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Desdemona Daniel
di Alessio Poggioni
Pubblicato su PBSE4


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Il Sottoscritto Alessio Poggioni autorizza i responsabili del sito www.progettobabele.it alla pubblicazione in rete del testo allegato alla presente e-mail e dichiara di aver letto ed approvato tutte le CONDIZIONI DI PUBBLICAZIONE.
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DESDEMONA DANIEL

I

I fugaci e teneri raggi del sole, gli ultimi del giorno, attraversavano stanchi il cappio di corda che lentamente penzolava nell’aria. Cullato da un dolce maestrale il cappio attendeva, e con audace fierezza guardava la piazza riempirsi di spettatori, e sorrideva nel vedere quelle facce brute e sporche gemere e agognare l’esecuzione.
La forca era lì, immobile e fredda, e come un imponente titano, come un invincibile colosso, sovrastava la folla e godeva dell’impazienza con cui veniva osservata. Da ogni angolo, da ogni vicolo, da ogni minuscolo pertugio spuntavano continuamente visi nuovi, come topi che, affamati e guardinghi, si avvicinano spauriti agli avanzi di cibo abbandonati. Così, alle ultime luci del giorno, nel freddo di quell’inverno del 1638, tutto il paese si trovò riunito per assistere alla pena capitale.
L’attesa fu piuttosto lunga. Desdemona Daniel salì sul freddo patibolo intorno alle 17.00. Io ero lì, seduto con i miei “prestigiosi” compagni, e attendevo turbato. Sentivo al mio interno un prorompente garbuglio di emozioni, misto di orgoglio e insicurezza, e mentre guardavo la giovane salire gli scalini di legno, tra l’acclamazione del popolo e gli improperi che le venivano lanciati, udivo soltanto nel profondo del mio cuore la flebile voce che si congratulava con me per il mio verdetto. Nonostante ciò ero soddisfatto del mio operato, e anche se sapevo che la maggiorparte dei sudici pezzenti sotto di me non conosceva nemmeno le vere cause della condanna, ma si affidavano soltanto alle dicerie e alle superstizioni del volgo, mi compiacevo di vedere quella massa tumultuosa e arrogante inveire contro Desdemona, poiché in ognuna delle loro grida si celava un’implicita congratulazione con me. “Ci siamo quasi...” disse il governatore; “E’ da tanto che aspettate questo momento... Non siete eccitato?” mi si rivolse. Lo guardai con aria complice e annuii con la testa, poi gli lanciai un timido sorriso di approvazione e aggiunsi: “La giustizia divina trionfa!” In realtà, in quella condanna, di giustizia ce n’era fin troppo poca, ma da molto seguivo la causa della Daniel, tanto che era divenuta quasi un ossessione, un pensiero fisso: adesso, di fronte a me, avrei potuto vedere la fine di quella mania.
Ero stato chiamato in quel paese circa dieci settimane prima, per occuparmi di questa causa: non mi trovai di fronte un gruppo di avvocati assennati e professionali, bensì un bagordo di ubriaconi spaventati e irrazionali, legati soltanto alle più basse e futili credenze. Mi impegnai nel riscontrare se veramente Desdemona fosse una sorta di diavolo, di anticristo, di demone sceso in terra per la rovina dell’essere umano, o se tali accuse fossero solo congetture. Nel tempo che seguì mi accostai molto alla ragazza, seguii i suoi spostamenti, conobbi le sue abitudini, i suoi capricci, i suoi misteri, e pian piano mi accorsi che il suo fascino divino era un’attrazione fatale per l’uomo. Ebbi paura di poter rimanere invischiato nella sua aura malefica e me ne discostai. Mi rinchiusi nelle mie congetture e di lì a poco compresi l’orrenda verità: la Morte! Desdemona era la Morte! La sua straordinaria bellezza e intelligenza già tradivano il suo essere sovraumano, ma ebbi la conferma della mia tesi quando venni a sapere che ben tre amanti della giovane erano defunti entro breve tempo da che si frequentavano con lei. La udii più volte pregare in strane lingue o recitare assurde e grottesche poesie di dannazione; l’atmosfera mutava quando ella usciva di casa; tutti la scansavano, persino gli animali che, si sa, hanno un acuto sesto senso. Da quando ella era giunta nel paese, mi fu detto, molte malattie o pestilenze avevano colpito la gente, e addirittura, talvolta, si era visto congiungersi le stelle, o nevicare d’estate. Non mi lasciai convincere da queste semplici credenze, ma certo è che esse contribuirono a creare sempre più intorno all’accusata un alone misterioso che la rendeva agli occhi della gente, e anche ai miei, simile ad una terribile divinità mortale, quale Shiva per gli induisti o Anubi per gli egiziani. Anch’io ne fui attratto più volte, ma ogni volta riuscii a sfuggirle. Decisi che la gente non poteva continuare a vivere nel panico e che quella delittuosa, sadica donna doveva essere liberata dal maligno; si doveva estirpare il suo diabolico parassita con le stesse armi dell’uomo. Decisi dunque di dare la morte alla Morte.
Man mano che il giorno dell’esecuzione si faceva più prossimo però la mia anima inviava alla mia mente segnali di indecisione e di dubbio sempre più intensi. Il sonno diventava ogni notte più irrequieto e spesso mi capitò di svegliarmi e di passare ore a pensare a ciò che avevo fatto. La mia persona era divisa in due, spaccata nel mezzo, e vedeva da un lato la mente, colta e tradizionalista, e dall’altro l’impulsiva anima, che ormai disprezzava completamente la decisione presa. La cosa che più mi spaventava era l’indicibile bellezza di quella donna. Ero convinto che ella provenisse dal cielo o dagli inferi, o che comunque fosse superiore a noi, e per questa cagione dubitavo del mio operato e della sua validità. Più volte ero rimasto nell’ombra a guardarla dormire dietro le sbarre umide e fredde di quella prigione pagana. Provavo per lei una tormentosa attrazione, ma temevo anche solo il pensiero di una sua carezza. Qualsiasi posizione assumesse nel sonno, anche se appena visibile, il suo volto mi appariva in tutta la sua perfezione; per molte notti immaginai, nel dormiveglia, quella creatura in tutto il suo splendore, ma allo stesso tempo conoscevo e mi turbavo al pensiero della sua possibile diabolicità, della sua ambigua natura deliziosa e letale.
