Teresina era nata povera e forse non intelligente.
Il volto solcato da sottilissime rughe che incrociandosi formavano come un reticolo sulla pelle incartapecorita. Ai lobi degli orecchi ormai mollemente allungati pendevano due cerchi anneriti di metallo grigio. Gli occhi trasognati e profondi al tempo stesso roteavano nelle orbite ossute alla perenne ricerca di cicche di sigarette che lei avidamente fumava, cosa strana e orribile a quei tempi. Una lunga veste lisa le copriva il corpo fino alle caviglie lasciando appena intravedere bianche gambe striate di cicatrici e ferite che si procurava camminando nei campi tra le stoppie, sotto i filari di vite, tra le zolle aride e spaccate dal sole o scivolando sul terreno reso viscido dalla piogge autunnali. I capelli le piovevano sul collo tutti uguali, bianca saggina ispida selvatica.
Viveva da sola la poverina in una catapecchia che un contadino un po’ sensibile le permetteva di abitare nello spazio lasciato libero dalle balle di fieno.
Nel tugurio v’era solo una brandina su cui era steso un giaciglio di foglie di pannocchie ricoperto disordinatamente da un telo di lana di tipo militare e una sedia sgangherata. Incollate al muro immagini di santi. In un angolo un grosso orinale che lei svuotava tutte le volte che era pieno fino all’orlo dalla finestrella della sua stanza. Nel trasporto non era abile sicché interi scrosci di orina traboccavano spandendosi a terra negli interstizi del pavimento. I muri erano ormai impregnati di un acre puzzo come di gatti morti che fuoriusciva da tutte le fessure della casa diroccata e si spandeva nell’aria circostante mescolandosi con il profumo di basilico dei vasi poggiati sui davanzali delle finestre che davano sulla via.
E i gatti abitavano la sua casa da padroni. Un esercito di gatti bianchi neri fulvi pezzati, piccoli medi e grandi, agili e snelli, scherzosi e pronti alle fusa o tardi e pesanti, arroganti e irascibili. Ogni momento le bestiole entravano e uscivano dall’uscio sempre aperto facendole spesso stuolo, nonostante lei li cacciasse via con un roco brontolio o una pedata.
Forse per i gatti, forse per quella strana e straordinaria beatitudine che accomuna i fanciulli e gli ingenui, forse per la verità dei sentimenti che solo la fanciullezza possiede in comune con i semplici, i bambini le volevano bene.
“Teresina vieni a giocare con noi? E….
“Teresina mi prendi un gatto?” le dicevano incontrandola nell’angusto viottolo che separava le case da una parte e dall’altra.
Teresina che era di natura scontrosa, dopo averli squadrati da capo a piedi, scoppiava in una risata fragorosa segno forse nel suo strambo linguaggio di liberazione dalle paure che pure le dovevano ingenerare gli sguardi impietosi della gente. Correva innanzi allora a sedersi sul solito muretto dopo aver raccolto, chinandosi come un maschiaccio, bianche pietruzze che lanciava in alto ora con una mano ora con l’altra. Attirava in tal modo il nugolo dei suoi piccoli amici che dividevano con lei gran parte di altri giochi. Così trascorreva buona parte del giorno mentre a sera girovagava in cerca di cicche e di roba da mangiare.
Non era però incline all’elemosina e se chiedeva da mangiare rifiutava il cibo che non le piaceva. Aveva a suo modo e per quanto glielo permettesse la sua condizione una dignità da difendere. Di vino però era abbastanza ghiotta. Ogni bevuta la rendeva particolarmente allegra o profondamente triste.
In quei momenti la si poteva vedere seduta a sera in qualunque angolo di strada col naso all’insù guardare estasiata il cielo stellato. O nelle notti di plenilunio d’estate sdraiarsi tra l’erba con i suoi gatti e fendere l’aria dolce e tranquilla con vocalizzi ora aspri e rochi ora teneri e lamentevoli, cui facevano eco i miagolii dei gatti in calore. Altre volte il capo sulle ginocchia singhiozzava come una bambina strappata all’abbraccio materno o seduta sulla soglia di casa si chiudeva in un cupo mutismo lasciando appena trasparire dallo sguardo torvo un’istintiva intima ribellione.
Forse avrebbe desiderato aver qualcuno a cui poter parlare, ma non sapeva comunicare niente di se stessa se non con quell’insolito primitivo rarefatto linguaggio spoglio di parole e di chiari costrutti sintattici, fatto di sguardi fugaci, di sorrisi smorzati, di gorgoglianti risate e ancora di tremolio delle carni, di freddi sudori, di calde vampate. Anche le sue umidicce strette di mano invocavano amore. Ma la gente non le voleva bene, la considerava uno sporco lurido essere, un’ubriacona e una scema che spaventava rincorrendoli i ragazzini quando al solo vederla passare intonavano canzoni di scherno o motteggiavano
“Teresina non ha le mutandeeee!”
Altre volte, per ripararsi dai sassi che le scagliavano contro, seppure per gioco, era costretta a camminare con le braccia ripiegate sul capo e così la cadenza del passo pesante le faceva oscillare liberamente i penduli seni.
Teresina non aveva nessuno ma fingeva di avere qualcuno da ricordare quando il due di novembre anche lei si recava al cimitero mescolandosi ora in quel gruppo che sostava compunto dinanzi a una tomba, ora inginocchiandosi da sola dinanzi a un’effigie. Una volta la sorpresero che sottraeva fiori a dei fasci deposti davanti a una lapide e ne adornava poi un piccolo cumulo di terra ammassata con le sue stesse mani sotto il muro di cinta. In cima un santino.
A suo modo nutriva pietà, quella pietà che inutilmente attendeva dagli altri, dalla gente normale che raramente si spingeva a donare qualcosa in più dei semplici avanzi di cibo, incapace forse di donare briciole d’amore. Forse perché si crede che un fatale destino renda i miseri sempre più miseri e i fortunati sempre più fortunati in un mondo dove non è concesso che le vite degli uni e degli altri si incontrino mai. O forse perché si è così deboli da non ritenersi capaci di sopportare oltre il proprio bagaglio di pene anche quello degli altri.
Continuava comunque Teresina a fumare le sue cicche e a bere il suo vino. E con gli occhi puntati alle stelle parlava….parlava…, ricordava o compiva voli di fantasia alla ricerca di un mondo dove anche lei potesse entrare, dove vivere significasse ridere e piangere, gioire e soffrire per tutti allo stesso modo. Dove la carezza della mano amica fosse donata a tutti e non ci fossero come riparo ai colpi della sorte scafandri per alcuni, per altri la sola pelle sottile.
Fu così che la trovarono una notte d’agosto, sotto un albero, il capo appoggiato rigidamente al tronco, gli occhi sbarrati e un dolce sorriso che le stirava le labbra. Se le avessero dipinto di belletto le guance e le labbra sarebbe apparsa il più felice dei clown: l’ultimo volo dell’anima aveva completamente disperso i semi di solitudine tante volte repressi nel fondo del cuore.