Pioveva e quella volta decisi che non era male uscire presto per andare a lavorare. Non avevo alcuna intenzione di farmi la barba, perché in quelle giornate umide, la mia pelle si fa più sensibile.
Avevo quindi il tempo di fare due passi e godere del tintinnare delle gocce sul mio ombrello. Mi sarei riempito le narici e i polmoni di odore di terra bagnata e fangosa e così avrei riavuto una piccola porzione di infanzia persa nel traffico e nel caos cittadino.
Dalla cucina si diffondeva per la casa, l'aroma di strudel alle mele, sapevo che non era per me che Miriam si era alzata così presto, ma per la nostra bambina che oggi aveva il compito di latino. Dalla porta semichiusa osservai mia moglie e pensai che era invecchiata molto in quell'ultimo anno. Non la riconoscevo più, i suoi occhi sembravano piccole pietre verdi in fondo a vulcani violacei, le sue occhiaie erano più che evidenti. E dove si era nascosto quel dolce sorriso? Abbassai lo sguardo ed ebbi una sensazione di nausea nell'acquisire quella consapevolezza ogni volta come se mi svegliassi da un sogno. L'incubo era insito nella realtà quotidiana ed il suo sorriso era dentro quella piccola bara bianca in cui abbiamo riposto il nostro piccolo Daniel, insieme ai nostri cuori. Entrai e la baciai sulla guancia e lei si scostò inclinando la testa come a rifiutare le mie attenzioni.
Mi guardai intorno e vidi che Karina non era ancora scesa a mangiare. Probabilmente si truccava. Aveva iniziato a spendere i risparmi per comprare ombretti e rossetti. La prima volta che l'ho vista col rossetto, ho avuto come la sensazione che mi mancasse l'aria. Ero confuso, la mia bambina sembrava una ragazza, una di quelle che i maschietti se la sognano la notte. Ho sentito che l'avrei persa, prima o poi. Credo sia normale, per un padre. Ha gli occhi della madre quando era felice. I capelli invece, non so bene da chi li abbia ereditati, forse un bisnonno. Decisi di salire e di bussare alla porta della sua camera. Non sentii alcuna risposta e allora aprii lentamente la porta, giusto per darle il tempo di urlarmi di chiudere perché magari si stava vestendo. Non udivo altro che un suono familiare che però al momento non riuscii a individuare e catalogare nella mia mente. Entrai nella camera e vidi mia figlia a terra completamente nuda, l'asciugamano ancora umido giaceva accanto a lei. Piangeva terrorizzata e mentre mi avvicinavo allungava la mano come per dirmi di non toccarla. Sul pavimento il phon ancora acceso rimbombava nella mia testa e sembrava assordante. Non avevo ancora la consapevolezza di quello che stava accadendo. I miei riflessi languivano, solo il mio cuore sembrava essersi accorto del pericolo perché lo sentivo battere come a voler uscire dal mio petto. Infine una vocina flebile fuoriuscì dalla mia bocca "Qualcuno chiami un'ambulanza", qualcuno chi? Che stupido pensai e d'improvviso mi risvegliai dal torpore e chiamai Miriam e poi mi decisi finalmente a digitare il 118 sul cellulare di Karina, il primo che trovai lì a due passi da lei. Non potevo lasciarla lì anche se lei mi respingeva come se le volessi fare del male. Io che voglio solo proteggerla... Quando l'ambulanza arrivò Karina era già svenuta. Miriam urlava con una voce stridula e diceva cose che non riuscivo a comprendere. Forse le solite cose che si dicono quando hai paura di perdere la cosa più importante della tua vita. Una dei soccorsi aveva detto "...shock anafilattico", non riuscivo a smettere di pensarci, seduto nell'enorme corridoio dell'ospedale, in attesa di notizie sullo stato della mia bambina. Come poteva essere uno shock anafilattico, lei piangeva, aveva paura... paura di me... io che la voglio solo proteggere.
