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A volte i segreti sono macigni. Pietre tombali da apporre sul cuore. A volte viene da chiedersi se non staresti meglio senza. Quando le cose che hai appreso, a volte senza volere, a volte di proposito, t’inseguono, e nove volte su dieci ti prendono. Ero ancora un ragazzo, quando appresi qualcosa di sconvolgente riguardante il mio migliore amico. Gli amici sono quelli che ti traggono in salvo quando credi di precipitare o quando precipiti sul serio sulle onde della vita che diventa di giorno in giorno meno sostenibile. Ma sono anche quelle speciali persone che ti tirano a fondo quando il nero ricopre i loro pensieri. David era uno di questi. Lo conobbi quando entrai a far parte dell’azienda dove lavorava da tre anni. A quel tempo di anni io ne avevo ventisette, adesso la pelle rugosa cresciuta oltre ogni previsione ricopre le mie fattezze. Gli anni hanno cancellato quello che di gradevole c’era in me. Ne sono passati da allora. Sessanta per la precisione, adesso mi trascino su gambe sempre meno sensibili, i miei movimenti sono rallentati al punto che mi chiedo quale strampalata centralina coordina ormai queste mie stanche membra. Se esiste davvero un Dio benevolo mi chiedo quanto tempo ci metta prima di tagliare il filo che mi tiene in vita. Mi chiedo nel buio delle stanze di notte, quanto ancora riuscirò a sopportare l’eco dei miei ricordi. Quanto potrò vivere ancora con questo segreto. Mettiti qua e aspetta le disposizioni – mi disse il caporeparto, un tipo filiforme con un pessimo alito e un carattere se possibile peggiore. Annuii. Ero appena uscito da una situazione familiare deludente, ero stato sposato ad una donna per sei anni, un tempo lunghissimo se si considerano le volte che siamo stati lontani, nella speranza che il tempo potesse lenire le nostre ferite. Ma niente, il tempo non lenisce un bel niente, semmai acuisce i pensieri negativi, incattivendo la tua anima. A me era successo, brancolavo da qualche giorno alla ricerca di una casa per le vie tortuose di una città pullulante, la mia casa era rimasta ad Elena e ai nostri due figli. Me n’ero andato di notte dopo l’ennesima lite, lei mi aveva inseguito fin sotto il portico ma le sue lacrime e le lusinghe non erano bastate a trattenermi. In ognuno di noi c’è un briciolo d’orgoglio, in me ce n’era troppo forse, ma non sopportavo più gli sguardi del vicinato dopo che lei mi aveva confessato che se l’era fatta con il mio miglior amico. Avevo fatto strike, in un solo colpo avevo perso moglie e figli, un amico e la fiducia nel genere umano. Troppo, se si considera che allora ero sotto i trent’anni. Adesso forse ingoierei il rospo con più disinvoltura, ma cose del genere non capitano mai ad un uomo che è sulla soglia dei novanta. Ci sono altri guai alla porta, incontinenza, scarsa memoria al punto da dubitare se ho chiuso il gas o la porta o di che giorno è. Sono solo adesso, il tempo è diventato una tartaruga pigra, la casa ha un’eco che non mi piace e a volte scorgo negli angoli ombre consistenti che mi mettono l’ansia addosso anche quando mi dico che è solo sintomo di senilità. Ma torniamo ai segreti. Cominciai a lavorare alla fabbrica e David aveva sostituito in tre mesi l’amico che avevo perduto, avevo ancora delle riserve nei suoi confronti, i cosiddetti puntini sulle i, ma per il resto era l’unica persona che aveva cercato di tirarmi fuori dal mio continuo commiserarmi. Voglio presentarti una persona – mi disse un giorno – so che ne rimarrai affascinato. Per me, che di tempo ne avevo da vendere, non faceva differenza. Ero un uomo libero, sulla scia di nuove avventure. Pulisciti le scarpe sullo zerbino – mi consigliò. Non sapevo dove stavamo andando, non glielo avevo chiesto, né m' interessava, ero disincantato ormai, almeno lo credevo, mi sentivo più arido, più duro di un terreno difficilmente conquistabile. Ma mi sbagliavo. I pochi secondi che rimanemmo ad aspettare, prima di suonare il campanello, mi spinsero a fare delle indagini – chi siamo venuti a trovare, David? Non rispose, mentre pigiava il dito sul campanello. Ci aprì una ragazza sui trentacinque, alta, i capelli neri ricoprivano la parte superiore del suo corpo, pensai a sproposito che le arrivavano tra la fessura che divide la segreta conchiglia. Aveva gli occhi che vedevano lontano e labbra carnose che t’invitavano al bacio, mai avevo visto in una sola