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Scoprì che lei aveva un nome strano.
Se n’era innamorato in un millesimo di secondo.
Entrando in mensa il suo sguardo, come telecomandato, si era posato su quel tavolo, e da lì non si era più mosso. Per fortuna era sola e, benchè avesse mostrato da subito di non avere alcuna voglia di stare in compagnia, lui riuscì ugualmente a sedersi lì, di fronte a lei. Piacere io sono… E tu come ti chiami ? Un nome dolce, quasi un vezzeggiativo, ma certamente unico, legato a chissà quale misterioso ricordo d’amore dei suoi genitori; o magari… magari frutto solo di un garbato pensiero fantastico, nato per caso, in una notte d’inverno, tra le loro lenzuola.
Non volle approfondire, gli piacque perdersi in quel sapore di non detto che quel nome gli procurava; smarrì ogni strada negli occhi neri e puliti di lei, a loro modo tristi e sognanti.
Cominciò a parlare. Tranquillamente, semplicemente. Non sapeva perchè, ma si sentiva già diverso, perchè l’amore quando nasce cambia le persone. E cambia i luoghi. Non era più la mensa universitaria, quella. No. Era già il mare – di notte – e luci, e lampare, e fili invisibili che scendono dalle stelle e si posano sul filo delle onde, e mani che si arrampicano a cercare un cielo diverso. Non poteva fare a meno di guardarla, non poteva. Sul palmo della sua mano le avrebbe lasciato pesare un sorriso, le avrebbe lasciato contare a piccole gocce i giorni che forse avevano davanti; forse le avrebbe insegnato a suonare piano, ogni sera, fili d’erba rubati al tappeto di un prato. Parlò dei suoi studi di ingegnneria-nonsocosa, alambiccò dei suoi gusti e millantò dei suoi sogni; inventò strade di quella città che non esistevano, ma garantì che lui, più di una volta, ci era passato. Lei… Lei, stava ancora un po’ sul chi vive, anche se ora la compagnia non le sembrava più così spiacevole.
Erano entrambi a un bivio. A quell’età basta una parola, una distrazione e non ci si rivede mai più.
Anche lei cominciò a raccontarsi, ovattando le parole in un raggio di neon, lentamente, che non si perdessero.
Forse ne valeva la pena. Forse.
Lui le stava porgendo uno di quei fili invisibili sul pelo dell’acqua, perchè lei potesse aggrapparsi a una stella e tenerla poi lì, in una mano, come fosse un palloncino nel cielo.
Dopo, di queste cose si ride. Nei casi più tristi si piange. Perchè l’amore nasce nel miracolo di giovani sguardi, ma non sempre sopravvive agli anni e ai ricordi. A volte si trascina in giorni sempre uguali, o si abbandona alla corrente della noia. O finisce comunque, semplicemente, per l’ovvio motivo che qualsiasi cosa a questo mondo ha un inizio e una fine. Lui, d’improvviso, prese la sua arancia dal vassoio e gliela porse, come se le stesse offrendo chissà che.
- La vuoi ? – le chiese.
Lei lo squadrò divertita e indicò col dito il proprio vassoio. - Ce l’ho anch’io un’arancia, vedi ?
Lui guardò il frutto che teneva ancora nella sua mano e rispose con voce diversa, più seria:
- Sì, però io… Io te la sbuccio.
Poi sorrise.
E senza aspettare risposta iniziò a incidere quella sua promessa. A spicchi regolari. Con la punta del coltello.
©
Thomas Pistoia
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