In quei brevi momenti di attesa, lì di fronte alla forca, mi sobbarcavo di questi pesanti ricordi. Strideva il mio cuore, gemeva l’anima, la mente fremeva impaziente. Eccola lì....
Nell’aria bruna e leggera si stagliava, sopra ogni altra, la stupenda figura di Desdemona. Era impossibile non innamorarsi di lei: era alta, magra e longilinea. Non aveva forme prorompenti, bensì sembrava esser stata scolpita da un timido artista, che preoccupato e impaurito del giudizio della sua opera, non si spingeva mai in azioni più audaci, bensì cercava in ogni modo di contenere la sua arte in dolci contorni e in forme armoniose e minute. I fianchi della giovane erano appena allargati, quanto basta per ricordare all’uomo che la perfezione non è tale se non ha un qualcosa che la tradisce; il seno era giovane e piccolo, le spalle forti ma delicate. Aveva un mento sottile e gentile, che sottostava a labbra rosate appena sporgenti. Sopra esse un allegro, piccolo naso alla francese occupava il centro del viso, mentre due occhi scuri, felini e svegli, correvano qua e là nello spazio. Ciglia lunghe e nere come la pece davano all’espressione un che di divino e surreale, e quando si chiudevano, mentre la tenera bocca sorrideva, tutta la sua persona emetteva una luce e una forza straordinarie. Niente poteva dar a pensare la sua natura malefica. I morbidi capelli castani cadevano soffici sulla sua schiena, e snodandosi in riccioli bizzarri, saltellavano ad ogni suo passo. Quanto era liscia la sua pelle! Aveva un colorito lattescente, di un pallore quasi malato. Nonostante ciò Desdemona aveva in sé una potenza incredibile, oltre ad un’intelligenza fuori dal comune. Sembrava un docile cagnolino dall’aspetto candido, ma sotto quelle false spoglie doveva nascondersi una crudele fiera. Ogni suo sguardo era un invito di Satana, ogni suo bacio una condanna a morte.
Adesso, in quel lungo vestito logoro e sporco, la giovane aveva raggomitolato il suo corpo, e nascondeva il suo splendido sguardo sotto uno scialle di lana grezza. La mia mente era confusa... I suoi capelli erano sciolti al vento e libravano nell’aria come un vessillo nel cielo. La giustizia divina trionfa... Eppure ricordo che già mentre le veniva passata la corda intorno al delicato collo, nelle membra sentivo nascere una strana sensazione di rimorso. “Sono un giudice, per Dio!” pensavo tra me e me, ma non riuscivo ugualmente a convincermi che io, semplice uomo, avessi la facoltà di vita o di morte su un essere come quello. E non riuscivo più a convincermi che ella fosse il demonio che ancora tutti credevano. Ogni suo gesto, azione o parola era stata considerata un ulteriore capo d’accusa, ma perché? In realtà nessun gesto, azione o parola provenne da Desdemona quando lessi il mio verdetto. Mai tentò la fuga, mai tentò di corrompermi. “Non è umana” mi veniva detto, “Non ha paura della morte”. Non mi convinceva. Inoltre mi ero fatto in parte piegare dal volere del governatore. Io! uomo d’onore! Ma Desdemona doveva morire. Così era scritto.
Nel maestoso orologio del campanile le lancette formavano ora una linea retta, e il boia aveva già stretto il cappio. Il cielo si era fatto scuro, minaccioso, quasi volesse opporsi a quella triste pena. Intanto il colosso incappucciato, grezzo e peloso, incurante di tutto e di tutti, era lì pronto a spazzar via il panchetto su cui la giovane attendeva. Lei, l’angelo, guardava d’innanzi, sulla folla, senza riconoscere un volto amico, uno che posasse su di lei uno sguardo compassionevole. I suoi occhi riflettevano la pochissima luce che proveniva dalle case, il suo viso aveva acquistato un ritratto di atroce tristezza mista a rassegnata incomprensione. Io, invece, fingevo agli altri e a me stesso. Non volevo convincermi che la creatura di fronte a me, colpevole o meno, non meritava il trapasso; ma la mia indole razionale desiderava soprattutto la verità e sapevo che questa sarebbe venuta, in ogni caso, solo con il decesso di Desdemona: se ella era realmente il demone di cui era accusata non avrebbe potuto perire su una forca terrena, mentre se era innocente il suo collo si sarebbe spezzato come un ramoscello secco. Ma proprio il pensiero di poter dare la morte ad una innocente (oltretutto non una qualsiasi) mi atterriva. e sapevo, in aggiunta al mio dolore, che se ella fosse morta e si fosse quindi rivelata ai miei occhi priva di peccato, la stupida massa ignorante, compresi quegli insulsi gelidi signorotti accanto a me, intenti soltanto ad assicurarsi la loro immagine senza accorgersi del rivoltante maleodore che emettevano le loro vesti ipocrite, nessuno di loro, dicevo, avrebbe mai compreso la realtà delle cose. Avrebbero esultato e acclamato, dimenticando presto la povera defunta. Ma io no. Io avrei ricordato per tutta la vita il corpo vuoto e spento penzolante da quella fune. Non volevo portare sulla schiena, per il resto della mia vita, una chimera tanto grossa e feroce, ma contrastato com’ero non riuscivo a emettere parola o a formulare pensieri sensati. E intanto il tempo passava. Il vento prese a soffiare più deciso e fischiava attraverso le campane a vento appese alle case. Un candido e melodioso suono usciva da quei rudimentali strumenti, che creavano nella piazza un concerto armonioso. La dolce musica ondeggiava nell’aria come una leggera piuma, e accarezzava chiunque si trovasse lungo il suo volo. Cullato da quella strana sublime melodia mi lasciavo ora trasportare lontano, distante da ogni preoccupazione, verso universi caldi e tranquilli, verso la pace e il riposo. Le mie palpebre si erano chiuse autonomamente, senza un comando ragionato, per aiutare la mente a evadere da quel posto. Accennai, sempre involontariamente, un piccolo sorriso, ancora dipendente dalle mie esotiche fantasie e con desiderio sospirai appena. Ma il mio viaggio fu interrotto bruscamente. Udii un ordine, seguito da un movimento brusco. Feci appena in tempo ad aprire gli occhi per vedere l’orribile boia sferrare con forza un calcio al panchetto. Desdemona cadde. Il tempo si fermò, ogni suono scomparve, ogni cosa osservava il patibolo. Desdemona cadde. Il vento cessò anch’esso di soffiare. Il mio sguardo incredulo e paralizzato desiderava, con tutto me stesso, che un intervento divino fermasse quella corda. Ma Desdemona, invece, cadde. Mille pensieri incomprensibili devastarono la mia mente. Speravo in un’illusione, in un errore del mio cervello: tutto era sospeso in un attimo, sul filo di un millisecondo............................................................ma il tempo si stancò di attendere, e allora Desdemona sprofondò.