ragazza tante belle cose messe assieme. Mia moglie non era quel che si dice una bellezza, eppure era riuscita a far cadere nel peccato il mio amico più caro. Povero imbecille, se avesse visto questa divina creatura non avrebbe girato lo sguardo su mia moglie una seconda volta. Aprì la porta e ci lasciò entrare in un lungo budello fresco e gradevole dopo l’afa che c’era all’esterno. L’ambiente era in penombra, la mia pelle, per un breve momento, si era rizzata in minuscole protuberanze, come se qualcuno mi spiasse a mia insaputa. Sentivo addosso l’eco della mia voce, quando avevo risposto a mia moglie, quel giorno sotto il portico. Mai! Mi piovve addosso in un attimo il giorno del nostro matrimonio, l’abito bianco, il cielo terso e una megera spacciatasi per la zia di mia moglie. Mi sovvenne il volto di mia madre sul suo letto di morte, un passero polveroso calpestato dal tacco dei miei scarponi quando avevo dieci anni. Tutti pensieri negativi, tutte sensazioni che avrebbero messo la febbre addosso, se non fossi stato tanto arrabbiato e senza aspettative. Vedevo David camminare come su soffici nuvole, guardavo il suo corpo muoversi con la consistenza strana dei sogni. Venite con me – disse la ragazza e la sua voce era un sussurro a un orecchio, il solletico alla pianta dei piedi, acqua gelata gettata sul viso a Gennaio. La seguimmo. Dio ci perdoni, ma lo abbiamo fatto.
Da bambini siamo delle scimmie pronti a imitare i genitori. Vi rendete conto che la voce e le movenze sono pari, pari le loro? E anche se una volta cresciuti ci allontaniamo, facendo altre inevitabili esperienze, girando il mondo e cacciandoci in guai sempre più seri e prendendo una personale impronta nella vita non ci libereremo mai di quel timbro di voce simile al loro o delle loro movenze nel camminare o di quella particolare smorfia come quando si addenta un limone particolarmente aspro. I genitori ci rimangono addosso, come noi rimaniamo appiccicati addosso ai posteri. E’ inevitabile, gli errori dei padri ricadranno sui figli e nove volte su dieci i nostri errori sono ancestrali memorie dei guai che hanno combinato loro quando credevano di avere vicino un soldo di cacio che non capiva e che assorbiva invece tutto come una spugna. Ha un bel dire una mia parente con la testa vuota e la bocca piena di belle parole che i figli sono figli, che crescendo e vivendo a contatto con altra gente, istruiti più dei loro padri devono passare sopra agli errori dei padri. Solo parole affermo io, solo fottutissime parole che su alcune persone lasciano il tempo che trovano. Le esperienze avute da bambini, quando idolatravi i tuoi vecchi, saranno un marchio dentro la tua testolina pensante. Non che voglia giustificare il genere umano, affermando che i nostri errori sono tutti frutto dell’aver vissuto fianco a fianco con i nostri primi educatori, ma per buona parte si. E che la smettano queste persone, che credono di conoscere la psicologia di tutti, cominciando invece ad analizzare la propria. Errore... Che suono dolce ha questa parola, quando lo fai esclusivamente con le tue mani e riesci in un secondo tempo ad accorgertene. Alcuni li fanno e li conservano come diamanti, da non toccare mai. Quelli sono gli arroganti, gli stupidi. Credere di essere sempre nel giusto lo è, credere d' averla sempre vinta lo è, non redimersi mai lo è. Non ritornare sui propri passi e chiedere scusa lo è. Conosco persone ignoranti che credono di essere i fautori del mondo – che schifo ascoltarli. Sentire le loro voci senza vomitare, guardarli e capire che sono destinati a sbattere il naso innumerevoli volte, prima di accorgersi che anche da loro spilla sangue. Io nel bene e nel male avevo ereditato dai miei l’umiltà, il radar che ti fa vedere i tuoi errori. Da mia madre avevo preso il senso della giustizia, la riconoscenza, il perdono. Avevo perdonato Elena, ma non di averlo fatto nel nostro letto, sotto lo sguardo delle mie creature. A quattro e a sei anni è difficile comprendere, ma vi meravigliereste di vedere quanto riesce a vedere un bambino, ben oltre gli occhi. Prendevo la vita troppo sul serio, questo era il mio peggior difetto. In quella casa, David mi fece perdere questo atteggiamento. Per la prima volta in vita mia, ero pronto a tutto. Che siamo venuti a fare? – chiesi senza ottenere risposta – cosa ci ha spinto fin qui? Vieni – mi disse la ragazza. Ci allontanammo, lasciando David