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Quella sera a Milano era caldo
di Gianni Caspani
Pubblicato su PBSA2008
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Il 12 dicembre 1969, nel pomeriggio avanzato che l’inverno travestiva da sera incipiente e già immersa in un’umida nebbia lattiginosa che vaticinava una nottata problematica sulle strade della media padana, passavo di fianco alla montagna del duomo, indifferente al freddo, al natale vicino, alle mie avventurette di studente, da pochi mesi traghettato sulla sponda della maggiore età, che in quelle settimane registravano una preoccupante ma non assillante stagnazione, riepilogando gli impegni per quel resto di giornata che aveva tutti i presupposti per non essere diversa da altre non dedicate alla trifola o alla piazza.
Una capatina a città studi, per vedere se si poteva ricavare qualcosa da quella biondina sfiorata nell’ultimo corteo; una scappata a Monza dai nonni; la tavola rotonda sull’impegno politico dei giovani in quel centro giovanile di Seregno; il ritorno, soprattutto, immerso nella caligine virulenta che avrebbe avvolto le strade sconosciute e mortalmente uniformi della periferia milanese, in cui mi perdevo invariabilmente, inscatolato nella bomboniera della mia cinquecento tetto apribile, sempre più assomigliante a un monolocale.
Da una cabina telefonica in piazza Fontana chiamai Ezio, un compagno vicino a un gruppo anarchico di via Garibaldi, per sapere com’era andata a finire la storia di una perquisizione che aveva fatto la pula qualche giorno prima a casa sua e soprattutto per sapere come l’aveva presa suo padre, imbozzolato qual era nella sua tiepida nicchia di borghese benestante, moderatamente progressista finché non si trattava di mettere in discussione gli equilibri di classe e la rispettabilità della famiglia.
“Come vuoi che l’abbia presa? E’ fuori di testa come un fauno sbronzo. Io sto alla larga: da tre giorni dormo da Gilla, così non sento le sue lagne da vecchio rincoglionito e non ho il problema di rivestirmi e tornare a casa dopo essere stato con lei. Perché non passi qui anche tu, stasera? C’è qualche compagno, mangiamo qualcosa e prepariamo le bombe.”
“Stasera no”, risi, “sono fuori per un dibattito, sai, quelle mostruosità sull’impegno politico dei giovani... Si parla, si parla e tutto resta immutato: i padroni si gonfiano come otri imbottiti di denaro, i compagni continuano a prenderle dalla polizia, gli edili cadono dalle impalcature per ottantamila lire al mese e Rumor presiede un nuovo governo...”
“Meglio le bombe allora. Gilla prepara il timballo. Proprio non vuoi venire?”
“Non è che non voglio. Proprio non posso.”
“Va bene, onorevole. Alla prossima.”
“Salutami Gilla.”
Uscendo dalla cabina telefonica andai quasi a sbattere contro un passante che camminava senza fretta, venendo dal duomo, tirato a lucido in un loden blu aviazione, pizzetto accurato, occhialini affumicati da sanbabilino in servizio permanente effettivo, capace borsa di cuoio lucido da fiscalista arrivato.
“Mi scusi”, soffiai scansandolo.
“Vaffanculo”
“Affanculo ci vai te, fascista” e la mano mi corse alla chiave inglese che tenevo ad ogni buon conto nella tasca dell’eskimo, considerato che in quei mesi a Milano era meglio non trovarsi impreparati ad affrontare le piazze.
Ma il tipo aveva ripreso il suo passo un po’ rigido, calmo e tuttavia risoluto, attraversando la piazza dalla parte dei binari del tram.
Restai un po’ lì a guardare, semmai avesse deciso di tornare sui suoi passi e assalirmi, poi saltai in auto, avvedendomi di un vigile che veniva verso di me, fermamente determinato a far valere le norme del codice della strada.
Mentre partivo mi parve di vedere lo scorbutico viandante infilarsi dentro la banca.
“Sempre tra i piedi e addosso come mignatte”, brontolai mentre accendevo una sigaretta e schizzavo via e ridevo al pensiero che quella penetrante riflessione, di alto spessore filosofico, si attagliava bene sia al fascista che al vigile.
Mangiai in una bettola fantastica alla periferia di Seregno, un posto alla cui esistenza non avrei creduto, se non ci fossi stato realmente.