Ricordo che si udì chiaramente il suono dello spezzarsi del suo tenero collo. Urlai istintivamente con tutto il rimorso che avevo dentro: fu un urlo atroce e straziante, ma inutile... La folla esplose di gioia, dando vita ad un fragore indicibile; i miei colleghi, i miei “illustri” colleghi, sorrisero compiaciuti e si congratularono con me. Il governatore addirittura mi disse: “Giudice, capisco che anche per voi sia stata una liberazione, ma quel grido mi sembrava quantomeno eccessivo!” Poi mi sorrise, mostrandomi i denti marci, consunti dall’ignobile crapula cui si abbandonava continuamente, e mi rivolse il ghigno compiaciuto che aveva rifilato a chissà quant’altre ipocrite bestie da tiro, per assicurarsi la loro falsa complicità. Non risposi niente, né lo salutai. I miei occhi erano fissi su quel cadavere appeso.
Mentre il popolo rumoreggiante si ripercuoteva nelle strade, ponendosi come meta qualche luogo ove brindare all’esecuzione, il vento aveva ripreso a soffiare. Le campane delle porte, però, non suonavano più. Rimasi ore ed ore accanto alla forca, a guardare l’angelo ucciso. Ero vuoto dentro come una notte senza luna e senza stelle, come un oceano senz’acqua, e in quel momento desideravo anch’io la morte per me stesso. Ma ero troppo codardo per togliermi la vita. Tutte le certezze e i principi che avevo erano stati bruciati e calpestati da quell’orribile martirio. Ero perso nella mia tristezza. Cercavo ovunque una ragione, ma vanamente. Sentivo che la mente si confondeva in pensieri inutili e insensati, e che lo stomaco era prossimo a esplodere dal dolore. Era successo tutto in un soffio beffardo: dal dubbio all’atroce verità di morte, dalla nascosta incertezza alla scioccante sofferenza. E mentre maledivo me stesso per le false parole che, nel nome di Dio, avevo pronunciato in tribunale, la notte cavalcava nei vicoli e ricopriva col suo mantello nero il mondo degli uomini. Quanto avrei desiderato che essa avvolgesse anche me, e che io scomparissi da questa vita infame e maligna! Avevo commesso un errore imperdonabile mandando a morte Desdemona Daniel. Questo era il pensiero che mi uccideva, e l’unico mio pensiero in quei momenti... Appoggiai la testa sulle mani.
Spiriti nebbiosi mi volteggiavano intorno, scrutandomi come un essere bizzarro: probabilmente avvertivano il male che m’opprimeva, ma non mancavano ugualmente di prendersi gioco di me. Attraversavano il mio corpo e la mia testa, unendosi ogni volta che si scontravano, simili a piccole nuvole mosse dal vento, e correvano nei muri delle case, sui tetti, nell’aria, cercando di attirare la mia attenzione. Io però non potevo dar loro soddisfazione, assorto com’ero nei miei angoscianti pensieri, ed essi presto si stancarono della mia desolazione e se ne andarono. Ero solo col mio cadavere.
La brezza alzava la polvere e la faceva roteare nel cielo, e nelle folate più forti emetteva un sibilo acuto e stridente. Di rimando, il cielo ruggiva preannunciando un forte temporale. Io osservavo Desdemona, nel suo vestito umile e sporco, indegno per una tale creatura. Mi sovvenne che, non avendola salvata, avrei almeno potuto salvare le sue reliquie, e seppellirle personalmente in un luogo consacrato, dove la sua anima avrebbe goduto del paradiso. Non le era nemmeno stata concessa la benedizione del prete. La sua “liberazione dal maligno” era consistita soltanto nel suo assassinio! Ero deciso a rapire il corpo e dargli degna sepoltura. Mi avvicinai ad essa e la guardai più da vicino. Il suo volto era rosato.... Allungai la mano per sfiorare la sua pelle, gesto di cui m’ero sempre avveduto dal fare, per la stupida paura di una maledizione o di un contagio. La sua guancia emetteva ancora un pallido calore, e quanto era liscia la sua pelle! Era levigata come un vaso di porcellana, o come un prezioso diamante. Ma mentre accarezzavo il suo volto, i suoi occhi si spalancarono e mi fissarono. Balzai indietro dallo spavento, ritraendo subito la mano e rimasi in attesa, stretto nel terrore. “Pagherai per la tua condanna” mi disse. E sorrise, in un espressone orribile, mista tra eccitazione e vendetta. I suoi occhi continuarono a fissarmi, immobili, e mi ipnotizzavano. Avrei voluto voltare lo sguardo ma non potevo. Ma poi, avrei voluto veramente? Quella figura straordinaria, misteriosa e bellissima aveva prodotto su di me un fascino magico e aveva stregato il mio pensiero. Ero spaventato ed eccitato da quell’improvviso risveglio, e per la prima volta la mia mente non si curava dell’aspetto pratico o dell’evidenza del fenomeno, bensì si lasciava trasportare dall’istinto, dalla mia vera substantia. Continuavo a puntellare le sue pupille col mio sguardo e a poco a poco scivolavo nel baratro in esse contenuto, essendone tuttavia felice. Senza avvedermene mi spinsi in avanti, trovandomi di fronte al suo viso. Era un vero e proprio capolavoro, impossibile da riprodurre date le sue forme troppo armoniose. Le sue labbra avevano assunto adesso un colorito più pallido ed erano leggermente più spesse, più carnose. Avrei voluto con tutto me stesso poterle sfiorare con le mie; sentivo che lo desideravo ardentemente, e infine, vinto dall’emozione, lo feci. Baciai Desdemona.
Ma presto fui riportato alla vita.
Mi svegliai.
Aveva preso a piovere con vigore, ed io ero già bagnato quasi completamente. Desdemona era ancora lì, il suo corpo sbeffeggiato ancor di più dalla pioggia. Le lanciai un ultimo sguardo d’addio e volsi le spalle, tentando di lasciarmi dietro tutto il rimorso che mi stringeva e attanagliava il cuore. Scesi dal patibolo e lentamente mi avviai verso casa.

