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Lo aveva capito subito, prima di raggiungere a tastoni il bagno, prima sfregarsi gli occhi gonfi di sonno e perfino prima di infilarsi le pantofole di pezza: quello sarebbe stato un giorno speciale. Sono cose che uno sente dentro, si sa, e la logica non c’entra proprio nulla. E, del resto, era davvero una bella giornata di fine Inverno ed il sole, attraversando di prepotenza lo smog della città, arrivava quasi a scaldare il nero dell'asfalto e dei vicoli ingombri di rifiuti. Sorrise perfino quando, guardando verso l’alto, scorse al settimo piano la finestrella angusta del suo ufficio e sorrise, ancora, in risposta al gesto consueto del portiere appostato oltre la porta girevole.
Sorprendentemente, non lo riportarono al consueto cattivo umore né l’odore di muffa che stagnava lungo le scale né la vista della sua scrivania. Volutamente, ignorò la montagna di carte in attesa sul tavolo. Assaporò quel che restava dell’aroma del caffè e si chiese se la brioche avesse lasciato qualche traccia di zucchero a velo sulla sua barba. Il nodo della cravatta, quello era storto, come sempre, e troppo stretto anche, ma il resto...era praticamente perfetto.
Il telefono squillò, senza preavviso, e questo turbò un poco la gloria del momento. Quella piccola luce rossa, in genere, significava guai. Aveva quasi deciso di ignorarla quando un grugnito, probabilmente di saluto, ed un filo di fumo, tradirono la presenza della creatura nascosta dietro al monitor. Sporgendosi lievemente, mentre sistemava la giacca sulla sedia, riuscì a scorgere la barba lunga e gli occhiali da sole del suo compagno d’ufficio sprofondato nella poltroncina girevole.
Sospirò in silenzio.
“Multimedia Telematica & Soci, dica pure... Ah, è lei signor direttore. Come dice? Eppure ero sicuro... no, non sto dicendo... ma, vede. Come vuole. Certo, sarò lì fra un minuto”.
La moquette puzzava di polvere e lungo il corridoio si aprivano troppe porte.
Il direttore fu chiaro - non lo era forse sempre? - ed il suo discorso, non ammetteva repliche.
Lo sbaglio era stato fatto, i motivi non avevano importanza. Gli si concedeva di rimediare, non era soddisfatto? Ovviamente lo era.
Tornò alla sua scrivania, meno convinto che fosse davvero un giorno speciale. Il profumo del caffè era sparito del tutto, aveva caldo e si slacciò la cravatta. Appena premuto il pulsante grigio la macchina si mise a ronzare poi il monitor si stabilizzò su di una schermata dai toni sbiaditi. Stava per immergersi nella relazione da riscrivere, quando l'occhio gli cadde sul calendario da tavolo. Venerdì. Si era quasi dimenticato che giorno fosse. Fu sul punto di sorridere, ma si trattenne. Improvvisamente si ricordò di un’altra cosa, la sua mano scivolò fino in fondo alla tasca per controllare che quello che cercava fosse ancora al suo posto. C’era.
Il ronzio monotono delle ventole di raffreddamento ed il ritmato battere dei tasti hanno, come ben sa chiunque finga di lavorare in un ufficio, un potente effetto ipnotico. Chiunque, sbirciando attraverso la porta socchiusa, lo avrebbe visto lavorare rassegnato, chino sulla tastiera, intento a rivedere dati e cifre, scorrendo rapido ora lo schermo, ora un lungo elenco stampato in caratteri sottili su carta gialla e fragile. Correggeva, modificava, verificava ed impaginava quasi meccanicamente. Ma lui, quello vero, non era lì. Né potevano trattenerlo quelle grigie mura o la nebbia rugiadosa che ora stagnava là sotto, sette piani più in basso. Carezzava, con la mente, visto che le mani ritmavano lo scorrere del tempo sui tasti, il pezzetto di carta che riposava sul fondo della sua tasca destra. E pensava.