Un unico stanzone dal pavimento sconnesso, tavoloni di legno massiccio intorno a cui gli avventori sedevano senza distinzione di posti, così come capitava, tipo mensa dei frati, tovaglie di cerata a quadretti bianchi e rossi, con residui di atavici untumi, menu che più casereccio non si poteva, a cui mi abbandonai con il pensiero che se mia madre avesse saputo cosa stavo mangiando me l’avrebbe menata per un anno intero, considerato che a casa schifavo sistematicamente quel tipo di alimentazione.
Intorno al tavolo sconosciuti commensali di bassa estrazione economica, operai e contadini, che mi scrutarono un po’ con la curiosità dell’estraneo e ai cui discorsi mi trovai mischiato con primitiva spontaneità.
Su una sedia in un angolo il giornale di tre giorni prima; niente radio e televisione che rompessero il clima da buon tempo perduto.
Mi ricordai senza nesso di un pranzo fatto a una mensa di ferrovieri, un giorno in cui mi costrinsi a mangiare finocchi che non sopportavo, ad espiazione di un esame cannato.
Solo pochi minuti prima della riunione venni a sapere del casino successo a Milano quel pomeriggio.
Al bar incrociai il segretario provinciale della federazione giovanile socialista che doveva parlare con me al centro sociale e che aspettava impaziente gli organizzatori per scusarsi e tornare di corsa a Milano.
Da lui seppi della bomba e dei morti e della caccia all’anarchico che si era immediatamente scatenata.
Quella sera Giuseppe Pinelli precedeva sul suo motorino la volante della polizia che era venuto a cercarlo nel circolo di via Scaldasole e a prelevarlo per portarlo in questura.
Tipico atteggiamento dell’anarchico omicida, aveva accolto l’invito con l’indifferenza scocciata dell’abitudine molesta: gli avrebbero menato le solite storie, delle bombe del mese d’aprile, delle manifestazioni, dei volantini e dov’eri? e con chi eri? e quanti eravate? e cosa hai fatto? tanto per perdere qualche ora e per raffreddargli la cena e far preoccupare la Licia, così impara a sposare un anarchico.
Tipico atteggiamento del questurino che aveva messo le mani sull’autore del massacro, mandiamolo avanti con il suo motorino, noi gli stiamo dietro con la macchina e in via Fatebenefratelli sistemiamo anche questa.
Sparito dalla casa del mondo per tre giorni passati in stanze affumicate, dentro e fuori dalla guardina, su e giù per quelle scale, a pisciare dove capita, a subire la tortura del sonno, a mangiare se ce n’era, con i fiati addosso che puzzavano di potere ecceduto, a sentirsi montare contro la marea che non era di volantini e di solite storie, ma un calappio sempre più infido e stringente di sangue autentico e di morti squartati.
Di bombe. Di banche.
“Ma che cazzo dite?”
“E’ inutile, Pinelli, racconta tutto e facciamola finita.”
Neanche il tempo di assorbire quel colpo infido di karatè all’altezza del collo che gli aveva succhiato il fiato e acceso il buio e sentirsi fluttuare nell’aria; sbattere contro i cornicioni; sprofondare, fantoccio di stracci, in un carpiato rovesciato con triplo avvitamento e doppio salto mortale, nella piscina d’asfalto e d’erba del cortile della questura, due scarpe ai piedi e la terza lasciata con stupefacente inventiva, romantico souvenir e pegno d’amore eterno, in mano a uno sbirro.
Il giorno dopo (morto un papa se ne fa un altro) fu arrestato Valpreda.
Sentendo raccontare la farsa della testimonianza del taxista e del riconoscimento, che la stampa borghese enfatizzava come dimostrazione dell’efficienza delle forze dell’ordine, dell’efferatezza di quella banda mal assortita di rivoluzionari parolai e romantici, mi trovai a vivere un’esperienza di precognizione che mi proiettò nel museo delle schifezze dei prossimi trent’anni.
Processi rinviati e trasferiti; anarchici assolti e fascisti condannati; condanne ribaltate in appello; sentenze annullate; nuove istruttorie, nuovi imputati, nuove imputazioni; spioni coinvolti e politici collusi: l’implosione dello stato avvoltolato come un maiale nel suo sterco.
