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Mi hanno chiamato Egidio. E secondo me è colpa del nome, è colpa del nome se in trentasette anni e dieci mesi non ho mai combinato nulla. Cos’ho fatto, alla fine? Nulla, proprio nulla. Sì, ho imparato a fare bene gli spaghetti, con l’aglio la cipolla il pomodoro e una mezza carota tagliata, ma a parte questo non ho mai combinato nulla. E adesso fa pure freddo, su questa panchina del parco, e tra poco magari arrivano anche i tossici, e vorrei proprio che uno di loro mi uccidesse per prendermi i dodici euro che ho in tasca, che tanto non è che abbia qualcosa da fare o da recriminare, non saprei proprio che farmene di un altro po’ di vita. Guardo le piante e almeno loro hanno uno scopo, tutti i giorni sanno cosa devono fare, rilasciano ossigeno e intanto si nutrono, vedi che la fotosintesi gli da uno scopo ben preciso a queste cazzo di piante, ogni giorno sanno cosa devono fare. Io non l’ho mai saputo cosa dovevo fare, anche se certe cose poi le ho fatte, come prendere una laurea in antropologia che nessuno l’ha ancora capito a cosa serve una laurea del genere, forse puoi insegnare o girare il mondo, ma io non ho mai insegnato né girato il mondo, e quindi sono qua seduto su una panchina, e ho trentasette anni e mi chiamo Egidio. Vivo ancora con mia mamma che tra un po’ muore, e mio padre è già morto da un pezzo, e mangio ancora i sofficini quando dovrei mangiare fagiolini o pomodori perché fanno bene, perché prevengono le malattie, ma almeno se mi ammalassi saprei cosa devo fare, dovrei curarmi, perché qualcuno ha detto che quando sei malato devi curarti, non puoi stare lì a non fare niente, ad aspettare che la malattia ti risucchi. Mi alzo dalla panchina perché non voglio vedere nessun tossico con gli occhi a spillo, così comincio a camminare e ad abbottonarmi il giubbotto, un bottone alla volta, i bottoni di questo giubbotto che mi ha regalato Sandra, la mia vecchia ragazza, anche se poi non c’è mai stata una nuova ragazza, e passo davanti a un fast-food che a vederlo da fuori mi fa venire fame. Allora entro nel fast-food e il caldo che c’è dentro è proprio rassicurante, devo addirittura levarmi il giubbotto che mi ha regalato Sandra, e scopro che la cassiera mi ricorda un po’ lei, la mia vecchia ragazza, forse perché la faccia è simile o il taglio di capelli è lo stesso. Chiedo a Sandra di darmi un hamburger e lei grida a qualcun altro, qualcun altro che sta in cucina, di portare un hamburger che ne ha bisogno subito, e poi l’hamburger arriva e io mi vado a sedere da qualche parte. Mi siedo vicino a un ragazzo e una ragazza che non parlano molto, stanno zitti davanti ai loro panini e si guardano negli occhi, secondo me sono innamorati, perché a diciassette/diciotto anni è più facile essere innamorati. Io penso a quando avevo diciassette/diciotto anni e stavo con quella ragazza là, quella ragazza che forse si chiamava Francesca, e le dicevo un sacco di cose tipo che la sposavo e facevamo dei figli, ma poi alla fine lei mi ha mollato per uno che andava in palestra tre volte alla settimana, tutte le settimane, anche la settimana di Capodanno. Poi penso a mio nonno Eusebio e a mia nonna Graziella, che adesso sono morti tutti e due ma una volta erano vivi, e si erano sposati quando erano ancora vergini, quand’erano fidanzati solo da un mese, e tutti e due non s’erano mai fidanzati prima di allora. E se anche io avessi fatto così, come mio nonno Eusebio e mia nonna Graziella, forse adesso non sarei qui a mangiare un hamburger, forse sarei sposato con Francesca, sarei in qualche bella casa a guardare la televisione, e Francesca mi chiederebbe com’è andata a lavoro, e parlerebbe sottovoce perché nostro figlio s’è addormentato sul divano, e con questi bei pensieri finisco di mangiare l’hamburger...
©
Iacopo Barison
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