Era seduto in salotto, sulla solita poltrona, quella più vicina al televisore che, a volume bassissimo, trasmetteva immagini dal mondo: guerre e rivolte da qualche regione dell’estremo oriente affetta da instabilità politica. Guardava senza troppa attenzione quel flusso ininterrotto di lampi colorati, la sua mente era occupata da altro. Rifletteva sulle parole del medico, del suo medico curante, dal quale si era recato quel pomeriggio. Si rivedeva con le lastre sottobraccio, quelle ai polmoni fatte qualche giorno prima, davanti al dottore che, abbozzando un mezzo sorriso di circostanza, lo invitava ad accomodarsi. Poi il dottore aveva afferrato le lastre e le aveva osservate alla luce al neon che spioveva uniforme dal soffitto. Quella che a lui era parsa una rapida occhiata, distratta e superficiale, aveva prodotto, invece, l’inappellabile sentenza che adesso, abbandonato in poltrona davanti al televisore acceso, gli girava e rigirava nella testa, senza tregua. La situazione è quasi irrecuperabile! A breve c’è da temersi il peggio se lei non la fa finita con questo suo assurdo vizio! Era stata una sentenza e un ammonimento, rude e diretto, come solo certi medici sanno darne. Lui, come se la notizia l’avesse colto del tutto alla sprovvista, come se non sapesse che sessanta sigarette al giorno fanno malissimo alla salute, s’era spaventato, impallidendo e quasi tremando, neanche l’avessero informato del rapimento di sua figlia. Si era allora rifugiato, chissà perché, in quell’assurda domanda che aveva tanto irritato il dottore. Gli aveva chiesto quanto tempo avesse ancora da vivere. L’altro l’aveva guardato come si guarda un pazzo nell’attimo in cui, avendolo creduto fino a quel momento una persona normale, ci si rende conto, quasi con dolore, della sua follia. Poi, restituitegli in fretta le lastre, l’aveva bruscamente congedato, gridandogli dietro con voce adirata di smettere quanto prima quell’assurdo vizio. Se n’era andato con la coda tra le gambe, avvilito e muto. Si era subito scoperto preda di uno strano sentimento di costernazione per se stesso e la sua salute, così precaria; era poi precipitato in un morboso stato di autocommiserazione, che sconfinava nel vittimismo. Tornato a casa, non aveva salutato nessuno e, di fronte alla moglie che si stupiva di quel comportamento, svelto e silenzioso si era infilato nel salotto, per poi abbandonarsi nella comoda poltrona lieta compagna di tante ore felici onde riposare la propria afflizione.
Mentre lottava con lo sbalordimento amaro che si ostinava schiacciargli il petto nella sua morsa, la sua mano, esperta e intraprendente, agendo a nome di tutto il corpo che reclamava con forza la sua dose giornaliera di nicotina, afferrò il pacchetto delle sigarette abbandonato lì vicino, finendo con l’estrarne una. La passò poi alla bocca che, dopo aver ringraziato, poté stringerla con soddisfazione tra le labbra. L’altra mano intanto aveva afferrato l’accendino, e si apprestava ad accostarne la fiamma al tabacco quando l’uomo, accortosi con orrore della manovra, ordinò al suo braccio di flettersi e di lanciare lontano, con fare disgustato, l’odiata sigaretta. Nel frattempo, davanti al televisore semimuto, pensava con sgomento all’ultimatum del dottore. Nella sua mente affranta presero a passare e ripassare immagini di morte: bare, funerali, camposanti, vedove vestite a lutto, ragazzine rimaste orfane, gesti di condoglianza, sussurri di commiserazione e di condanna. Lui sapeva che sarebbe finito così, ma non ha ritenuto di doversi sottrarre al suo vizio. Ha continuato a fumare con egoistica ostinazione fino alla fine, abbandonando la moglie e la figlia al loro destino. Sentiva i malevoli commenti del suo medico, intrufolatosi chissà come al suo funerale. Non gli sfuggiva la reazione dei presenti, parenti e amici: li vedeva passare dalla calma all’indignazione più accesa; li vedeva poi prendere la bara e lanciarla lontano, con lo stesso fare disgustato e sprezzante con cui lui poco prima si era liberato di quell’ultima sigaretta.
Alla fine, abbattuto dai sensi di colpa che gli sfilavano davanti come un’interminabile processione di fantasmi, per distrarsi, alzò l’audio del televisore, sforzandosi di seguire le notizie del telegiornale.
Quattro ragazzi erano morti in un terribile incidente stradale la notte scorsa; un padre di famiglia pakistano aveva ammazzato a sprangate la figlia diciottenne perché questa si ostinava a rifiutare il matrimonio combinato che i suoi avevano deciso per lei; un operaio venticinquenne aveva accoltellato a morte la sua ex-convivente, rea di non voler avere più a che fare con lui; in una città del Sudan meridionale settanta civili avevano perso la vita durante un violento scontro a fuoco tra i guerriglieri separatisti e l’esercito regolare; un aereo indiano, dirottato da terroristi indonesiani, si era schiantato al suolo a causa di un’errata manovra dell’inesperto pilota-sequestratore; il nipote del magnate dell’automobile Tal dei tali, già designato alla successione dell’anziano zio, era morto in soli tre mesi, a trentatre anni, per un cancro fulminante; il figlio quarantenne di quello stesso magnate si era suicidato lanciandosi nel vuoto da un viadotto dell’autostrada; duemila impiegati di una notissima banca d’affari americana si erano visti licenziare dalla sera alla mattina in seguito all’improvviso fallimento della medesima; un vigile urbano di una città del nord era stato travolto da un automobilista ubriaco, come pure, un quarto d’ora dopo, un pensionato che attraversava la strada; un ciclista era stato scagliato in un burrone da un camion in una strada di montagna; un tassista di un’altra città del nord era stato ammazzato di botte dai padroni del cane finito sotto le ruote del suo taxi; una madre, esasperata dal pianto ininterrotto del figlioletto di tre mesi, gli aveva tappato la bocca con una benda, provocandogli un’atroce morte per asfissia; un’altra giovane madre aveva affogato il figlio di sei mesi nella vasca mentre gli faceva il bagnetto; in un condominio di una tranquilla cittadina di provincia due condomini del piano di sotto avevano massacrato quelli del piano di sopra, ritenuti troppo rumorosi…
A quel punto, spaventato da quanto aveva sentito, spense il televisore, continuando per un po’ a fissarne, con sguardo attonito, lo schermo nero. Poi, tornato faticosamente alla realtà, allungò una mano e si accese una sigaretta.