E alla fine, la beffa raffinata: le bombe non si sa chi le ha messe e i parenti dei morti paghino le spese per aver usato i tribunali per anni per la loro piccata ostinazione di rivangare fatti lontani.
“E no, porca puttana, la bomba l’ho messa io”, mi udii gridare nel cervello, al rientro dalla fantastica proiezione.
Ci doveva pur essere un modo per riscattare un paese dall’oceano di merda in cui lo avevano immerso le sue istituzioni; per ridare una credibilità al sistema; per preservare alla memoria collettiva uno stato riscattato da una lotta di valori; per evitare che tutto andasse in vacca fino a trasformarsi in un leviatano che avrebbe prodotto governanti ridicoli, sistemi sconci di collusioni affaristiche, nani bercianti travestiti da statisti, un établissement politico autoreferenziale e autoassolutorio, un popolo servo e cerebralmente scosciato cui ammannire pane e figa in cambio di acclamante consenso.
A casa recuperai i foglietti del calendario che sotto la data riportavano citazioni, massime ed aforismi, che mettevo da parte per saccheggiarli e farne uso narcisistico e compiaciuto nel corso di riunioni ed assemblee; sarebbe bastato rincollarli sul calendario per tornare indietro di qualche giorno e riscrivere la storia in una versione meno volgare e più trasparente.
Passai l’11 dicembre chiuso in camera ad allestire la bomba: tritolo e fili elettrici recuperati nella santabarbara di un’ossessione e assemblati con l’imparaticcio del sentito dire nel corso delle lotte di un movimento venialmente violento, capace di menare solo mani, mazze e catene, inutili contro i lacrimogeni sparati ad altezza d’uomo e pallottole autentiche.
Il 12 mattina, uscii presto per raggiungere Milano, con la valigetta rubata in un negozio di lusso e imbottita di morte.
Prima del botto volevo concedermi un’orgia di sesso pagato con una donna raccolta nei giardini tra la stazione delle Nord e il Teatro dell’Arte, roba di lusso, insomma, almeno per le mie possibilità, visto che dal quel pomeriggio i soldi non mi sarebbero più serviti.
Arrivai al parco prima che cominciasse il giro vero e proprio delle variopinte falene che si esponevano all’esame dei passanti e spargevano intorno il profumo macero e penetrante di invitanti ed esplicite allusioni.
Ne incontrai una sola, seduta su una panchina, a gettare occhiate di disponibilità e sorrisi manierati verso le auto in transito e frettolosi pedoni.
“Ciao”, dissi, “ho qualche ora di tempo” e le sbirciavo le cosce sontuose e il seno importante, riquadrato da uno scollo magnanimo e impassibile alla giornata inclemente.
Era un esemplare vistoso, il tipo di donna che prediligevo, dalle linee barocche, partner perfetta per la cerimonia di esaltato commiato alla vita che avevo deciso di allestire.
Perfino il sentimento di malcelato sprezzo verso il cliente, generalmente avvertibile, sotto la patina della lusinghiera profferta, nei toni di voce e negli sguardi disincantati della benemerita categoria, era espresso senza impostura da quel corpo disponibile e avrebbe assicurato l’assoluta estraneità di qualsiasi coinvolgimento emozionale al rito preparatorio della formidabile dissennatezza che mi accingevo a officiare.
“Dio, con te mai”, sentii la sua voce raggiungermi da una profondità lontana e incorporea, “hai addosso l’odore della morte”.
E si allontanò senza sdegno, rancore o paura, ma con una movenza determinata a sottrarsi a un’insidia dai contorni indistinti, che mi consentì tuttavia di avvertire e apprezzare per intero il formidabile gioco di natiche di quell’andare via che sfuggiva al destino.
Mi rimase addosso più la delusione del maschio per aver mancato un obiettivo d’indubbio pregio, per quanto il mercimonio ne avrebbe svilito l’importanza, che non lo stupore per l’affermazione della prostituta che aveva respirato nel fugace contatto la fragranza di asfodelo che emanava intorno alla mia insana impresa.
Mi guardai in giro per vedere se si fosse frattanto avviato qualche altro commercio e scorsi una piccola ragazza giovane che mi fissava da una panchina, avvolta in un completo di jeans, poco adatto alla giornata invernale, che faceva risaltare una silouette emaciata, piuttosto che snella, insignificante rispetto ai miei parametri muliebri.