Era la sua giornata fortunata. Non poteva essere altrimenti. Sono cose, queste che uno sente dentro, lo abbiamo già detto. Specialmente quando, a trent’anni suonati, di giornate fortunate se ne sono avute ben poche. Per questo, quella mattina, si era vestito con più attenzione del solito, si era lavato i denti con calma, indugiando con cura su ciascun'arcata, si era contemplato nello specchio quasi con simpatia. Per questo era sceso nella strada buia e sporca con un sorriso da politico, facendosi largo con garbo fra gente scontrosa ed assonnata.
La metropolitana è un posto miserabile, e chi la usa lo sente, o lo sa. É un buon metro di misura della noia, della malinconia, della disperazione. Esserci chiusi dentro è una metafora della vita, nessun'uscita di sicurezza. Ma quella, accidenti, era la sua giornata fortunata!
Il vecchio dei biglietti era sempre stato lì. Si chiese se fosse davvero cieco. Era un pensiero cattivo, certo. Se l’era ripetuto tante volte, però....
“Lotteria istantanea, compri un biglietto, signore!”
“E come funziona?”
“Davvero non lo sa, signore? Eppure lo sanno tutti, signore. É molto popolare...”
Il vecchio guardava da un’altra parte, come se ostentasse la propria cecità . In genere non è quello l’atteggiamento dei ciechi, anzi, ci tengono, i ciechi, che tu capisca che sanno, dal suono della tua voce, dove ti trovi. Che sono ciechi, insomma, non stupidi.
Un biglietto stava nella pila un poco spostato, come se avesse sentito anche lui un gran desiderio di fuggire ma, appesantito com’era dalla massa di quanti lo sovrastavano, non fosse riuscito ad andare oltre quel primo impulso.
Lui, invece, all’impulso aveva ceduto. “Non andrò certo in rovina per poche migliaia di lire!”, si era detto. Non perché pensasse di vincere, ovviamente.
Mentre il convoglio sferragliava nel tunnel buio aveva rivoltato più volte il biglietto tra le mani. Il viaggio, che durava solo pochi minuti, gli era diventato, dopo quasi dieci anni, del tutto insopportabile. A volte osservava la gente, cercava di costruire storie, vite sui loro volti sconosciuti. Ma la gente, sul Metrò alle sette trenta di mattina, è sempre la stessa. Sempre quella. E dopo qualche tempo, scopri che è interessante tanto quanto lo sei tu. Né più né meno. Banale ed inutile.
Rigirò il rettangolo di cartoncino fra le dita.
Si era letto e riletto con grande attenzione le istruzioni. Una patina di vernice argentata nascondeva un rettangolo di nove caselle. Grattando la vernice con una moneta o con un'unghia apparivano simboli differenti in ciascuna casella. Stelline, ciliegie stilizzate ed altre amenità del genere. Due”stellette”e ci si rifaceva del costo del biglietto, tre e si vincevano diecimila lire. -"Hai vinto un boero”Gli vennero in mente i cioccolatini al liquore che suo nonno scioglieva nel cappuccino -. Poi la cosa faceva più interessante, centomila lire, un milione, dieci milioni, cento milioni.
Un miliardo. Ma quant’era un miliardo? Si mise a fare qualche conto. Col suo stipendio, in quattro anni avrebbe ricevuto cento milioni. Quindi... quarant’anni. Quarant’anni di lavoro. Un miliardo...
Di fronte a lui un signore alto, dai capelli brizzolati, si alzò con calma. Indossava una pettorina da lavoro che, un tempo doveva essere stata bianca. C’erano macchie in tutte le possibili tinte pastello e poi altre, di smalto, più accese. Era certamente un imbianchino, uno dei tanti che lavoravano sui palazzi del centro. Quanto avrebbe impiegato un imbianchino ad incassare un miliardo? Molto meno tempo di lui. Ma lui era quasi laureato, forse un giorno si sarebbe iscritto nuovamente ed avrebbe terminato gli studi. E poi indossava giacca e cravatta, lui. Per qualche minuto non si sentì più così euforico. Poi cacciò il biglietto in tasca e si preparò a scendere.