II

Nei mesi che passarono non riuscii a convincermi che l’errore è umano. La ferita che portavo non accennava a rimarginarsi e spesso rividi in sogno quegli occhi docili e gentili, quel volto sincero e delicato, ma anche lo sguardo di vendetta che avevo veduto nell’incubo. Sapevo che quella terribile promessa derivava soltanto dalla mia malinconia e che ella, in vita, non avrebbe mai pronunciato quelle parole, ma soffrivo ugualmente di un rimorso e di un terrore profondi. In aggiunta non riuscivo più a concentrarmi sul lavoro e mi abbandonavo sempre più spesso a sfrenati e deplorevoli vizi. Avevo perso il pudore, e frequentavo ormai assiduamente camere di puttane da quattro soldi, accontentandomi di avere rapporti con donne di qualsiasi età, nazionalità o aspetto fisico, rigirandomi nel letto come un porco nel fango e riempiendo le mie orecchie di stupidi aneddoti o di inutili storie oscene e paesane. Non soffrivo più per nessuno se non per me stesso e, chiuso nei miei insulsi pensieri d’egoismo e indifferenza, ero accecato da un odio senza bersaglio. Mentre il mondo intorno a me si evolveva io regredivo, e lentamente troncavo con l’esterno ogni contatto.
Centinaia di tramonti solcarono l’orizzonte, e a circa tre anni di distanza dall’esecuzione di Desdemona (non sono sicuro del tempo che trascorse realmente poiché non seguivo più il giorno e la notte) mi trovavo lì, perso nei meandri dell’alcol e del hashish, unici compagni ancora fedeli, mentre la mia vita scivolava lentamente verso la terra di Lucifero, dove mi avrebbe accolto una pena senza fine. Mi segregavo in casa o in sudice bettole e consumavo la mia esistenza concedendomi ai piaceri della droga, e tramite essa volavo via dal lettuccio, scoprendo nuovi mondi e paradisi sconosciuti, dove ogni sentimento scompariva offuscato da una densa fuliggine. La mia mente era libera, si appropriava di storie non sue e vi trascinava la mia anima e la mia memoria. Non riuscivo quasi più a discernere la realtà dal sogno. Ero sano tre ore al giorno, e ne dormivo due; nella mia testa non vi era più spazio per avventure. Il denaro, come del resto la forza del mio cuore, lentamente si prosciugavano e ben presto sarei finito, senza scrupoli, a far l’elemosina a qualche angolo di strada o in qualche locanda malfamata.
Giunse però dal cielo, in quel momento, la provvidenziale mano di Dio, che volle aiutarmi e togliermi da quella misera condizione, riportandomi alla vita. O almeno così credetti.
In un paese prossimo a quello in cui abitavo una donna, Cathrina Dickinson, venticinquenne, fu accusata dell’omicidio del marito Edward Smith. Un caso semplice, di routine, che un tempo forse non avrei nemmeno accettato, ma allo stesso tempo l’unica cosa che avrebbe potuto risollevarmi dalla melma in cui vivevo. La ragazza venne da me a pregarmi di aiutarla, ed io rimasi estremamente affascinato dalla sua semplicità e gentilezza. La guardavo, mentre parlava, e le sue parole formavano un torrente squisito a cui la mia mente si abbandonava. Il mio sguardo era fermo su di lei, immobile come la pietra, e accarezzava la sua pelle profumata, che lasciava intuire una tenera e vellutata delicatezza. Il suo volto giovanile si muoveva in vivaci danze mentre i suoi occhi scuri e felini mi osservavano e mi carpivano, inchiodandomi a lei che, senza far niente, mi aveva già completamente ammaliato. La sua storia era decisamente triste: per volere del padre si era sposata, due anni prima, con il signor Smith, un ricco mercante del nord. Strappata alla sua giovinezza fu catapultata in un mondo a lei sconosciuto, fatto di perfide astuzie, raggiri e cospirazioni, che il marito metteva in pratica continuamente. Le sue virtù erano state calpestate ed estirpate: era divenuta una serva e nient’altro. Il marito, mi raccontò Cathrina, tornava ogni sera ubriaco, dopo che si era abbandonato a piaceri di qualsiasi genere; spesso si rivoltava contro la moglie picchiandola e abusando di lei. Sadico e deviato, praticava sulla giovane torture di ogni tipo. Di giorno ella veniva segregata in casa, ammanettata a volte, per evitarle la fuga, ed era costretta a lavorare come una schiava senza poter pronunziare una sola parola. Dopo due anni di atroci sofferenze accadde un giorno che Edward tornò a casa prima del solito, col volto stanco ed atterrito. Uno dei tanti raggiri da lui operati era stato smascherato: entro breve lo avrebbero cercato e ucciso. Tornò a casa, quel giorno, in compagnia di un gigantesco uomo di colore, probabilmente proveniente dall’Africa, e si notava nel suo sguardo una strana e inquietante pensierosità, che niente prometteva di buono. La giovane guardava timidamente il marito, che a sua volta osservava quel candido volto, mentre un’idea terribile e maligna si snodava nel suo cervello. La tensione saliva nell’aria; il silenzio era spezzato ritmicamente dalle gocce d’acqua che cadevano dal catino sul tavolo... “Ho bisogno di te” disse Edward, “puoi aiutarmi?” Timidamente la ragazza annuì e attese. “Ho bisogno di te per un’ultima volta.” si fermò. Le gocce schioccavano regolarmente sul pavimento, e come un metronomo rompevano l’aria ed echeggiavano nella stanza. “Vedi, ieri sera una puttanella di poco conto si è ribellata ad un semplice giochetto che volevo farle; si è messa ad urlare e ha tentato di staccarmi un dito. Ho dovuto ucciderla, poverina. Si dà il caso però che ella fosse la figlia di un importante commerciante di assenzio che, saputa la notizia, ha deciso di darmi in pasto ai maiali. Ora, quella sgualdrina non era affatto affidabile, e spesso spariva di circolazione per lungo tempo senza lasciare tracce. Nessuno ha visto il corpo della vittima, quindi, dimostrando che la morta non è la figlia del commerciante, molto probabilmente questi penserà che la figlia sia fuggita un’altra volta e almeno