Miriam non aveva detto una parola, seduta sulla panca di fronte a me, rigirava tra le mani il rosario che gli aveva regalato una sua amica Suor Lucia. Io la osservavo e pensavo che in quel momento era così fragile che era un bene in fondo che a pensare a lei ci fosse Dio. Io ero troppo distratto e egoisticamente pensavo alla mia vita, a come non avrei potuto continuare la mia esistenza senza Karina. Perso nei pensieri più assurdi non mi ero reso conto che il dottore si era avvicinato e parlava già con mia moglie. " ... apparentemente sembra una normale anemia, le ho prescritto una terapia appropriata da seguire nei prossimi mesi... ha avuto un attacco di panico probabilmente una cosa passeggera... gli esami, lo stress". Il dottor Alois ci fece promettere di tenerlo informato sullo stato della paziente. Io mi riportai a casa Karina, intenzionato a fare in modo che la sua vita fosse la meno stressante che una ragazza di sedici anni possa sopportare. Mi prodigai perché si nutrisse a dovere, che non avesse carenze di ferro e che riposasse il più possibile. Così sarebbe cambiato tutto, ma mi sbagliavo. Le cose nei mesi peggiorarono, lei non voleva più uscire e raramente la vedevo vestirsi carina per uscire la notte in qualche discoteca. Io e Miriam non riuscivamo a chiudere occhio e meditavamo un qualche modo di contenere quella situazione che diventava giorno dopo giorno inverosimile. Poi lei rientrava alle quattro di notte e per il resto della giornata dormiva. Un giorno mi decisi e la obbligai ad alzarsi per pranzare. Non fece molta resistenza, ma mi supplicò di non sollevare le tapparelle, perché le si irritavano gli occhi. Scese le scale a fatica, come se non avesse molta forza e con le mani faceva uno scudo per non vedere la sua immagine che si rifletteva nei quadri e negli specchi. Sembrava così insicura. Era pallida, le sue labbra avevano assunto un colore violaceo e le si erano formate bollicine rosse in varie parti del corpo che aveva protetto con garze sterili perché così aveva consigliato il dottore e perché così le facevano meno dolore, diceva. Quando infine riuscimmo a sederci a tavola, Miriam non riusciva a smettere di guardarla e di piangere. "Cosa ti sta succedendo, non sembri più mia figlia" ripeteva insistente. Mi sentii imbarazzato, pensavo che per una volta avrebbe potuto mettere da parte il suo dolore, la sua apprensione, il suo egoismo di madre distrutta. Invece continuava con il suo blaterare, la provocava con la sua angoscia che diventava contagiosa. Avevo preparato uno dei suoi piatti preferiti, spezzatino con crauti e patate aromatizzato con aglio su cui infine avevo versato il Kümmel. Speravo si sentisse protetta, che ci raccontasse cosa la faceva stare male. Mi ero convinto fosse uno di quei periodi neri che passano tutti gli adolescenti. Tutto sommato Karina non aveva avuto una vita facile. Non era passato molto tempo dalla morte del fratellino più piccolo. La sua quotidianità era stata stravolta da quell'evento. La madre non faceva altro che pregare e se poteva rimaneva in chiesa a pulire e ad aiutare quanto più poteva. A tavola non si parlava altro che di Dio e le beatitudini, non era dato spazio alle chiacchiere. I problemi di una ragazzina erano secondari rispetto all'imminente fine del mondo. In effetti io non sapevo nulla di mia figlia. Conoscevo i dieci comandamenti ma non il nome di un qualche amico di Karina o il titolo di un libro che le piacesse. Non sapevo neanche che musica ascoltasse o quali sogni riempivano la sua testolina rossa. Le versai lo spezzatino nel piatto e lo cosparsi con il brodo che abbondava nel fondo della pentola. Miriam intanto aveva smesso di piangere e io le porsi il piatto con la sua porzione. Mi accingevo a riempire anche il mio, quando Karina iniziò ad imprecare e a vomitare sul suo piatto, sul tavolo e sul pavimento. Una scena impressionante. Miriam si alzò di scatto e ripulì il rosario che poco prima aveva posato sul tavolo per prendere il piatto. Mi avvicinai a Karina che si era inclinata e si teneva forte il petto o la pancia, come se avesse conati di dolore. Il viso si era fatto ancora più pallido e la sua espressione quando alzò lo sguardo