Pausa caffè. La pausa caffè è sacra per gli impiegati. Così come la ricreazione per gli scolari. Le ragazze dell’ufficio spedizioni stavano a chiacchierare, come al solito. Chiara lo guardò di sfuggita. Lui sorseggiò il caffè senza rispondere allo sguardo. Chiara parlava con le amiche e scuoteva la testa, poi tutte risero e se ne andarono. Vedersi tutti i giorni non significa diventare amici, né salutarsi e scambiare qualche frase indicando i titoli di un giornale significa parlarsi. Strinse forte il biglietto e sentì gommosa al tatto l’argentatura che nascondeva i simboli misteriosi. Lo estrasse di tasca e, appoggiatolo alla macchinetta grattò delicatamente un pezzetto dell’argentatura . Due stellette, una dopo l'altra. Almeno non aveva sprecato i suoi soldi. Sorrise, e si alzò in piedi. La mattina dopo sarebbe tornato dal vecchio ad incassare, anzi, no... avrebbe cambiato il biglietto con un altro. Se la sorte gli concedeva un’altra possibilità, perché non tentare? Era davvero una bella giornata, dopotutto. Si appoggiò nuovamente sulla macchinetta del caffè e avvicinò la chiave di casa alla vernice argentata.
“Torniamo al lavoro”gli disse il suo collega stringendo l’occhio. Che cosa voleva dire? In un attimo fu solo e dal corridoio entrò il direttore generale.
“Allora, ha finito quella revisione?”
Aprì la bocca, ma non sapeva cosa dire.
“Vorrei che me la facesse avere entro sera, se possibile.”
Il direttore si allontanò senza degnarlo di un altro sguardo. Ogni tanto scuoteva la testa calva come per uno strano”tic”. Le persone che lo seguivano, fingevano di non accorgersene e cercavano di non guardarlo mai negli occhi umidi ed infossati.
Quando tornò in ufficio il suo collega sorrideva, sempre più sprofondato sotto la scrivania, piegato ad arco sulla poltroncina. Lo salutò con un gesto e tornò a battere pigramente qualcosa sulla tastiera.
La mensa non gli piaceva. Cercava, tutte le volte che gli riusciva di farlo, di andarsene a mangiare un panino in qualche bar poco frequentato. Non sapeva cosa dire a quella gente che restava, dopo cinque anni, comunque sconosciuta. Ma a volte non c’era nulla da fare.”Dai, non fare l’orso, vieni a mettere qualcosa sotto i denti, che aspetti?”
Per quale motivo lo cercassero, non era in grado di dirlo. Ogni volta che apriva bocca gli pareva che un gelo improvviso paralizzasse per un istante la compagnia. Poi la conversazione riprendeva e di quel che lui aveva detto non restava traccia. Così si fingeva distratto, svagato, assecondando il vagabondare dei suoi pensieri, elencando mentalmente e minuziosamente le cose che si proponeva di fare quel pomeriggio. Un paio di scarpe nuove, ad esempio, non sarebbe stata una cattiva idea.
“Cosa cerchi la sotto?”
Era la voce di Chiara e lui fu costretto a guardarla negli occhi.
“Niente, mi guardavo le scarpe”
Lei sorrise debolmente. Forse dovrei dire qualcosa di spiritoso, pensò. Ma che cosa c’è di spiritoso in un paio di scarpe? O in questo posto.
“Avete poi spedito quella partita che....”Cominciò.
Però Chiara non lo ascoltava già più, rideva rumorosamente della storiella che quel tipo alto, quello dell’ufficio commerciale, aveva appena raccontato con gran dovizia di gesti e smorfie.
Tornò in ufficio per primo. La città ora era quasi sepolta dalla nebbia. Però c’era, e la si sentiva agitarsi e soffrire fra lo stridere di freni e gomme e l’urlare disperato di clacson e antifurto. Innegabilmente, c’era.