per un po’ non mi darà la caccia. E’ tutto molto semplice, ma ho bisogno di un cadavere. Tu devi essere quel cadavere. Inoltre non posso più badare a te; le cose qui si vanno complicando ed è meglio che lasci il paese per un po’. Non posso certo portarti con me!” La ragazza iniziò a respirare affannosamente, prese a piangere singhiozzando, chiedeva pietà. Passarono due minuti interminabili. Il cuore dell’uomo non sembrava affatto addolcito o commosso. tic...tic... risuonava quella piccola pioggia. tic............ tic........... sul pavimento di pietra. Ogni rintocco era un secondo in meno, il conto alla rovescia andava terminando. tic........... tic............ tic.............. “Yuma!” pronunciò con forza Edward. A quel comando l’enorme africano si mosse verso Cathrina. Un urlo percorse le mura della casa. Il marito si diresse anch’egli verso la ragazza per tenerla bloccata mentre il colosso l’avrebbe strangolata; la giovane indietreggiò velocemente finché non urtò con la schiena il tavolo della cucina. Spinse la mano dietro di sé cercando freneticamente qualcosa per difendersi, mentre il bestione di colore si avvicinava con fermezza. Scandagliò l’intera superficie del tavolo, ma il catino che vi etra appoggiato le impediva di tastarne una notevole parte. Il marito era ormai a pochi centimetri da lei, le braccia protese, il volto posseduto da una terribile espressione di crudeltà. La giovane si lanciò da un lato, per evitare l’uomo, finendo precisamente addosso a Yuma. Edward, sorpreso dall’inaspettata mossa cambiò repentinamente direzione. Il suo piede finì probabilmente sulla parte di pavimento bagnata dalle gocce d’acqua e perse l’equilibrio. Scivolò in avanti, urtò con la fronte il piano del tavolo. Cadde in terra tramortito. Cathrina intanto era bloccata dall’africano, che la teneva prigioniera tra le braccia. La ragazza tentava invano di divincolarsi da quella presa stritolante, mentre lui le spingeva la sua enorme mano verso il collo. Strinse le carotidi con energia. In pochi secondi la vittima perse i sensi e stramazzò al suolo svenuta. Quando si riprese aveva intorno a sé molte persone, poco oltre la sua testa il corpo senza vita del marito. Fu arrestata con l’accusa di omicidio, nonostante ella non sapesse nemmeno il modo preciso in cui il marito era morto. Quasi certamente Yuma non l’aveva uccisa perché sapeva che sarebbe stata la corte a darle il verdetto di morte, e che quindi sarebbe stato inutile accollarsi una tale responsabilità.
Cathrina non poteva pagarmi, poiché il giudice aveva bloccato le finanze del marito. Mi aveva chiesto di farle da avvocato, di difenderla, di salvarla dalla morte. La osservavo in silenzio, mentre ella teneva i suoi occhi lucidi bassi sotto la scrivania e sospirava leggermente con una triste e rassegnata sincerità. Io, ero abbandonato alla contemplazione, e la mia mente aveva già operato la sostituzione: ben presto mi accorsi di non avere più davanti Cathrina, bensì Desdemona. Sapevo che se avessi salvato la prima sarebbe stato come redimere il mio peccato di non avere assolto la seconda. Tutta la mia maniacale attrazione per quella donna riemerse in un secondo, e accettai il caso.
Riuscii a rinviare il processo fino a tre mesi dopo, ottenendo così il tempo necessario a raccogliere le tracce, gli indizi e le prove che avrebbero discolpato la mia cliente e allontanato il mio rimorso. Inizialmente lavorai con costanza, abbandonando completamente la droga e l’alcol. Smisi di frequentare bordelli e puttanai, tornando ad essere quell’educato e brillante uomo di legge che ero una volta. Ma tutto questo non derivò dal sentimento per Cathrina, poiché lei, per me, non esisteva. Ogni volta che guardavo il suo volto riconoscevo in lei la candida espressione della Daniel e senza nemmeno accorgermene lentamente mi invischiavo nella resina appiccicosa dell’amore e sempre più facevo fatica a liberarmene per condurre oggettivamente le mie indagini. Come il cielo alla tempesta, io ero predisposto all’amore, ne sentivo il profumo; sentivo le prime gocce cadere su di me, ma non me ne curavo; ben presto però, da pochi spruzzi che erano, il cielo e il mio cuore si coprirono, e la pioggia pungente scrosciò su di me lasciandomi inerte ed impotente, senza la forza di oppormi a quell’evento naturale. Come di fronte ad un’incredibile calamità, curioso e impaurito, stupito e ammaliato, rimanevo immobile ad osservare Amore avvolgermi, e felicemente rassegnato non opponevo resistenza a quel terribile mostro. Cathrina, Desdemona, o chiunque ella fosse aveva carpito ogni mio pensiero; ero ormai vittima e prediletto dell’Amore.
Nel tempo che seguì mi immersi nell’armonia di quella giovane ninfa; l’amai, la sedussi ed ella si concesse a me. Trascorremmo notti insonni, lasciandoci andare ad una passione sfrenata e profonda. Muovevo il mio corpo sul suo, sfiorando la sua pelle nuda con le dita e con le labbra, assaporando il gusto esotico e dolciastro di quella tenera superficie rosata, ascoltando il profumo dei suoi capelli. Dopo l’impeto sessuale riposavo la mia testa sul suo seno spoglio, mentre ella mi accarezzava il viso con mano protettiva e materna. Ero appagato e finalmente felice. I tre mesi passarono celeri, volarono via come foglie nel vento. A pochi giorni dal processo mi accorsi che le prove da me raccolte erano esigue e non convincenti. Mi ero troppo abbandonato a Cathrina, dimenticandomi del suo caso. Eppure la sua salvezza era riposta nelle mie mani. Inoltre, già da qualche tempo mi ero accorto di non essere più innamorato di un ricordo: certo Cathrina aveva inizialmente personificato Desdemona, ma avevo capito che provavo per quest’ultima soltanto rimorso, e nient’altro. Avevo trovato in Cathrina la persona migliore che avessi mai incontrato. Soltanto di lei ero innamorato, e dovevo salvarla.