e mi guardò, era di disgusto e di rimprovero. Mi guardava come se la volessi uccidere... io che la voglio proteggere. Questa volta non esitai e chiamai il dottor Alois che mi aveva richiamato di recente perché un suo amico gli aveva parlato di una rara malattia che sembrava avere sintomi simili a quelli di mia figlia. Io ancora non credevo si trattasse di una malattia, perché forse il dottore era in gamba, ma era giovane e mi sembrava esagerasse. La sua poteva essere una reazione normale dopo giorni che non mangiava e con una madre che le faceva aumentare l'ansia di minuto in minuto. Lo chiamai giusto per scrupolo, ma dentro di me sapevo che sarebbe stata bene se soltanto avesse avuto la possibilità di allontanarsi dalla madre. Miriam tra lacrime e sospiri parlava al cellulare con qualcuno ed ero quasi sicuro si trattasse della suora. Intanto io cercavo di convincere mia figlia a cambiarsi di abito e darsi una lavata, ma lei mi allontanava e farneticava qualcosa. Il dottore arrivò e la visitò. Disse che avrebbe dovuto raccogliere dei campioni di urine da tenere al riparo dalla luce. Karina non era per niente infastidita della sua presenza, anzi quando lui le scostava la camicia da notte e la toccava per capire dove sentisse dolore, mi era parso che lei se ne compiacesse. Questo fatto mi confondeva e mi irritava, forse perché ero puramente geloso del fatto che Karina si fidasse più di lui che di me. Miriam si avvicinò al dottore forse per dirgli qualcosa, ma poi si rivolse alla figlia e disse la cosa più assurda che potessi sentire " Figlia mia, ti libererò da questo mostro" e mise il suo rosario sulla fronte della ragazza. Non sapevo se essere più infuriato per quello che aveva fatto quella donna che ormai non riconoscevo più o sbalordito per la reazione di mia figlia. Iniziò ad urlare e maledire la madre, la sua muscolatura si era contratta, le gambe allungate e tese, le usciva schiuma dalla bocca. Il dottore invece non si fece prendere alla sprovvista e subito le fece una puntura di qualcosa. Miriam si era rannicchiata a terra in un angolo del soggiorno, piangeva e pregava. Lentamente il corpo di Karina riprese la sua mollezza e lei sembrava più rilassata. Il dottor Alois mi prese per un braccio e mi portò nella stanza adiacente. Mi parlò di una malattia di cui si sapeva poco, rara, ma che si poteva contenere. Voleva assolutamente ricoverarla oppure le sue condizioni sarebbero peggiorate e il suo fisico ne avrebbe pagato le conseguenze. Io pensavo soltanto che mia moglie era una pazza ed ero ancora più convinto che fosse lei la causa del malessere della mia bambina. Per colpa sua rischiavo di perderla e quel dottorino pensava soltanto di farne la sua cavia e di portarmela via. Tuttavia acconsentii perché lui la portasse con sé in ospedale, se non altro l'avrei tenuta lontana da quella bestia e il suo culto irrazionale. La notte non volli dormire vicino a Miriam e rimasi seduto sulla poltrona a rimuginare sul da farsi. Karina doveva cambiare aria, dovevo portarla via da quella mediocrità. Un po' di serenità e dell'aria fresca l'avrebbero fatta rinsavire. Decisi che dovevo farlo quella notte stessa. Era stato facile entrare in ospedale, la guardia si era appisolata e le infermiere mi passavano affianco indifferenti. Sapevo di fare un'azione apparentemente scorretta, forse c'era anche dell'illegale, ma la vita di mia figlia valeva il rischio. Entrai nella sua stanza ma la luce era spenta. Sentivo un odore non proprio gradevole, tra l'asettico e il ferroso. Accesi la luce e quello che vidi, vi giuro, non lo avrei più dimenticato. Il dottor Alois disteso supino sul pavimento mi guardava con occhi spalancati e vuoti. Sembrava morto. Su di lui a cavalcioni c'era Karina.
Lei volse lo sguardo su di me e mi sorrise. La sua bocca era sporca di sangue ma le sue guance erano rosse. Dopo tanto tempo la mia bambina aveva riacquistato il suo colorito sano.
Le sorrisi e la coprii con il mio cappotto. La portai via, lontano da Miriam, lontano da tutti perché potesse ricominciare una vita senza pregiudizi. La salvai perché mi era rimasta solo lei...
Tra me e lei c'è un forte legame di sangue e io dovevo solo proteggerla.