Grattò ancora un poco di vernice. Un’altra stella fece capolino, ancheggiando.
Tre stelle, diecimila lire. Aveva ragione! Quella era la sua giornata fortunata. E se ne aveva trovate tre... Poi si mise a ridere. Che sciocco che sono, pensò, a credere che la mia vita possa cambiare così. Mi sono pagato la colazione per quattro mattine, posso già dirmi fortunato e tornare al lavoro.
Così pensò, ma senza crederci davvero, e per non rovinare tutto rimise il biglietto in tasca e riprese a scrivere.
A pensarci quando, faticosamente, ci si costringe a scendere dal letto e ci si trascina verso il bagno, sembra davvero impossibile, eppure, ogni giorno, inevitabilmente, viene anche il momento di tornare a casa.
Erano le sei. L’orologio alla parete non mentiva mai. Attese i soliti cinque minuti. Era sempre una sfida la sera del Venerdì. Tutti in attesa, per vedere chi avrebbe mollato per primo. Lui, però non partecipava più, si alzò, chiuse la ventiquattrore, spense il monitor e indossò la giacca.
“Ci vediamo. Buona Domenica.”L’altro borbottò una risposta e si finse indaffarato sul suo lavoro.
Se ne andò, passando davanti ad una porta udì la risata cristallina di Chiara, esitò un momento, poi tirò avanti. Si sentiva svuotato. Stanco non era la parola esatta. Stanco lo era stato altre volte, al termine di una corsa, o di una partita di calcio. Molto tempo prima. Le spalle, diventate troppo pesanti pendevano in avanti. Se ne accorse passando davanti ad una vetrata e si raddrizzò con uno sforzo. Pochi metri più in là, di fronte alla successiva constatò che non era servito a nulla, così rinunciò.
Casa dolce casa, pensò aprendo la porta del bilocale in affitto.
Poi inciampò in una pila di libri e fumetti che stava in equilibrio precario sul pavimento della sala, e si accorse di avere lasciato, per l'ennesima volta, il televisore acceso.
Aprì il frigorifero, desolatamente vuoto, poi lo richiuse. Lo aprì di nuovo, come se si aspettasse un qualche cambiamento, ma fu deluso.
La montagna di panni sporchi ammucchiata ai piedi del letto invocava vendetta, ma decise di ignorarla e si fece largo fino all'armadio. Sul fondo trovò la lattina di coca-cola che stava cercando. Era calda, ma poteva andare. Si tolse le scarpe e si gettò sul divano mentre la bibita sibilava minacciosamente nel bicchiere.
La giacca era sull'altra sedia. Raggiungerla avrebbe potuto essere faticoso. Restò a lungo a pensare, il silenzio era interrotto solo dalla coca-cola che ancora borbottava qualcosa di poco chiaro dal fondo del bicchiere. Alla fine si decise e, coraggiosamente, si sedette sul divano ed appoggiò i piedi sul pavimento.
Il biglietto, ovviamente, era sempre là, ed era ora di farla finita.
Prese una moneta da cento lire, di quelle vecchie che, almeno, si riusciva a tenerle tra le dita ed a giocare a testa o croce e, coraggiosamente, iniziò a grattare.
Il telefonò suono. Distruggendo, decisamente, la tensione del momento.
"Pronto? Ah, Paolo, sei tu... come va?"
Rumori indistinti dall'altra parte del filo, e della città.
"Uscire, stasera? E per andare dove... Un nuovo pub Irlandese, oh, sai che novità... No. Non sto facendo lo spiritoso, é solo che non sono dell'umore adatto stasera. Lo so che é Venerdì, ma ho parecchie cose da fare...Una donna? Ovviamente, c'é un altro buon motivo per starsene rintanati in casa al Venerdì sera? Esatto, una donna... oppure una partita di calcio."