III

In poco tempo arrivò il processo. Centinaia di teste incipriate e coperte di parrucche occupavano l’aula. Al centro vi era Cathrina, vicino a lei ero io. Tutto, all’interno, era in legno: un legno scuro, purpureamente venato, che incupiva l’ambiente e lo rendeva estremamente minaccioso. Lunghi drappi di velluto rosso pendevano dall’alto; sopra il trono del giudice vi era un enorme stemma dorato dove era inciso, in bassorilievo, l’emblema del paese. Sul lato destro dell’aula vi erano due gigantesche finestre alte quasi quanto il soffitto, che ad occhio e croce misurava 6-7 metri. Le vetrate erano perlopiù trasparenti, salvo al centro, dove presentavano strane raffigurazioni e mosaici in vetro verde e vermiglio. A delimitare le suggestive finestre vi erano due tendoni altrettanto lunghi di color seppia, che si rovesciavano lungo il muro come fiotti di sangue e bagnavano lo spirito di profonda tristezza. Non era possibile respirare là dentro! All’imponente nobiltà e sfarzo di quel luogo era unito un claustrofobico senso di prigionia, poiché tutto quel velluto rompeva il respiro e opprimeva il pensiero, rendendolo impotente. Decine e decine di volti paurosamente somiglianti tra loro guardavano l’ingresso dell’aula, squadrando ogni persona che entrava, intuendone astuzia e capacità intellettiva, individuando con assoluta certezza le loro possibilità economiche, immaginando il motivo della loro partecipazione al processo. Come grandi girasoli rivolti alla luce, tutti posti nella medesima posizione, i giurati insieme ai membri dell’Alto Consiglio, rimanevano immobili e attendevano. Cathrina aveva posto il suo piede tremante nell’aula precisamente alle 10 e 34 di mattina. La folla era rimasta ad osservarla in silenzio, scrutandone l’angelico aspetto che avrebbe dovuto nascondere una profonda capacità omicida. Era difficile immaginarla come assassina mentre si spostava ondeggiando leggera, quasi senza toccar terra. Io ero arrivato dopo di lei. Il mio volto disteso celava un’ardente tensione: non solo non avevo abbastanza prove per difenderla, ma in più ella era la donna che amavo, la donna con cui trascorrevo le mie notti insonne, ripiegandoci nel letto, vestendoci solo di noi stessi, mentre il tempo instancabile perpetuava nella sua marcia.
Dovevo salvarla.
Il processo cominciò. Gli occhi intorno mi puntavano come fossi diverso, straniero, come un estraneo da guardare con titubanza. L’Accusa iniziò la sua arringa: ben costruita e sicuramente preparata da molto tempo, mostrava uno stringato ed efficientissimo stile atticista, scevro di ornamenti e di figure retoriche, ma preciso ed efficace. Cathrina, che prima del giuramento era preda di una straziante paura, sembrava ora estremamente tranquilla, quasi non capisse la sua possibile condanna o fosse assolutamente certa della sua assoluzione, come se riponesse la massima fiducia nel mio lavoro. E proprio questo pensiero mi assaliva: non potevo sbagliare! L’avvocato pronunciò la sua accusa con acuta intelligenza, basandosi sui fatti, operando deduzioni sillogistiche di apparente semplicità, convincendo il pubblico e la giuria con la trasparenza e la logica, piuttosto che con un’architettata retorica. In breve l’orazione finì, e riconobbi nei volti dei giurati l’approvazione di chi ascolta un bel discorso.
All’appello del giudice mi alzai dalla sedia solennemente, ma nel mio cuore ero fragile come una foglia secca. Mi schiarii la voce nel silenzio dell’aula, poi cominciai: “Ricordo che un giorno, quando avevo più o meno dieci anni, mia madre fece una bellissima torta, grande, coperta di miele e di crema, e la mise a raffreddare sul davanzale. Mio padre, troppo goloso per frenare il suo istinto, prese la torta, la portò in camera mia e la mangiò tutta, facendo attenzione a far cadere una gran quantità di briciole sul pavimento, come prova della mia colpevolezza. Un crimine perfetto......... Probabilmente mio padre non immaginava che sarei diventato un uomo di legge!” La folla rise. “Mia madre tornò e scoprì il misfatto. Naturalmente fui incolpato io, nonostante asserissi con tutte le forze che ero innocente. Fu allora che decisi che sarei diventato avvocato, perché non potevo sopportare l’accusa infondata o la pena in assenza di reato. E per questo oggi sono qui. Sono qui per dimostrarvi che Cathrina Dickinson è innocente, che cadde vittima di un raggiro, di una cospirazione, e che solo grazie al volere del fato ella non rimase uccisa. Volete dunque opporvi al destino salvatore?”
Mentre parlavo gli spettatori e gli incipriati mi osservavano, ascoltando attentamente le parole che uscivano dalla mia bocca, rimanendo in silenzio, tentando di analizzare ogni mio vocabolo per ricollegarlo ad un’idea precisa, con lo scopo di introdursi nella mia mente e captare ciò che veramente pensavo. Le tende, tirate ai lati delle vetrate, rendevano possibile la visione del cielo all’esterno che, in breve tempo, da pallidamente soleggiato com’era, era divenuto cupo e denso come il fumo del petrolio che brucia. Erano secoli che non si vedeva un vero sole ardente e luminoso. Negli antichi manoscritti, vecchi di una sessantina di lustri, si parlava di un periodo d’oro in cui ogni giorno il clima era caldo, in cui i fiori sbocciavano tutto l’anno e i raccolti non abbisognavano di riposo. Non esistevano carestie, in quel tempo, e gli uomini morivano solo per l’età. I fiumi, nonostante il tepore perpetuo, continuavano a scorrere con potenza, le bestie non conoscevano il letargo ed erano prede dell’uomo per tutto l’anno. La vita prosperava in ogni luogo, le popolazioni s’ingrandivano, crescevano le città...... E poi....... Poi più niente. I manoscritti si arrestavano qui. Da quando gli uomini delle nostre terre ripresero a scrivere non si parlò più del tempo d’oro. Il sole era divenuto annebbiato, la pioggia spesso allagava la terra, il freddo era ormai padrone indisturbato. Tra i due periodi di testimonianze vi è un lasso di tempo di circa tre secoli. Tre secoli d’ignoto. Nessuno conosce il motivo di un cambiamento così repentino, o il perché di quell’interruzione nei manoscritti. Le giornate, ormai, quando non sono piovose, ospitano al massimo un tenue bagliore, e tale scura condizione si è trasferita anche nei cuori degli abitanti, che sono divenuti costantemente freddi e noiosi. Ma non tutti sono di questa natura. Vi è qualcuno che riempie il vuoto e la tristezza del tempo con il calore gioioso del proprio carattere. E una di questi era Cathrina.
“Vorrei portare all’attenzione della giuria un particolare che ritengo fondamentale.” continuai. “Se, come ha sostenuto l’Onorevole Accusa la signorina Dickinson commise l’omicidio, come avrebbe fatto ella a nascondere l’arma del delitto prima di svenire? Non si può certo svenire a comando! E’ stato riscontrato che nella stanza vi erano due persone oltre alla mia cliente: una di esse è stata ritrovata, seppur morta; l’altra no. Dunque sappiamo che vi era qualcun’altro al momento del delitto, sicuramente complice del defunto. Potreste replicarmi che tale ignoto avrebbe potuto anche essere d’accordo con l’accusata, ma vorrei farvi notare che essa non svenne indipendentemente: la Dickinson, al momento del risveglio, presentava sul collo segni di aggressione. E’ stato riscontrato dall’analisi medica cui l’accusata si è sottoposta, che nei lividi riportati da ella sul collo si distinguevano chiaramente le impronte delle dita dell’aggressore, grazie alle quali è stato palesato che quelle mani non appartenevano ad Edward, date le sue minute dimensioni palmari. Dunque l’Accusa sostiene o che Cathrina Dickinson avrebbe ucciso il marito mentre la terza persona la sveniva, o che, dopo aver procurato la morte al signor Smith, avrebbe nascosto l’arma mentre era svenuta. Chiaramente questi sono solo paradossi. Ma se ancora voleste replicarmi che l’ignoto personaggio avrebbe potuto introdursi nella casa dopo il delitto, dovreste prima spiegarmi il motivo per cui tale persona avrebbe dovuto aggredire Cathrina, sapendo di poterla consegnare alla legge, e poi sparire di circolazione senza testimoniare.
La verità, miei cari colleghi, è ben altra: il signor Edward Smith tornò a casa insieme allo sconosciuto e aggredì Cathrina. Per volere del fato fu vittima di un incidente (testimoniati anche dai segni sul tavolo e dalla posizione in cui fu trovato) e perì autonomamente. La ragazza fu allora preda dello sconosciuto che probabilmente, nell’intenzione di ucciderla, le procurò invece una morte apparente, stato in cui ella fu ritrovata. Nessuna arma, nessuna incongruenza. L’esperienza ci insegna che non dobbiamo fermarci alla soluzione più ovvia, è vero, ma in questo caso tale soluzione è anche l’unica possibile. Mi appello quindi all’Onorevole Giuria, perché ella valuti con attenzione ogni elemento, e infine accordi l’assoluzione.”
Il mio stile celere, logico e un pizzico arrogante aveva nuovamente colpito il pubblico. “Dunque non ho perso del tutto le mie capacità.” pensai, e sorridendo tornai a sedere. Il giudice ordinò che la giuria si ritirasse per decidere il verdetto, e così fu. Uscimmo dall’aula. Sapevo che c’erano molti punti della mia arringa che barcollavano pericolosamente, soltanto in parte nascosti dalle buone parole. Ma sapevo anche che i giurati ricordavano la mia brillante carriera e, ahimè, la condanna di Desdemona che, nonostante il mio pentimento, mi aveva reso celebre, conosciuto e stimato come “Il Savio che combatte la Morte”. A scapito di Desdemona, la sua condanna mi sarebbe probabilmente tornata utile adesso, in quest’aula, dove i membri del Consiglio avrebbero rimembrato le mie gesta e con un sorriso compiaciuto mi avrebbero regalato la vittoria. Nel giro di pochi minuti l’aula si riempì di nuovo. Cathrina era ancora seduta al centro, aspettando il verdetto con estrema serenità. Il giurato consegnò la carta inceralaccata contenente la risposta alle nostre speranze. Il giudice ruppe il sigillo ancora caldo, incalzò la lente e sbirciò il foglio. L’aula era come una statua di marmo: osservava e non pronunciava parola. Fuori incombeva il temporale. Le parrucche erano tutte rivolte verso il maestoso “Uomo della Legge”, che sedeva sul suo trono immobile e attonito, scrutando la carta con cura. Sollevò lo sguardo, fissò gli occhi su Cathrina, poi su di me. Risposi allo sguardo. Tornò alla carta. “La Giuria dichiara Cathrina Dickinson........” sapevo la risposta.........un sospiro........ “.....innocente”. Sorrisi leggermente, con l’aria di chi se ne intende. Cathrina esplose di gioia, corse da me e mi abbracciò. Il pubblico scambiava commenti, la giuria si ritirava. La tempesta festeggiava coi tuoni.
Ce l’avevo fatta.