nell’anticamera. I suoi occhi sognanti non mi piacevano, né mi piaceva il suo sguardo perso nel nulla che non afferrava mai il mio. La ragazza mi precedette in una stanza buia, bastò accendere la lampada sul tavolo per fugare le ombre e ricacciarle negli angoli. Mi sedetti di fronte a lei al di là della scrivania, lei prese uno dei libri ingialliti che aveva davanti, avevo paura che si sgretolasse tra le sue mani ma lei cominciò a sfogliarlo e a ripetere strane parole. A quel punto cominciai ad avere paura sul serio. Non eravamo venuti a trovare delle donnine allegre come avevo pensato in un primo momento, in quella casa c’erano delle forze esoteriche che mi spingevano a dire cose che non avrei mai detto in altre circostanze. Sei sposato? – mi chiese a occhi chiusi, ripetendo prima e dopo la domanda strane parole dal suono esotico. Ma cosa c’entra questo? – riuscii a dire. Lo sei? – insisté. Annuii. Come si chiama? – e la sua faccia sembrava mutare sotto i miei occhi, adesso era una ragazza piacente, il momento dopo era una centenaria col collo raggrinzito di gallina vecchia. Non saprei, ma anche in quel momento, sentii che a pronunciare il nome di mia moglie avrei decretato disgrazie sulla sua testa Mia madre mi aveva insegnato che i panni sporchi si lavano dentro casa e che fuori è bene che tu faccia vedere la parte migliore di te. Ero restio a confessare a questa misteriosa sconosciuta gli affari miei, ma era pur vero che c’era come una forza che mi spingeva a sparlare, ad aggiungere paglia sul fuoco, a dire anche cose non vere sul suo conto e questo non è da me. Ho sempre pensato che non riuscirei a dormire di notte con la coscienza sporca e che agendo nel giusto sarei comunque stato ricompensato. In quel momento il senso delle proporzioni era allargato oltre misura, allora la calunnia sembrava il solo pane che conoscessi. Raccontai e raccontai più di quanto volessi e alla fine esausto mi appoggiai alla spalliera della poltrona e chiusi gli occhi, lei finì di recitare le sue strane parole e si alzò. Adesso – disse – prendi questo sacchetto e brucialo. Devi farlo di notte quando la luna è piena, raccogli le ceneri e gettale al vento. Allungai la mano e accettai la condanna a morte di mia moglie. Non sapevo allora, che se tiri una trama inevitabilmente ti tiri dietro un’intera sottana, che ogni azione è correlata a un’altra e che le tue sono conseguenze di quelle di un altro e di un altro e un altro, come un mosaico tutto è concatenato, predisposto ad incastrarsi nei tasselli giusti. Stavo innescando una bomba, che avrebbe fatto saltare in aria molte teste. Ma non capivo ancora perché eravamo lì, cosa avesse fatto quella megera e che c’entrava mia moglie in tutto questo. Lo capii qualche tempo dopo, ma ormai anche volendo non avrei potuto arrestare il corso degli eventi. La valanga stava giungendo a valle, con tutti quelli travolti dal suo passaggio. Ho avuto molto tempo da allora per pentirmi, ma i pentimenti a posteriori sono inutili come acqua tirata su da un pozzo con un cestino di vimini. Uscito da quel misterioso budello buio mi sentii rintronato, David mi camminava accanto senza dire una parola, era come se il fiume ininterrotto fosse stato fermato da qualche ostacolo. Mia moglie morì una mattina di Luglio del 1958. Metà della casa le era crollata addosso mentre si preparava ad uscire, stranamente nel crollo di una casa seminuova erano periti anche i nostri figli. Dire che mi disperai è dir poco, confessare che si è trattato di una miserabile coincidenza è troppo poco, perché non ci credo. Penso invece che a volte credi tanto ad una cosa da farla avverare, credo che qualcuno ha recitato senza prima avvisarmi le preghiere sbagliate. Partecipai ai funerali come un sonnambulo. Sto impazzendo – mi dicevo – sarò pazzo davvero dopo che avrò sotterrato i miei figli. Ma non successe, la vita va avanti anche quando ti ferisce a morte, la vita va avanti trascinandoti per forza d’inerzia. Da allora ho cambiato troppe città, ho incontrato delle persone che poi ho lasciato scorrere via. Sono solo. Solo. E’ questa la parola che mi fa paura, adesso più di prima. Ho parlato del mio segreto su questi fogli; li lascerò sul tavolo in cucina, qualcuno li troverà quando troveranno il mio corpo penzoloni da una corda appesa ad una trave. Sarà come un’espiazione.
La mia confessione.
©
Anna La Rosa
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