Mentì, sapendo di mentire spudoratamente. Ma anche l'altro lo sapeva, quindi non c'era niente di male, anche perché erano amici da sempre.
"Un'altra volta, ok? Promesso. Ciao. Sì... Ciao.”
Rimase per un po' a fissare la cornetta. Poi sospirò e riagganciò. Ultimamente, andarsene in giro nel cuore della notte a ripetere e risentire sempre le stesse idiozie aveva perso molto del suo fascino. Stava diventando vecchio, é vero. Ma che male c'era?
Gli venne il dubbio di essere stato troppo scortese con l’amico, ma si conoscevano da troppo per badare a questi dettagli, gli avrebbe pagato una birra al solito bar la sera successiva. Nella penombra il divano sembrava meno sbrindellato, e poi era comodo ed aveva un odore famigliare.
Un colpo secco. La vernice argentata si arricciò sul bordo tagliente della moneta.
Quarta stella. Centomila lire!
Quasi saltò in piedi sul divano.
Un miliardo... parola magica che gli risuonava nelle orecchie.
Andare al lavoro, entrare sorridendo nell'ufficio del direttore, sedersi a gambe larghe sulla poltrona dei clienti importanti e fissare il suo viso allibito.
“La sua cravatta é decisamente fuori moda.”gli avrebbe detto”Come tutto il resto in lei... ma d'altra parte sono problemi suoi. Volevo solo dirle che quella relazione, beh, non l'ho finita. Né ho intenzione di farlo. Perché mi licenzio. Oh, niente di personale, é solo che... c'é un mondo intero là fuori da vedere, e l'ho fatto aspettare già troppo. Le lascio il mio indirizzo e-mail , in caso un giorno o l'altro volesse raggiungermi nel Sud Pacifico... non posso garantire che si troverebbe a suo agio, ma non si sa mai.”
"Oh, un'ultima cosa...”Avrebbe aggiunto prima di uscire, con già un piede fuori della porta e la mano sulla maniglia”... dovrebbe farsi visitare da un dottore per quel tic... non é molto piacevole, per chi le sta attorno intendo."
Poi avrebbe preso Chiara per la vita, stampandole sulle labbra un bacio da film sotto l'occhio allibito dei colleghi ed avrebbe regalato una cassa di sigarette al suo compagno di stanza, che si affogasse... ma da solo! Sarebbe uscito dalla porta con un teatrale inchino finale ed avrebbe infilato la porta, sempre, ostentatamente, sorridendo.
La quinta posizione era vuota.
La delusione dilagò dal fondo dello stomaco, su fino alla gola e giù lungo le braccia, ma si fece forza e continuò. C’erano altre quattro possibilità, giusto?
Altra stella.
No, aspetta... non é una stella, sembra più un otto, una ciliegia o qualche altra diavoleria...
La vernice argentata non voleva saperne di staccarsi, comincio’ a grattare con l’unghia del pollice, ma la mano gli tremava.
Si! É una stella. Che fa... un milione. Oppure no?
Maledetta luce. Avrebbe dovuto cambiare la lampadina della sala.
Il cuore gli batteva all'impazzata nello stomaco. Pensò ad una crisi di cuore. Sopra i trenta può capitare, lo aveva letto su Internet. Tentò di respirare profondamente. Poi si calmò.
Uscì sul balcone, stringendo il biglietto tra le mani sudate. Da lassù su potevano vedere le luci dell’aeroporto, oltre lo squallore della città e le ombre nere dei condomini di periferia. Un aeroplano sembrava sospeso nel cielo, più in alto della notte e delle macchine e dei loro fari e dei barboni addormentati e degli amanti clandestini.
Ma, soprattutto, là, sul balcone, il lampione della strada gli avrebbe fornito abbastanza luce per chiarirsi le idee.
Appoggiò il biglietto sulla ringhiera di metallo, tenendolo schiacciato con due dita, ed iniziò a raschiare la vernice con l'unghia dell'altra mano. Non fu una scelta felice perché, chissà come, il pezzetto di cartone cerato gli scivolò tra le dita e cadde giù avvitandosi dell'oscurità.