IV

La sera mi recai da Cathrina. Come erede diretta aveva ottenuto tutte le ricchezze del marito, ed io, pur peccando di materialismo, sapevo che sposandomi con lei avrei risolto i miei problemi finanziari. Ad ogni modo l’amavo profondamente e con assoluta sincerità, ed ero pronto a prenderla in moglie che avesse o no i soldi per vivere. Ci eravamo dati appuntamento nel parco per le 8 e 30. Il cielo, smesso di piovere, era tornato nelle sue patetiche condizioni di grigiore, e lentamente, dietro le nubi a fiocchi, il tiepido sole indietreggiava verso ponente. Mentre camminavo osservavo la natura intorno a me, che con piccoli fiori impauriti e con un pallido verde antico tentava di interpretare l’estate che avanzava; i pochi scoiattoli che zampettavano arzilli sui rami degli alberi, affrettandosi nel rientro a casa, mi suggerivano il ricordo di quando ero bambino, di quando correndo come un matto imboccavo la strada di casa, per raggiungere in tempo la tavola apparecchiata per la cena. Camminavo nel parco guardando il tramonto su cui si stagliavano guizzi veloci, neri come la pece, svolazzando qua e là in cerca del pasto. Le piccole ali repentine cambiavano senso veloci: s’inarcavano, si stiravano, si piegavano su e giù, e la rondine già non era più lì: correva dietro l’altura, tra i rami e le fronde dei cipressi; singhiozzando frenetiche note si rizzavano al cielo crucciato, analizzavano l’aria cercando insetti attardati, picchiavano verso terra, viravano nuovamente. Come spruzzi d’inchiostro scagliati da un pittore sulla tela bianca, le rondini tingevano il cielo, a puntini, e perpetuavano la loro caccia, pittoresche e vivaci. Glissavano alte in una danza ondeggiante, azzardavano difficili ellissi e sinuose, nel vento, libravano l’ali, capriolando nell’etere fine; si incrociavano fingendo lo scontro: nella mente, adesso, vedevo quei pensieri leggeri, che rincorrendosi creavano in me un allegro miscuglio di sensazioni. Cinguettavano nella mia testa i ricordi gentili. All’ultimo raggio di sole ero ubriaco di quel coro sublime.
Il vialetto si snodava tra l’erba verde tagliata finemente; altissimi aceri sovrastavano il tutto e lontane, le fronde, nascondevano il cielo ormai ombroso. Come un serpente di terra il sentiero attraversava il prato e di tanto in tanto comparivano, ai piedi di quei colossi dal tronco nero, rudi panchine di pietra, scolpite in blocchi unici, d’aspetto grezzo ma affascinante. Il tortuoso stradello era delimitato da piccole pietre biancastre. Ai lati, distante da esse, imponenti cespugli di rododendro nascondevano talvolta piccole spelonche buie, riparo per lepri e scoiattoli. Proseguivo il mio cammino guardando i miei piedi, calciando talvolta qualche sassolino, mantenendo un passo svelto e leggero. Ero impaziente di vedere Cathrina. Quali futuri ci avrebbero atteso ora? Speravo che in ogni caso si sarebbero uniti.... “Cathrina voglio sposarti” pensai, e pur senza volerlo sussurrai tale pensiero. Sorrisi e alzai lo sguardo. L’aria ormai era scura e il crepuscolo presto avrebbe fatto spazio alla notte. Osservai che lo stretto viale curvava dietro gli alberi poco più avanti. Lo seguii.
Subito dopo la curva mi apparve una visione celestiale.
Immersa in quella natura incontaminata, in perfetta armonia con le forme dell’universo, era lei, la mia ninfa, Cathrina.
Era dipinta con un velo rosa che le abbracciava il corpo, la chioma castana era semi-coperta da uno scialle di seta dello stesso colore. La sua figura, giovane e incantevole, illudeva i miei occhi: non sapevo più cosa avevo davanti: quella perfezione illibata mi riportava alla mente le sculture del classicismo ellenico, e mi confondeva. Di fronte a me osservavo una Venere circondata da un universo di piccole cose; contemplavo quella visione panteistica della natura: era lì la mia donna (o forse il mio angelo?) e si scrutava attorno, in mia ricerca. Io ero fermo poco distante da lei, ma non osavo pronunciare parola, né desideravo che ella si voltasse e mi vedesse: semplicemente ero immobile e muto perché volevo osservarla mentre ella non mi vedeva. Amavo cogliere le sue espressioni spontanee quando ella non sapeva della mia presenza. Avrei voluto baciarla, ma mi divertivo a prolungare l’attesa, così da accrescere ogni secondo di più il mio desiderio, godendo della dolce sofferenza che scaturiva dal mio silenzio. Dopo pochi minuti la bellissima si volse e mi vide. Sorrise lievemente. Mi avvicinai a lei tanto da poter sentire il calore del suo sospiro. Le rubai lo sguardo, ricambiai il sorriso, mi spinsi per baciarla. Ma avvertii qualcosa di insolito. Non era tutto puro intorno a me, vi era uno strano mistero che mi circondava. E tale cattivo presentimento non era affatto assopito dalla visione di quel melodico eden, poiché sapevo che anche la natura, così casta e docile al primo sguardo, può nascondere invece segreti spaventosi. Cominciammo a camminare a passo molto lento, senza proferire alcuna parola. Attraversammo l’intero parco ascoltando il silenzio, entrambi assorti nei propri pensieri. Mi era tornato in mente, senza sapere perché, un romanzo che avevo letto da ragazzo, di cui ora non ricordavo né il titolo né l’autore, in cui un cavaliere dalla fierezza e dall’onore affermati, si rivelava sotto la sua gloria esteriore un terribile e spietato assassino, che uccideva le sue vittime in modi efferati e crudeli. Questo cavaliere pazzo era capace di qualsiasi gesto: sotto le spoglie di un uomo giusto e coraggioso si nascondeva una sadica bestia. Non avevo più rimembrato quel romanzo ormai da parecchi anni e proprio per questo ebbi paura, poiché nessun pensiero ci viene mostrato per caso.
In breve raggiungemmo la sua grandiosa dimora. Appena entrati ella mi prese la mano e mi fissò. Vedevo in lei l’amore, l’oggetto dei miei desideri; avrei voluto cingerla con forza e assaporare le sue labbra, avrei voluto liberare tutta la foga e il desiderio in me racchiusi......ma sarebbe stato sconveniente. Continuavamo a fissarci senza parlare, le mani sorrette da quelle dell’altro. Ma quell’attesa carica di pathos si prolungò ancora per poco: Cathrina, di colpo, si gettò su di me, facendomi cadere a terra. Piena di impeto ed eccitazione mi strappò la camicia, facendo saltare i bottoni dalle asole e cominciò a baciarmi il petto con violenza, con labbra umide e vogliose. Dalla mia, pur sorpreso dal gesto inaspettato, non mi tirai indietro e le alzai velocemente la lunga gonna fino a raggomitolarla completamente sui suoi fianchi. In pochi minuti eravamo entrambi nudi, e sul pavimento di marmo ci abbandonammo alla lussuria più sfrenata che avessimo mai provato. Con le mani stringevo le sue gambe mentre la baciavo ovunque; ella gemeva con la bocca semi-aperta ed esalava respiri affannati. Nel momento in cui il mio corpo culminò nel godimento chiusi gli occhi.
Quando li riaprii un terrore lancinante mi attanagliò la gola: sotto di me, adesso, vi era Desdemona.
Balzai di lato, disorientato e con la testa dolente, mentre il mio corpo pulsava come un mantice. Socchiusi e riapersi velocemente le palpebre: Cathrina.......
Cathrina era lì e mi fissava stupita e irritata dal mio sobbalzo. Non sapevo darmi una spiegazione. Non sapevo quale strano marchingegno del mio cervello avesse operato quella fittizia sostituzione; era forse ciò che inconsciamente desideravo? Assorto e immobilizzato mi ponevo queste domande irrisolvibili. Cathrina intanto aveva iniziato a ricomporsi e mi guardava con l’aria torva di chi, quando sta per raggiungerlo, viene privato del suo massimo desiderio. Anch’io ora cercavo di chiudermi la camicia come meglio potevo, pur continuando ad cercare una possibile spiegazione a quell’insolito e scioccante flashback. Quando fummo entrambi pronti la guardai con aria sottomessa, di chi cerca in ogni modo di chieder scusa con gli occhi; poi tentai di avvicinarmi.... Mi respinse. Preparato a quel comportamento inizia la mia arringa di difesa:
“E’ stato un attimo di sban....”.
“Sono stata io.” mi interruppe, e il suo volto si fece più freddo.
“A far cosa?” le domandai.
“A uccidere mio marito. Non sopportavo più il suo volto, le sue attenzioni, il suo lavoro. L’ho ucciso e ne ho ereditato tutti i risparmi. Ma non preoccuparti, non starò qui a lungo. Questa casa è già stata venduta e domani nessuno mi vedrà più.”
“Cathrina ma cosa.......perché.....” balbettai qualche parola.
“E’ stata una vera e propria scemenza. Yuma chiaramente era d’accordo con me. Abbiamo inscenato tutto, compreso il mio tentato strangolamento. Tutto perfetto. Tu sei stato molto caro, e molto utile. Credimi, per un attimo ho anche avuto il timore di poterti amare veramente, ma non avrei mai sopportato di vivere con te dovendoti nascondere un tale segreto. E comunque, non c’è niente che tu possa fare ormai. Rassegnati. In fondo non sono mai stata tua.”
Mentre ella parlava dentro di me un rancore violento prorompeva verso l’alto: l’avevo sentito partire dal fondo dello stomaco, per poi prendermi tutto il petto, il cuore, e in alto verso la testa. I miei occhi si erano fatti lucidi e sanguigni, le mie mani tremavano furiosamente, il respiro era forte come quello di un cavallo in corsa.
“Io ti uccido, maledetta sgualdrina!!” le urlai con tutta la rabbia che avevo dentro. Ma ella non si spaventò affatto: continuò a fissarmi, e con la calma di un bambino che giace nel suo letto mi disse semplicemente: “non lo farai”.
Ed io non lo feci.
La lasciai andar via da quella casa, guardandola allontanarsi, intanto che il mio cuore strideva e la mia gola soffocava. Qualsiasi sensazione perturbante, in quel momento, fu lieta di dimorare in me, e nel buio di quella sera scolorita piansi le lacrime più amare che mai avessero bagnato il viso di un uomo.

