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Sono andato a cercare quest’angolo di spogliatoio dove non può vedermi nessuno, per gli ultimi esercizi di riscaldamento prima di mischiarmi agli altri. Ho lasciato fuori, larga, la maglia col numero 14 e tirato giù i calzettoni. Mi specchio mezzo secondo e mi sistemo la fascetta che mi tiene fermi i capelli biondi, lunghi sulle orecchie. Sembro più Agassi il tennista- geniaccio che Cruyff, conciato così. Ma é il mio giorno del debutto e posso concedermi tutte le fantasticherie del mondo. Mi ha talmente dopato di quel fuoriclasse in maglia orange e le sue giocate da asso della pelota, mia madre che l’ha elevato a suo mito stabile negli anni 70, che l’idea di potergli somigliare m’ha sfiorato spesso. Ma non sarò mai un trequartista o un uomo-squadra, questo è certo. Vado bene come terzino d’attacco. Ho un bello sprint, una buona progressione, vedo discretamente il gioco e poi vado forte col cross. Peccato che sia tutto destro. Ci ho provato ad esercitarmi col sinistro, ma è stata sempre dura. Ed il mister m’ha piazzato lì sulla fascia a tenere a bada il tornante avversario con licenza di sganciarmi e uccidere. Cioé crossare, mirando ai due crani vincenti del nostro attacco.
Mi do l’ultima scrollata prima di andare verso i compagni, tutti un po’ nervosi e concitati, presi a commentare il tutto esaurito di pubblico e il gran tifo contro che non preannuncia niente di buono e penso che è il giorno del mio debutto. In B, appena oltre metà stagione. Noi al secondo posto, due punti dietro loro che guidano la classifica. E’ proprio di quelle domeniche toste dove senti che l’inverno se ne sta andando, ti verrebbe già voglia di girare in maglietta e pantaloncini ma devi scacciare l’idea e pensare che hai ancora tutto da giocare, da dimostrare. Specie io che ho appena 21 anni e non posso perdere la mia grande occasione. Dopo un paio di stagioni in prestito nella serie inferiore dove mi sono fatto le ossa convincendo i dirigenti, mi sbattono in prima squadra. Robin, il rifinitore, mi batte una mano sulla spalla. “Vai Cris che questa è la tua partita. Te l’ha fatto il predicozzo psico-tattico, la tua mamma?” Sorrido. Cerco di tirar fuori un ghigno perché non mi va che mi si senta troppo “pulcino” anche se sono al debutto in serie B ed ho sempre quest’aria un po’ da bimbo, malgrado il metroeottantacinque e le spalle larghe e queste gambe chilometriche che in pochi secondi tagliano tutto il campo, sempre sull’out ed ogni tanto convergendo più verso il centro.
Ma tanto lo so che é un argomento fisso. Mia madre giornalista sportiva che sta simpatica a tutti perché non è di quelle sfrontate e saccenti ma dice la sua con calma e schiva i salotti tivvù. Lei che m’ha cresciuta praticamente da sola, con l’aiuto dei nonni finché ci sono stati e non m’ha fatto mai pesare l’assenza della figura maschile. Il pallone è stato sempre il mio gioco preferito anche se lei m’ha viziato in mille modi, fra robot e videogames. Ma ce l’avevo nel sangue, era inevitabile.