Sul momento, rimase come paralizzato poi si mise a pensare, freneticamente, febbrilmente. Stava per precipitarsi giù, lungo le scale, quando lo vide.
La vernicetta argentata luccicava riflettendo la luce gialla del lampione ed il biglietto ondeggiava mosso dalla brezza della sera, con un angolo strettamente incastrato in una giunta della grondaia, appena un metro sotto i suoi piedi.
Si inginocchiò e provò ad infilare un braccio tra le sbarre della ringhiera, ma non ci arrivava. Se avesse provato con un legno, o con qualcosa di simile, lo avrebbe certamente fatto cadere. C'erano cinque piani lì sotto, cortili, tetti e vicoli e con quel vento che si era alzato, nel buio, non ci sarebbe stata alcuna speranza di ritrovarlo.
Doveva trovare una soluzione, con calma e lucidità.
Ma non lo fece, si limitò a scavalcare d’impulso la ringhiera ed a sporgersi nel vuoto. Puntò i piedi contro il bordo della terrazza, infilò un braccio tra le sbarre per reggersi e si accucciò sulle ginocchia allungando l'atro braccio nel vuoto. Era davvero buio là sotto ma, chissà perche, il buio non rendeva meno spaventosa l'idea di cadere. Ma ancora non bastava. Allora iniziò ad avanzare lentamente, sempre tenendo un braccio infilato nella ringhiera, sempre puntando i piedi contro la terrazza.
Ancora pochi centimetri. Gli scivolò un piede, ma il braccio lo resse. Strinse gli occhi e cercò di controllare il respiro, era quasi fatta, una storia da raccontare agli amici, che gli avrebbero detto che era pazzo con un sorriso di ammirazione...
Preso!
Il piede gli scivolò ancora ma questa volta la mano che reggeva il biglietto non poteva aggrapparsi a nulla e l'altro braccio non aveva abbastanza forza per reggerlo.
Cadde nel vuoto, e pensò alla faccia che avrebbero fatto i vicini quando, al mattino, lo avrebbero trovato spiaccicato nel cortile. Con un poco di fortuna avrebbe, magari, sfondato la Mercedes dell'Avvocato Contini, quello che parcheggiava sempre in doppia fila.
Si sbagliava.
Cadde invece, nella tenda da sole dell'inquilino del piano di sotto. La tenda, sospesa a due bracci metallici troppo fragili, gli si arrotolò attorno avvolgendolo in un abbraccio provvidenziale e lo depositò fra i vasi di fiori e quelli per la conserva di pomodoro che stavano allineati sul terrazzino. Sfasciò gli uni e gli altri spargendo cocci tutt’intorno, poi la tenda si staccò dal muro con uno schianto secco.
Immediatamente si accese una luce nell'appartamento e lui poté vedere, per un momento, un rettangolo di carta che, lentamente, cadeva in basso, sempre più in basso, fino a sparire nel buio. Chiuse gli occhi.
"Oddio! Ma che ha fatto? É ferito? Ma com'é successo?!”era la voce di una donna anziana, dal marcato accento del Sud.
"No, no, sto bene. É stato un incidente, sono scivolato. Mi spiace per la tenda, ve la ripagherò”gli girava la testa, e le gambe gli tremavano ma stava bene davvero. E non riusciva a pensare ad altro.
"Lo credo bene che la ripagherà!”Era la voce forzatamente burbera di un uomo sulla cinquantina, in canottiera, che si era affacciato alla finestra e che si sforzava di non mostrarsi stupito.
"Ma che dici Alfio? Non ci pensi neanche alla tenda! Piuttosto chiamiamo un’ambulanza!"
Altra voce di donna, altro accento del Sud.
"Ma chi é?”
"Il ragazzo del piano di sopra!”
"Quello che vive solo?”
"Ha cercato di suicidarsi!”