Mentre mi avvicinavo, le studiavo i capelli lunghissimi di una tonalità castana trasmigrante verso il cinereo, scarmigliati e suscitatori d’una impressione di poco pulito, i lineamenti duri del viso scarno e reso spigoloso dalla pelle tirata su zigomi accentuati, su cui risaltavano occhi di un colore quasi albino e, giuntole appresso, concentrai lo sguardo sul seno traboccante che le sbocciava assurdo sull’esigua figura, a costituire il trenta per cento dell’intero suo peso corporeo, in dissonante contrasto con l’insieme da miniatura scolpita in un cammeo.
Mi venne incontro sfoderando un sorriso un po’ caricato, esibendo il suo unico argomento seduttivo come un arco trionfale, accennando impercettibilmente un passo di danza e profondendo parole di una naturalezza disarmante, pronunciate con voce calma e profonda: “Voglio stare tutto il giorno con te. Hai addosso l’odore della morte”.
“Quanto vuoi?”, chiesi, con la speranza inconscia che mi sparasse una cifra tanto esorbitante da fornirmi il pretesto per un rifiuto.
“Stai scherzando? Per te nulla. Voglio solo farmi invadere dalla tua desolata follia”.
La guardai con febbrile curiosità.
Mi cinse le spalle con le sue braccia sottili e disse con un invito disarmante e scevro d’ogni lascivia: “Resta con me fino a domani”.
“Ho un impegno, nel pomeriggio”.
“Se resti con me evaporerà quell’odore di morte che ti porti incollato addosso”.
Volarono le ore nella camera di quella casa del Ticinese, disadorna come quel corpo di ragazza che percepiva, con un istinto da animale selvatico, la portata abnorme dell’ignorato progetto, che la sconvolgeva e che cercò invano per tutto il tempo di contrastare.
Fu una passione blanda, quasi di maniera, ad avvolgere i nostri esseri proiettati in una vicenda coartata: il mio disinteresse per lei, che non era determinato tanto dal suo aspetto fisico, quanto dall’avere ormai varcato con la mente la frontiera della storia riscritta, non poteva attenuare il gelo penetrante che incartava il suo corpo minuto e che enfatizzava le nostre inadeguatezze.
Fu soltanto un incontro cerebrale di entità incompatibili, precipitate per un istante nello stesso ambito spaziale, un punto nell’universo, le cui condizioni ambientali rendevano impossibile una delle due esistenze.
Verso le quattro e mezza del pomeriggio ero in una cabina telefonica di piazza Fontana, a fissarmi al polso la valigetta della bomba con una di quelle catenelle di sicurezza usate dai piazzisti di gioielli, così che non ci fosse il dubbio, dopo il botto, su chi avesse condotto l’impresa.
Uscendo dalla cabina telefonica andai quasi a sbattere contro un passante tirato a lucido in un loden blu aviazione, pizzetto accurato, occhialini affumicati da sanbabilino in servizio permanente effettivo, capace borsa di cuoio lucido da fiscalista arrivato.
“Mi scusi”, soffiai scansandolo.
“Non c’è di che”, rispose con garbo e proseguì con il suo passo affrettato, attraversando la piazza dalla parte dei binari del tram, diretto verso il duomo.
L’atrio della Banca Nazionale dell’Agricoltura era pieno di gente come tutti i venerdì pomeriggio e mi intrufolai senza essere notato, fino al tavolone centrale e mi sedetti, sospingendo la valigetta sotto il bancone, in una posa un po’ rannicchiata, a causa della catenella che costringeva il mio braccio destro verso il pavimento.
Alle sedici e trentasette fui sparato nell’aria come il tappo di un magnum di champagne, mentre le mie gambe colavano liquefatte nel baratro del pavimento che avrebbe trovato un posto di rilievo nell’iconografia del ventesimo secolo.
Quella sera Giuseppe Pinelli precedeva sul suo motorino la volante della polizia che era venuto a cercarlo nel circolo di via Scaldasole e a prelevarlo per portarlo in questura.
Il lanciafiamme del potere drogato negò alla storia anche le ceneri della memoria del diciassettesimo morto nella mattanza di piazza Fontana.
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Gianni Caspani
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