Non a caso sono figlio d’un coach, si sono conosciuti per un’intervista e poi si sono rivisti anche troppe altre volte nelle stanze d’hotel e lei non me l’ha tenuto nascosto mai anche se la sua love-story con lui è stata di quelle clandestine e neanche gli ha chiesto di riconoscermi, per evitare gli scandali. L’ho inseguito tanto, quel padre. Sui giornali, sull’almanacco del calcio, nelle vecchie figurine di quando giocava anche lui. E me la ricordo come un’esperienza quasi fatata, l’unica volta che l’ho visto a tu per tu. Alla fine di un derby che ce l’aveva fatta a vincere ed era tutto impettito, cercava di fare il duro che non straparla, però si vedeva ch’era contento. Mia madre s’è infilata negli spogliatoi tenendomi per mano. Io avrò avuto sei anni e già me la cavavo coi palleggi. Così, fra un saluto e quattro colpi di tacco con Jonathan il fantasista della squadra, m’azzardavo a guardare dritto negli occhi il mister e sentivo quell’emozione che ti soffoca la gola e vorresti dire un sacco di parole e non te ne viene fuori una giusta. Lui vedeva ch’ero tutto preso da palleggi e agganci volanti, rideva soddisfatto e mia madre schivava i complimenti del clan e diceva ch’era ancora presto per predirmi una bella carriera. Lui faceva cenno di sì. Poi col vocione tenero mi diceva “Dai che se continui così...mi sa che mi tocca farti esordire in prima squadra!”. Poi mi regalava una carezza tenera sulle guance. Me la sono conservata nel ricordo per due giorni. Quasi non volevo più lavarmi il viso”. Però poi a me a mia madre ci ha preso un pianto balordo e se non scattava l’operazione gelatoalcioccolato&cartone animato, sarebbe stata dura. Da quel pomeriggio, non le ho più chiesto di portarmi a vederlo.
C’è stato un momento che volevo mollare il football per mettermi a suonare con una band perché la passionaccia per il rock me l’ha passata proprio lei, via Dna. Lei che ha un’immensa collezione di vinili e CD di tutte le band più stratosferiche della storia e quando ho bisogno di caricarmi mi chiudo in garage con il walkman e le cuffiette e mi sparo qualche ballads tiratissima, tenendo il ritmo sbragato in terra, con le mie leve da fenicottero fasciate nei jeans che vanno a tempo e la mia voce un po’ roca che urla per dimenticare quant’é balordo il mondo.
L’ho fatto anche ieri, chiuso in stanza dopo aver spento la luce alle dieciemmezza, immaginando come sarebbe stato il match di oggi. Anche perché di fronte non avrò solo la mia gara ufficiale in una serie maggiore ed uno scontro al vertice. Ma anche il confronto a distanza con mio fratello. Eh già, il mio fratellastro. Figlio legittimo del coach. Ormai arrivato alla soglia dei 31 anni, punto fermo della sua squadra. Esterno sinistro (si vede che il piede mancino a lui ha carburato spontaneamente) pure lui col ticchio di fluidificare. Non è mai stato un campionissimo e la soglia della serie A non l’ha sfiorata. Ma per il suo pubblico è un piccolo mito. Ecco, stiamo andando in campo e sfiliamo veloci, tutti un po’ tirati, dandoci il cinque prima di sparpagliarci sull’erba e improvvisamente lo vedo che è li, in un punto forse lontano a lanciare grandi saluti al pubblico. Non so se avrò occasione d’incrociarlo da vicino. Devo incollarmi al tornante e impedirgli le sgroppate in avanti, i cross pericolosi. Poi, appena la situazione è favorevole, spingermi io sulla fascia e dettare qualche cross. Ma senza rischiare troppo. Giochiamo in trasferta e in fondo un pari può starci. Meglio non stuzzicarli troppo. Si parte e si capisce subito che e tutta una gara di studio. Mi sa che hanno tutti paura di scoprirsi troppo e preferiscono evitare di pungersi a vicenda. Ma io ho una gran voglia di strafare. Mi capita un bel pallone, Dick il tornante avversario sta a guardarmi col grugno tosto, cerca di togliermi il pallone, io provo la finta e me lo sento col fiato sul collo. Meglio dar via il pallone. Sento che bofonchia qualcosa. M’ha chiamato stamattina presto, mia madre. M’ha detto di tener duro, restare calmo. Non prendermela troppo se quello lì ha avuto la strada spianata. Se ha avuto un posto in squadra non tanto per il gran talento ma perché era figlio di un vecchio coach che ha sempre amato il calcio innovativo ed ha avuto il suo momento di gloria anche se poi dopo un paio di grane coi presidenti, s’era deciso ad uscire di scena.