"Gesummaria! Ma guardalo! É giovane, é bello ed ha un lavoro che se ce l'avesse Angelino mio... Ma cosa vogliono questi giovani d'oggi?”
“Maria, Maria! Porta un bicchiere di cordiale per il signore. E spicciati!”
Una ragazza sui venticinque anni gli allungò un bicchierino di acquavite con un sorriso timido. La guardò per un istante nei grandi occhi scuri, era così graziosa con il maglioncino a collo alto ed i capelli neri legati dietro la testa, che non poté evitare di rispondere al sorriso.
Altre luci, altre voci. Vicini affacciati alla finestra.
“No, no!”cercò di schermirsi”non c'é bisogno, ve l'assicuro!”
“Si sieda, sieda.”
“No! Lasciatelo sdraiato, che non si sa mai, l'ho visto alla televisione, potrebbe avere un trauma” Alfio, in canottiera e pantaloni corti, scandì questa parola lentamente, godendosi la pausa di ammirazione che ne seguì.
Il barbone cercò di levarsi qualcosa che gli era rimasto incastrato tra i denti, insistendo con l’indice e riprovando con il medio. La barba sfregò contro i guanti sdrulciti. Era intirizzito, nonostante il cappotto, perchè era una sera davvero molto fredda anche per quella stagione. Per un momento credette perfino che nevicasse, qualcosa, infatti, scendeva dal cielo ondeggiando dolcemente davanti al lampione. Allungò la mano ed il biglietto gli cadde proprio fra indice e medio. Nel palazzo, sopra di lui, le luci si stavano accendendo ad una ad una, ma la cosa non lo interessava per nulla, si sedette su di una panchina e con l’unghia nera del pollice grattò i residui della vernice argentata. Ormai da vicino ci vedeva poco, allontanò il biglietto dagli occhi per quanto glielo poteva consentire il braccio indolenzito ed un sorriso si dipinse sul suo volto rugoso, poi si alzò e si diresse verso il supermarket all'angolo.
“Alzati, forza”avrebbe detto il poliziotto del quartiere qualche ora dopo, puntando la torcia sul mucchio di giornali e stracci, ma l’uomo che stava lì sotto, se un uomo c’era, non si mosse. Il poliziotto allora lo toccò leggermente con la punta del manganello.”Ehi”gridò all’indirizzo del suo collega seduto in auto”Questo non si muove...”
“Sarà ubriaco”disse l’altro, indicando la pila di lattine di birra vuote ammucchiate sotto la panchina.
“Non so, è molto freddo stanotte, non vorrei che....”
L'ambulanza arrivò a sirene spiegate e se ne ripartì mesta.
Una vecchia, che stava portando a spasso il cane, commentò ad alta voce, rivolta alla luna, che c'era qualcosa di strano nell'aria. Però il barbone, che si chiamava Giacomo, non era morto. Anche se quella notte gli era costata una polmonite che lo avrebbe costretto per qualche mese tra le mura di un ospedale.
L'agente che lo aveva trovato lo aveva preso in simpatia ed andava spesso a visitarlo in ospedale. Un giorno, per curiosità, gli chiese dove avesse trovato il denaro per comprarsi un'intera cassa di birra, Giacomo gli raccontò una storia un po’ confusa a proposito di un biglietto della lotteria piovuto dal cielo. Un droghiere, che teneva aperto fuori orario, aveva accettato di cambiarglielo con ventiquattro lattine ed un paio di sfilatini. Era stato gentile, disse, ma non ricordava bene dove fosse la bottega.
Il poliziotto fece un giro per il quartiere, ma c'erano almeno sei botteghe di generi alimentari nella zona, e poi, in fin dei conti, non era stato commesso nessun reato e non valeva la pena di perdere altro tempo. Quando Giacomo uscì dall'ospedale era ormai diventato il beniamino di tutti. Erano tre mesi che non beveva e si sentiva davvero bene, il suo amico poliziotto gli aveva trovato una specie di lavoro alla mensa dei poveri. Distribuiva pasti caldi e buoni consigli ad altri come lui, aveva un letto, due scodelle di zuppa calda al giorno e qualche spicciolo in tasca. Non sarebbe mai più tornato a dormire per strada.