V

Non ho mai parlato a nessuno di ciò che Cathrina a fatto realmente. Non mi importa che la legge abbia assolto una colpevole, mi importa soltanto del fatto che quella maledetta ragazza si è presa gioco di me e del mio amore, mi ha illuso, raggirato e sfruttato nel peggiore dei modi; mi ha deliberatamente usato. Eppure, tutto questo non riesce a farmi smettere di amarla.
E’ diventata una sorta di ossessione. Vedo la sua espressione in fondo ad ogni bottiglia di whisky che trangugio, vedo il suo corpo in ogni prostituta che frequento, nei sogni d’oppio è lei la regina del mio regno. Sono passati tre mesi dalla sua partenza e da allora, nella realtà, non l’ho più riveduta. In tre mesi sono riuscito a dilapidare completamente i pochi risparmi che avevo guadagnato, e ad estinguere la mia mente più di quanto avessi mai fatto prima. Vivo in un perenne stato di semi-catalessi. I miei viaggi onirici sono ogni giorno più atroci e spaventosi. Ho raggiunto il punto di non-ritorno.
Nei pochi spazi di sanità mentale che mi sono rimasti ho scritto queste righe piene di ricordi. Tali rimembranze, le uniche cose ancora limpide del mio cervello, hanno realizzato questa inutile testimonianza.
Tuttavia vi è una soluzione a tutto questo, soluzione che l’alcol e l’oppio mi hanno permesso di scorgere sotto il falso mantello del mondo. Niente è così semplice. E’ Desdemona la causa di tutto. Quel giorno non sbagliai il mio verdetto, poiché Lei, Desdemona, era la morte, e lo era realmente. Direte che sto impazzendo...... e forse non sbaglierete di molto. In fondo non si è un po’ pazzi a pretendere a tutti i costi di non esserlo? Quella creatura suprema ha occluso la mia mente, ha occupato ogni mio pensiero, tanto da spingermi a vederla anche quando ella non poteva più esserci. Mi ero convinto che ella fosse innocente, che io avessi distrutto una vita sana: in realtà la sua condanna colpì solo me. E ripensando adesso, alla luce di queste terribili scoperte, a ciò che successe dopo l’impiccagione, in questi ultimi anni, è difficile pensare che fosse tutto reale. Forse è stato tutto un sogno in cui la mia anima, a mia insaputa, cercava la via della redenzione. Non so più niente. Non so più riconoscere se i ricordi che ho, pur limpidi, siano eventi reali o soltanto vecchi sogni. Cathrina era Desdemona? O era la prostituta di una delle bettole che ho frequentato? O magari un nome su un’insegna? Forse solo il frutto di una mia fantasia... Forse tutto questo, questo mondo, è il mondo di uno dei miei sogni d’oppio. Ma Lei...... Lei esisteva davvero. Oh sì che esisteva! Posso ancora vedere nella memoria il Suo stupendo volto appeso alla fune. Non mandai a morte un innocente. Ma sento ancora il Suo sguardo su di me, il Suo respiro. E’ lei l’unica cosa che voglio. La desidero! Desidero rivedere la Sua figura, toccare le Sue forme, i Suoi contorni e, infine, baciare le Sue labbra morbide, come già ho fatto in quel sogno...
Quella notte, con quel bacio, fui maledetto... questo lo comprendo. Quella notte divenni una delle tante vittime della Morte. Ma chiedetevi adesso se non è forse questa la morte più dolce che potreste immaginare...? Lei non mi ha costretto a raggiungerla, poiché quel bacio, quella maledizione, in realtà, sono stati soltanto l’attimo in cui io le ho donato il mio cuore, e se adesso le vado incontro è soltanto perché io lo voglio, perché il mio amore per lei è tale da non poter attendere oltre.

Sono stato condannato ad una morte che io stesso desidero, e questo è per me il trapasso più soave che l’uomo possa volere.
Ti amo Desdemona. E sto venendo da te.

Lascio questo manoscritto come testimonianza della mia follia, o della triste realtà della mia vita, che dir si voglia.
Nessuno ha mai udito questa storia, e mai potrà udirla da me. Nessuno deve avvicinarsi a quel paese maledetto, a quel patibolo, a quel cappio. Per questo non lascio indicazioni del luogo, poiché nessuno, riguardo Desdemona, dovrà mai sapere di più, prima del tempo.
Io sto andando verso la pace, verso colei che mi ha chiamato, perché questo è il mio tempo.
Nel silenzio della morte riposerà la mia persona.

De profundus clamo ad te domine.

Wilhem O. Saleis


“Bloody Horse Tavern - Opium den”
June 1639

© Alessio Poggioni





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