Quando si ha il nome diventa semplice tutto. Penso che lui ha avuto l’esistenza facile, un padre vero che gli ha insegnato i passaggi e i tiri in porta ed io invece ho dovuto arrangiarmi da solo, fregandomene delle uscite scomode dei compagni di classe che mi domandavano come mai mio padre non veniva mai a prendermi e giurando che con una donna come mia madre accanto non mi mancava nulla. Ma qualche volta piangevo. Chiuso in camera o pestando forte sulla batteria, in garage e pedalando su e giù per il campetto accanto alla chiesa, con una rabbia che esplodeva appena arrivavo col pallone vicinissimo ai due pali che facevano da porta ed esplodevo una bordata micidiale, esercitandomi a fare il cecchino preciso perché mia madre me l’aveva insegnato in fretta: la potenza è bella, ma un tiro fuori misura diventa inutile e di colossi finti matchwinner che sparavano bordate in tribuna, il football non sapeva che farsene. Mi sarei guadagnato solo fischi.
Ecco, vedo il loro trequartista che scatta, fa filtrare un pallone maledettamente invitante nella nostra area, Ghigo il nostro centrale sbaglia a calibrare l’intervento e deve metterci una pezza Ron il portiere che esce alla disperata, kamikaze valoroso e rimedia in corner. Il pubblico si scalda. Urlano che vogliono la nostra testa. La scalata in A, sono già due volte che la mancano per un soffio. Immagino che mio fratello si sentirebbe un Dio a fare il suo ingresso in massima serie. Ammenocché non lo cedano ad un’altra squadra, tentando l’acquisto eccellente. Mi volto e riesco a focalizzarlo meglio.
Ha il taglio corto. Somiglia a tanti ragazzi tutti uguali, ha l’aria d’essere anche più grande dei suoi 31 anni. E’ più tarchiato di me, meno longilineo. Ma corre parecchio anche lui e non ha un cross disprezzabile. S’e’ sposato con una belloccia che penso gli farà corna a tutto spiano. Pensare che mio padre il coach ha sempre detto che detestava i calciatori che si sceglievano le sex-symbol. Lui che con le donne ha sempre fatto strage ma poi guai a toccargli la sua famiglia ufficiale, maledetto chi gli rovinava i suoi rituali cadenzati su ritmi
inquadratissimi. Gli somiglio un bel po’. Stessi colori. Capelli sul biondo, occhi chiarissimi, pelle trasparente. Solo che ho il fisico longilineo di mia madre che col suo caschetto e l’aria
trasognata oggi se ne sta a casa, ha preferito non venirmi a vedere per non emozionarsi troppo e non condizionarmi. Paolo, il mio fratellastro non ha molto di lui. Forse qualcosa nel modo di fare da macho, un po’ brutale. Mi chiedo se gli avrà dato problemi la vita avventurosa d’un padre allenatore e se l’avrà mai contestato, lui che un padre vero ce l’ha avuto accanto.
Mi lancio su un pallone che sta andando perso sulla linea laterale e lo rispedisco in mezzo al campo. Sta partendo un’altra azione. Avanza Jaco, il nostro tornante che sgomita bene e si guadagna una punizione. Tira Rojo, il bombardiere. Loro si piazzano in barriera. Sembrano Fort Alamo contro l’avanzata degli indiani. Sam, il loro centrale respinge e si ricomincia a danzare a metà campo senza troppo impeto. I miei compagni ogni tanto vengono a darmi qualche consiglio e sento il nostro coach che grida di pungere di più sulle fasce. Mi sento coinvolto e mi giro a guardare gli altri. C’e’ Valter, il mezzocampista bello inquartato che macina palloni su palloni. Pure lui passa le notti in disco a caccia di girl-friends da sballo, tutti fissati con veline e letterine, i miei compagni. Con le loro macchine luccicanti per far scena fuori dai locali.