Si incontrarono solo una volta, in un giorno d'Estate. Giacomo passeggiava per il parco, distrattamente, e finì con l'inciampare contro i piedi di un uomo seduto sull'erba. Cadde lungo disteso nel prato, ma senza farsi male. L'uomo lo aiutò a rialzarsi. Aveva circa trent'anni, era ben rasato ed aveva un aspetto curato, un sorriso simpatico e l'aria allegra.
“Tutto bene chiese?”
Giacomo annuì con un sorriso, l'altro rispose al sorriso e per un instante rimasero a fissarsi, come se si conoscessero. Ma ovviamente non era così. Poi ognuno riprese per la sua strada.
Era davvero una splendida giornata, mentre Giacomo si allontanava il ragazzo tornò a sedersi sull'erba e passò un braccio attorno alla vita della ragazza che gli stava vicino. Anche Maria sorrise e lui ricordò la prima volta che l'aveva vista, mentre cercava di liberarsi dai resti della tenda che gli aveva salvato la vita quando era caduto dal balcone, precipitando sulla terrazza di lei. La caduta più fortunata della sua vita, si disse.
“Dovremmo andare da qualche parte a festeggiare la tua promozione.”Suggerì lei.
Era una buona idea, pensò. Sarebbero andati al lago, a mangiare una pizza e poi avrebbero passeggiato sul molo con un gelato. Mano nella mano.
Nello stesso momento, dall'altra parte del mondo, una donnetta sciupata, sui quarant'anni, piangeva tra le braccia del suo amante, mentre all'orizzonte si profilava la costa dell'Argentina. Piangeva perché era felice. Ed anche perché, finalmente era finita e nessuno li aveva fermati. Fra le mani stringevano una valigia piena di dollari, che avrebbe dovuto essere il loro passaporto per una nuova vita.
Non lo sapevano, ma nessuno avrebbe mai scoperto il cadavere del marito di lei, nascosto sotto il pavimento della piccola drogheria. Nessuno, quasi, avrebbe notato la serranda chiusa.
Così come ancora non sapevano che non sarebbero mai stati felici, ma questa é, davvero, un'altra storia.
©
Marco R. Capelli
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Marco R. Capelli pubblicati
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Libri di pubblicati nella collana I libri di PB
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Prefazione / Indice / Scheda
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Altre informazioni / L'autore
In questo libro, troverete molte finestre aperte su stagioni e paesaggi diversi di un mondo immaginario eppure, in un certo modo, coerente. Un teatrino di personaggi sperduti, testardi, a volte brutali, mossi dalla consapevolezza di una mancanza, di un vuoto al quale non sanno dare un nome preciso ma che sognano confusamente di colmare. E questa necessità li spinge a viaggiare, a cercare, a rovesciare il tavolo, a cambiare tutte le carte della mano, contro ogni logica, perché o si trova una scala reale o non ha senso giocare. E tanti saluti a chi si contenta di vincere con una doppia coppia.
Siano essi geniali (e molto distratti) ingegneri, brutali e giganteschi barbari imprigionati in un mondo a metà fra Howard e Lord Dunsany, ombre nel deserto, impiegati non del tutto disposti a piegarsi, vecchi e bellicosi contadini toscani o fantasmi, a loro modo piuttosto concreti.
Completano il tutto un paio di divagazioni giovanili, che ho incluso più che altro per nostalgia, come fossero quei pezzi che si trovano a volte nei musei, quelli che nessuno sa davvero cosa fossero o a cosa servissero ma sembra brutto lasciarli in una cassa sul retro. Così li si espone con una avvertenza in caratteri piccoli: ritrovamento non catalogato, uso incerto. Agitare con prudenza.
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