominciò a scrosciare. Si spostò sul bidè e tirò lo scarico.
Si guardò il pene. Lo sentiva ancora formicolare dopo la nottata. Era venuto quattro volte e non si erano risparmiati niente… E poi era da almeno tre settimane che andava in bianco. Pensava che avrebbe potuto chiamarla, magari fra un paio di giorni: in fondo non era poi così male. Dove aveva messo il cellulare?
Il rumore dell’acqua lo risvegliò. Finì di lavarsi, si alzò e si asciugò. Invece di tirare su i pantaloni, sfilò via le scarpe da tennis con i piedi. Scalciando l’aria si liberò di pantaloni e mutande quindi si tolse la maglietta e il giubbotto e li scaraventò a terra. Aveva un bel fisico: le braccia erano lunghe e muscolose. Le gambe agili. Stava però iniziando a metter su un po’ di pancetta. Mmh, male. L’acqua scorreva rumorosa dal rubinetto della vasca coprendo il debole ronzio. Tornò ad osservare il suo pene. Ne andava orgoglioso anche se ora stava lì raggrinzito e abbassato. “Devo comprare i preservativi” Ne era rimasto solo uno.
Si accorse di un leggero odore di bruciato. Di gomma bruciata. Cosa c’era, adesso? Luca si guardò attorno infastidito poi andò, nudo com’era, nel corridoio in penombra. Diede un’occhiata all’acqua lasciata dall’ombrello sul pavimento… L’avrebbe pulita dopo, ora aveva solo bisogno di un bagno caldo. Annusò l’aria. L’odore acre della plastica bruciata era leggermente più forte. Si diresse verso la cucina che se ne stava in letargo avvolta nell’ombra. Infilò la mano oltre il muro e, tastando, le dita corsero all’interruttore. Se fosse entrato, al buio si sarebbe accorto della leggera luminosità rossastra intermittente che filtrava ai lati del pulsante; ma era rimasto fuori e lo schiacciò.
Un rumore come di uno sbuffo di aria compressa e la casa si oscurò di colpo.
Luca emise un grugnito. “Porca puttana. E ora dov’è il contatore?”
Staccò la mano dal muro.
Per un attimo ebbe un senso di vertigine, perso in quel vuoto nero che era lo spazio attorno a lui. Poi si aggrappò allo scrosciare dell’acqua che proveniva dal bagno. Rifletté un attimo e visualizzò il contatore della luce accanto alla porta d’ingresso. Fece un passo lungo il corridoio, poi, ricordando la caduta di poco prima, pensò fosse più saggio percorrere il perimetro del muro e tese il braccio alla sua sinistra.
Non toccò nulla.
Indispettito fece un passo in quella direzione ma la sua mano continuava a tastare solo aria. Strizzò gli occhi per cercare di scorgere qualcosa nella completa oscurità ma questa sembrò addensarsi ulteriormente attorno a lui. Sentì un brivido salire dai piedi nudi contro le piastrelle fino ai glutei e pensò all’acqua che continuava a scorrere nella vasca. Fece un altro passo, ma nulla ancora. Una irrazionale paura lo attraversò e un nuovo brivido, questa volta non di freddo, gli scosse la nuca e le spalle nude. Scacciò via questo pensiero ma una sorta di irrequietezza gli rimase addosso. Fece altri due passi ma niente. Dove cazzo era finito? Stava cominciando a innervosirsi. Prese a camminare: prima o poi questa cazzo di casa doveva pur finire. Ma si fermò subito. Decise di seguire il rumore dell’acqua che scorreva: avrebbe raggiunto il bagno e da lì si sarebbe saputo orientare anche al buio. Uno, due, tre, quattro, cinque, sei… sette, otto nove dieci. Il rumore dell’acqua era ora più distante. Assurdo. Cominciò a respirare forte. Una sorta di ansia lo stava sconfiggendo. “Ok, Luca. Calma. Non sei un bambino… quindi smettila con questa paura del buio e, soprattutto, smettila di girare, CAZZO, IN TONDO!”.
Protese le braccia avanti e, cercando di trattenere più che poteva le sue gambe irrazionalmente desiderose di correre, camminò tremante. Ma non arrivò a nulla.
Il suo respiro era diventato sincopato. “Hei! HEI! Dove CAZZO è ‘sto bagno?”. Si fermò. Fermò anche il respiro mentre il diaframma continuava imperterrito a contrarsi. L’acqua. Il rumore dell’acqua era vicino. Un po’ a destra. Fece cinque passi. Li contò, non sapendo perché. Buio.
“AAARGGHHH!” Corse. Dritto, ne era convinto, ma non urtò nulla.
Ansimava. Cercò di parlare ma ottenne solo un lamentoso piagnucolio. Si sedette a terra. Le natiche nude aderirono al pavimento freddo. Portò i piedi al corpo e abbracciò le gambe. Posò la testa sulle ginocchia. Si scosse per il freddo.
Un improvviso terrore gli tirò su la testa e gli fece sbarrare gli occhi che rimasero fissi nella più completa oscurità. Voltò la testa tremante. Ma nessun colore trapelava oltre quel sudario nero, nessuna luce filtrava. Portò le mani di fronte al volto… ma non le vide. Le avvicinò… Le allontanò… Nulla, solo il debole scrosciare dell’acqua in lontananza ed il suo respiro.
Possibile che fosse lui a girare in tondo; o forse era la casa a muoversi al buio. Rabbrividì.
Fece per tirarsi su e poggiò una mano sul pavimento freddo. Bagnato. Rimase immobile per un momento, poi lacrime gli linearono le guance. Era dove l’ombrello gli era scivolato a terra: doveva essere vicinissimo al muro. Allungò le braccia. In tutte le direzioni. Le allungò di più. Pianse.
Il velo d’acqua sul pavimento ora era arrivato a bagnargli le ginocchia posate sulle mattonelle, poco più in la della sua mano. “Non è l’acqua dell’ombrello. E’ l’acqua che esce dalla doccia!”. Saltò in piedi. Scivolò, cadendo per terra. Urtò dolorosamente il gomito ma si rialzò e corse, corse corse ancora.
Corse nel buio.
Finché anche lo scroscio dell’acqua scomparve al suo udito. E con lui l’ultimo punto di riferimento nell’oscurità.
©
Marco Battiato
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