Io non riesco a far lega con loro in questo senso. Mi sono tenuto i miei amici della band con cui preferiamo i pub, i localetti dove fanno musica dal vivo ed ogni tanto ci scappa una canna e mia madre dai a dirmi che devo stame lontano perché alcol e spinelli poi mi sballano la testa e mi tagliano le gambe peggio di dieci sgroppate in una notte con qualche femmina da urlo. Io odio quelle donnine tutte perfette e preferisco Monja che ha le curve morbide morbide e quegli occhini stellanti ed ha tre anni più di me, sta già nel giro delle assistenti universitarie. Con lei ci parlo di tutto. Degli esami da fare, di musica, di come son rimasto un po’ cucciolo, di quant’é favolosa mia madre e poi progettiamo vacanze romantiche in Inghilterra o in Spagna, imparando le lingue coi corsi accelerati e poi cercando spiagge e prati d’erba la notte per raccontarci la vita uno addosso all’altro. Fuori dal mondo. Mi volto. L’urlo dagli spalti sta salendo. Il trequartista ha sfoderato un altro pallone filtrante e stavolta il nostro esterno l’ha mancato in pieno. Ed è scattato pronto Bigolo, il puntero più agile. L’ha messa dentro. Stiamo un gol sotto.
Urlano che pare stia venendo giù lo stadio. Il nostro coach si sbraccia. Ci dice di non mollare. Di reagire in fretta, colpirli sulle fasce, cercarci di più, tagliare cross per la testa dei nostri in area. Poldo e Roger sono draghi nei colpi di testa e vanno forte anche con le sforbiciate. Palloni alti, maledizione.
Palloni alti. Quanto me li sono studiati, gli schemi. Fin da quando ero cucciolo e m’infilavo in mezzo ai gruppetti vestiti grunge per spiare le prime ragazzine ed ascoltarmi gli album pirata dei Nirvana. Prima o poi mi rompevo e sparivo col pallone in qualche campo a tagliare con l’effetto il cross e cercare di colpire preciso quella vecchia antenna lasciata in mezzo all’erba che doveva avere avuto i suoi giorni di gloria con una Tv ancora lontana dall’era satellitare e magari rievocava i primi quiz di Mike e i vecchi sceneggiati misteriosi. Ce ne torniamo negli spogliatoi un po’ immusoniti. Il coach mi dice di continuare e guardare il mio avversario ma provarci di più ad andar dentro col pallone. Con qualche lancio giusto, posso raggiungere la cesta di Poldo e Roger. Rimettere in sesto il risultato. Mi sento un po’ oppresso. Tutta questa responsabilità al debutto.
D’altronde, io che ho mitizzato Indiana Jones e le sue spedizioni impossibili, devo stringere i denti e conquistare il Santo Graal. A costo di saltare sull’orlo del precipizio, rischiando il vuoto. Devo farcela per mia madre, per la squadra, per la nostra classifica e per quel bel ceffo del mio fratellastro che ho visto quasi da vicino rientrando negli spogliatoi, col suo taglio ben rasato da yuppie di provincia, col sorriso sicuro di chi non ha avuto mai grosse beghe ed ha dalla sua la fortuna e il pubblico. M’incollo ad una boccia d’acqua e me ne resto con l’aria un po’ beota a fissare il soffitto degli spogliatoi e pensare a quanto può squassare i timpani una rullata di batteria a tutto watt in piena notte. A volte mi carico con i pensieri assurdi. Come quella volta della maturità che m’immaginavo impegnato in un assolo di chitarra e poi sul set di Guerre Stellari lanciato verso qualche galassia e così vedevo piccoli piccoli i professori e mi facevano meno paura, con le loro facce torve, pronti a torchiarmi sulle date di storia e le equazioni. Poldo mi passa accanto e mi scompiglia i capelli. “Hey, Cruyff, vedi di servirci al bacio qualche cross da favola. Sarebbero l’ideale....” Faccio cenno di sì e torno a fissare il soffitto. Devo caricarmi. E’ l’unica. Rientriamo trotterellando un po’. Il mister ci ha fatto il suo discorsetto. Possiamo tranquillamente metterli al muro se non perdiamo la concentrazione. Ma non dobbiamo giocare da perdenti.
Dobbiamo far finta di non averlo preso, quel gol.
Guardo se hanno fatto qualche cambio. Massì. Manca proprio Gancio, il mio diretto avversario, il tornante. E’ entrato quel pelorosso che fa sempre gioco di contenimento, appoggia la difesa. Hanno deciso di difendere il golletto di vantaggio. Il coach mi prende da parte e mi dice di stare sul loro esterno sinistro, senza fargli prendere un pallone ed andarmene io in avanscoperta. Dobbiamo pressarli. Dico di sì, poi mi rendo conto. Devo stare su lui. Sul mio fratellastro. Non concedergli un attimo di respiro. Stringo le labbra. Dico di sì e me la filo sulla fascia, prendendogli le misure. E’ più basso di me, sta un po’ curvo, si gira all’improvviso e mi vede. Fa un ghigno. Io me ne sto lì senza sprecare neanche una smorfia.
Guardo il gioco, aspetto il primo pallone. Arriva abbastanza presto.
Il mezzocampista smista e su quella palla che viaggia a mezz’aria ci slanciamo in due. Io gliela soffio e poi spingo avanti, lasciandomelo alle spalle. Sparacchio un bel cross e ci vuole tutto l’impeto del loro centrale per evitare il peggio.
Roger era piazzatissimo. Sento che mi ringhia alle spalle, tornando sulla fascia. Mugugna qualcosa. Ma non voglio ascoltarlo. Faccio la mia parte. Scorrono i minuti, siamo sempre in forcing. Loro hanno il fiato un po’ corto. Penso che mia madre starà seguendomi in Tv, ho il groppo alla gola. Eccolo, il pallone giusto. Bud vince un takle, passa al mio fratellastro.
Lui sta per girarsi, io l’anticipo pulito, senza sbavature. Neanche una gomitata. Me ne vado pallone al piede, lasciandolo di stucco. Mi guadagno tutta una fetta di campo con uno scatto
in progressione, crosso preciso al centro. Vedo il centrale che respinge ma Poldo è sul pallone. E’ gol stramaledizione. E’ gol. Ci slanciamo in sette addosso a lui. E Poldo mi toglie un attimo la fascetta e se la mette fra i capelli prima di restituirmela. “Sei forte, drago. Sei quasi meglio di Cruyff”.
Ci rido su. Torno al mio posto e sento che qualcuno mi respira rabbioso sul collo. Mi volto. Ha un’espressione truce da farmi a fette. Vuol farmela pagare. Ecco, arriva un altro pallone. Sto per scattare e sono sicuro di arrivarci prima di lui. Ma mi sgambetta sporco. Non è un fallaccio da espulsione ma mi ritrovo a terra un po’ dolorante e l’arbitro fischia. Sento il becero che bofonchia “Dai rialzati, bravo bambino. Non frignare troppo…” Mi rialzo tenendomi un po’ la gamba. Brutto colpo. Un pestone che diventerà viola in fretta. Che bestia. Begli insegnamenti gli ha dato mio padre. Va avanti così. La partita s’infiamma, loro sfiorano un paio di volte il gol ma il nostro portiere è in giornata di prodigi e fa la saracinesca alla grande. Ora il loro mezzocampista svirgola brutto ed il pallone torna a schizzare sull’out. Siamo in due a cercare di prenderlo al volo. Ci arrivo prima io. Lui mi sgomita con una violenza spaventosa e cerca di levarmelo con la forza. Mentre piombo a terra e l’arbitro fischia, sento netta la frase ed è come un cazzotto in piena faccia. “Te le spezzo io le gambe, bastardo!” Mi rotolo un po’ sull’erba. Mi trascino sui bordo, il massaggiatore mi spruzza un po’ di spray. Ho beccato una brutta botta, ma ho voglia di riprendere in fretta. Bastardo, m’ha detto. E non l’ha detto per caso. Si sente forte, lui. Lui con la sua famiglia regolare, figlio di papà legittimo. Un montato con l’aria cattiva di chi pensa di poterselo permettere.
Frustrato forse d’essere arrivato ai trenta passati senza aver assaggiato la serie A malgrado il nome altisonante. Ma con un piglio da dominatore dell’ostia. Devo fargliela pagare, maledizione. C’e’ un altro pallone da conquistare. Arrivo prima di lui, sto per involarmi sulla fascia e me lo sento ancora addosso. Mi butta nuovamente giù, con un calcione maligno.
Mentre rotolo sull’erba sento che ripete con la voce alterata “Falla finita, bastardo... Gliela dedicherai un’altra volta la partita, a quella troia di tua madre. . .“ Mi rialzo di scatto e gli sono ad un soffio. Il pugno in alto. Sto per colpirlo. Gli farò sputare sangue e lo ridurrò in poltiglia. Ho fatto un po’ di karate, sono più atletico di lui, se lo becco gli faccio saltare i denti. Ed allora me ne fregherà assai della ragazzina ponpon che s’è sposato dopo averla rimorchiata in disco e del suo papà legittimo che sarà tanto soddisfatto d’aver concepito un figlio killer e lui se la pianterà di giocare sporco senza tentare neanche una volta di conquistarsi un pallone con lo slancio atletico piuttosto che con i fallacci. Poi ho come un flash e fisso quel mio pugno proteso che sembra diventare fosforescente, quasi un raggio laser che taglia l’aria attorno e penso che rovinerei tutto. Manderei all’inferno tutta la passione con cui mia madre m’ha voluto e fatto crescere, cercando di stringere i denti sulle chiacchiere del mondo e non facendomi mai sentire solo, insegnandomi i suoi ideali. Penso che farei forse sputare sangue al mio fratellastro, ma rovinerei la mia squadra. Pestandolo mi guadagnerei un cartellino rosso. Farei restare i miei in dieci. Magari rimedieremmo una sconfitta. Mi stritolo le nocche per riportare giù quel pugno. Stringo forte le labbra e mi volto.
Non voglio neppure guardarlo in faccia. L’arbitro si avvicina, ce ne dice un paio per uno. Ha un tono più rabbioso verso di lui. Non tollera il gioco duro, cattivo. Dobbiamo piantarla. Io mi stringo nelle spalle. Non c’entro con le sue menate. Si rimette in gioco, vedo il pallone che se ne va lontano. Lui borbotta qualcosa. Non devo assolutamente cadere nelle sue trappole. Vuole stroncarmi. O spaccarmi le gambe davvero o farmi buttar fuori per reazione. Non gliela darò vinta.
Mi sgancio, vedendo quel pallone del nostro mezzocampista che viaggia sulla trequarti. Gli sto sopra. Lui è in difficoltà. Non riesce a starmi dietro. I dieci anni di differenza si fanno sentire. I dieci anni in più che lui s’è goduto con un infanzia felice fra mamma&papà ed ora mi fanno volare quasi al limite dell’area. Poldo chiede triangolo. Io gli passo il pallone e schizzo avanti, spalle alla porta. Lui dà uno sguardo avanti poi, così di prima, decide di ridarmelo. Sono gasatissimo, azzardo uno stop volante ed un fendente angolato, bruciante. Il portiere è sulla traiettoria ma se lo vede passare davanti troppo violento. S’infila preciso nell’angolo. Ora sono gli altri a sommergermi. Torniamo verso metà campo e immagino mia madre che starà festeggiando. Penserà che l’ho bagnato alla grande, questo debutto. Vedo il loro coach che smania e pochissimi attimi dopo, la sostituzione. Il mio fratellastro esce fra i fischi. Non mi ricordo altro fino al fischio finale. Usciamo primi in classifica. Fra gli applausi del pubblico che non trova altro modo per punire i suoi beniamini che stavolta l’hanno deluso. Mentre m’infilo negli spogliatoio dopo aver ringraziato i nostri ultras che sventolano striscioni in curva, mi prende da parte Jack, il loro capitano. “Hey Cris….Sai che sei davvero forte? Me l’avevano detto, ma vederlo coi miei occhi è un’altra storia…” Gli do una pacca sulle spalle, per ringraziarlo. Sto per voltarmi e tornare nel mio spogliatoio per godermi la festa col coach e gli altri ragazzi. Ma lui mi bracca ancora “Devo scusarmi per come t’ha trattato quel becero. Lo so che t’ha dato del bastardo....Sei stato troppo buono con lui. “ Scuoto la testa, non è niente. Coi miei atteggiamenti eroici, a volte mi sono addirittura guadagnato la patente di gay. Come se si facesse i maschi da combattimento solo pestando duro e cercando sangue come nei film horror.
“Sai...lui ha il complesso del figlio d’arte. Non gli va giù che la gente dica che ha fatto carriera solo perché è figlio di un coach. Carriera, poi...Sta ancora in B a trentun anni e mi sa che ci resterà se voi prendete il largo e lui continua a fare il balordo... Ha un caratteraccio. E per questo che non ha mai voluto suo padre fra i piedi e dice che è un rompipalle, gli spacca l’anima da quand’era ragazzino con le sue becerate di tattica e spogliatoio e lui sa fare da sé, non ha bisogno di consigli di uno sputasentenze...specie ora che è fallito, ha chiuso col calcio. Non ti dico quante ne spara. Ed ora che sua moglie l’ha tradito col nostro goleador, il ragazzino di primo pelo, s’e’ incarognito di brutto e non lo tiene più nessuno…”
Ma dai. Odia suo padre, lui che ce l’ha sempre avuto attorno. Ed io che l’avrei voluto, continuo a cercarlo dovunque. Anche nei miei sogni. Proprio vero che la vita è stramba ed ogni giorno te ne insegna una nuova.
Ma glielo porterò a mia madre, questo pallone con cui ho firmato il mio debutto. Uscendo dagli spogliatoi mezz’ora dopo, dopo qualche intervistina volante e tante pacche sulla schiena e il coach che rideva e mi diceva di non montarmi la testa, ora sarebbe stata più dura fare il bis, incrociavo lo sguardo del mio fratellastro. Vedevo che aveva la faccia scura e stava per dirmi qualcosa. Non mi dava l’idea di volersi scusare. Ma non avrei retto ad un altro insulto. Sarò anche un bastardo ma vado avanti così. Col mio destino e la mia croce da portare che mi caricherò sempre sulle spalle con orgoglio.
Gli piazzo un gran sorriso e afferro il cellulare dalla tasca.
“Ciao Ma’. . .“ comincio a dire. Sta borbottando qualcosa ma l’urlo dello stadio è più forte, sento nelle orecchie l’assolo di Malmsteen e sto stringendo fra le dita il Santo Graal appena conquistato. Quel pugno alzato che son riuscito ad abbassare è stato il dribbling più ubriacante. Quello che ricorderò finché campo. Il dribbling al brutale istinto primordiale un po’ barbarico di distruggere per il gusto di farlo.
Allungo il passo, ridendo al telefonino e guadagno la strada. Mi giro un attimo. E’ rimasto fermo lì, occhi verso lo stadio che ha decretato la sua grande sconfitta. Me lo sono lasciato alle spalle. Fuori, c’è un gran sole. Ho proprio bisogno di un po’ d’aria pulita. Domani porto fuori Monja. Ce ne andremo noi due, da soli sul lago.
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Patricia Wolf
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Il racconto sta al romanzo come i cento e i duecento metri stanno alla maratona.
Io amo l’immediatezza, la velocità e lo scatto rabbioso. (…)
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Io amo l’immediatezza, la velocità e lo scatto rabbioso. (…) Forse è perché mi sento più Berruti o Mennea piuttosto che Abebe Bikila, che ho scelto il racconto come forma espressiva e nel racconto concentro tutta la foga, la rabbia e la poesia di cui mi sento capace. (...)
Nel racconto c’è uno slancio corto e improvviso che ti catapulta a testa in giù, nel culmine dell’abisso e può farti scorgere splendidi fondali marini da cui riemergere, con un altro balzo verso l’alto, pugni protesi verso il cielo, quasi rigenerato da quel viaggio rapidissimo nel tuo inconscio.
(P.W.)
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Verrà l'alba e avrà il suono di una radiosveglia di Patricia Wolf
2011 pg. 191 - A5 (13,5X21) COPRIGIDA
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Io amo l’immediatezza, la velocità e lo scatto rabbioso. (…) Forse è perché mi sento più Berruti o Mennea piuttosto che Abebe Bikila, che ho scelto il racconto come forma espressiva e nel racconto concentro tutta la foga, la rabbia e la poesia di cui mi sento capace. (...)
Nel racconto c’è uno slancio corto e improvviso che ti catapulta a testa in giù, nel culmine dell’abisso e può farti scorgere splendidi fondali marini da cui riemergere, con un altro balzo verso l’alto, pugni protesi verso il cielo, quasi rigenerato da quel viaggio rapidissimo nel tuo inconscio.
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