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Nel bel mezzo di un gelido inverno
di Donatella Magnani
Pubblicato su SITO


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La neve fioccava silenziosa, imbiancando i tetti di Amsterdam. Alice non riusciva a chiudere gli occhi. Stesa sul letto, sepolta dal morbido piumone, guardava fisso davanti a se. Il vento gelido di gennaio bussava arcigno alla finestra dell’abbaino, intrufolandosi tra gli spifferi e facendo gonfiare le tendine ricamate con i disegni di buffi animali. Elefanti, zebre, struzzi, sembrava quasi che la tigre le danzasse incontro, in una serie d’allegre piroette, solo per strapparle un applauso. Uno, due e tre! Ben tre giri completi su una zampa sola! Contava svelta, mentre l’orologio a pendola batteva le ventuno.
A sette anni è complicata la vita, specialmente in una nuova città. Scuola, compiti, un po’ di televisione e a nanna dopo cena, mentre tutti gli altri, i grandi, iniziano invece a divertirsi.
Riteneva la cosa una vera ingiustizia. Aveva lottato duramente per far valere i propri diritti: perché Filippo, di otto anni più grande, aveva il permesso di attardarsi davanti alla tivù? Perché a lui era concesso pur non essendo ancora ufficialmente entrato nel mondo degli adulti? Nonna Giovanna, quando la bersagliavamo con le nostre domande, non era solita ripetere: -Quando compirete diciott’anni, potrete decidere della vostra vita. Fino ad allora, le regole andranno rispettate-? Si, ma a conti fatti, al moccioso non mancavano ancora tre lunghi anni per tagliare il traguardo?
Dopo l’ennesima rissa finita a calci e pugni, dove Alice ne usciva sempre livida e sconfitta, aveva finalmente imparato a non stuzzicare il fratello con simili argomenti. Era successo appena un paio di giorni prima. Se si toccava in quel punto, proprio sotto la frangetta, il bernoccolo sulla fronte bruciava ancor più dell’umiliazione. Sarebbe diventata grande a tutti i costi. Voleva trovare un modo per accelerare il tempo. Doveva esserci una maniera. Odiava i suoi miseri sette anni. Ma a quanto pareva, tutti le ripetevano che avrebbe dovuto aspettare. Si trattava solo di pazientare qualche anno, il tempo di raggiungere Filippo e poi avrebbe potuto davvero combattere ad armi pari, se proprio voleva. Si, lo voleva. Questo era il suo piano.
Se ci fosse stata la mamma, sarebbe stato tutto diverso. Ci scommetto. Pensava assorta, con le ginocchia rannicchiate al petto per scaldarsi i piedi freddi, malgrado i pesanti calzettoni di lana.
Una mattina di qualche mese fa, a febbraio dello scorso anno, la mamma ci aveva accompagnati a scuola come tutti i giorni prima di andare a lavoro. All’epoca abitavamo a Roma. L’avevamo salutata di fretta. Io con un sonoro bacio sulla guancia, inspirando a fondo il profumo della cipria che mi piaceva tanto. E Filippo con la solita alzata di spalle. Lui si vergognava a salutarla davanti ai compagni di classe: adorava fare il duro.
Anche se al ritorno avremmo potuto prendere il pulmino per tornare a casa, nonostante gli impegni, la mamma veniva comunque a prenderci. Arrivava sempre puntuale, con la sua Mini color canarino e lo stereo acceso tenuto a basso volume. Entravamo in macchina, e la voce calda di Louis Armstrong o Ella Fitzgerald mi faceva venire i brividi sul collo. Mamma diceva che era la magia del jazz, la sola musica che riuscisse ad ispirarla.
Era così diversa dalle altre mamme, anche da quella di Giulia, la mia migliore amica.
Impossibile non vederla in mezzo a quel mare di macchine grigio metallizzato. Tutte uguali, guidate dalle altre signore che si accalcavano al bordo del marciapiede, accalorandosi per caricare i propri figli e tornare in tempo utile, prima che Ridge si dichiarasse per la centesima volta a Brook, nella milionesima puntata di Beautiful.
L’aspettavamo anche quel giorno, all’uscita da scuola. Filippo era intento a parlare con gli amici. Mi teneva per mano. Doveva badare a me, visto che dei due, lui era quello responsabile. Se non fosse stato per ordine di papà, non si sarebbe mai sottoposto ad una simile mortificazione. Nonostante il contatto, riusciva lo stesso ad ignorarmi. Questo papà non l’aveva specificato nelle sue disposizioni. Discutevano dell’imminente partita di basket che avrebbero disputato di li a qualche giorno. L’Euroma 1, la squadra dove giocava come pivot, era seconda in classifica a tre punti di svantaggio sulla prima, il Casal Bernocchi. Ci sarebbe stato lo scontro diretto quella domenica. Vincere avrebbe significato agganciare gli avversari e guadagnare un exequo in graduatoria per poi giocarsi lo sprint sul finire di campionato. Roba da far venire i brividi. Almeno, così diceva mio fratello quando voleva impressionarmi.
Attendevo con impazienza. Guardavo di continuo l’angolo da dove sarebbe spuntata. Ma la mamma quel giorno non venne a prenderci. Fummo accompagnati dal preside dell’istituto, la signora Carboni, stranamente dolce e arrendevole, nonostante due settimane prima, con fare perentorio, mi avesse di nuovo richiamata all’ordine. Correva in corridoio! Così aveva scritto sulla nota di biasimo che fui costretta a mostrare a casa. Con quel punto esclamativo a rimarcare la gravità della situazione. A nulla erano servite le mie giustificazioni. Correvo solo perché ero in ritardo, per non perdere l’appello. Era un buon motivo a mio avviso. Ma lei la pensava diversamente. C’era sempre stata ruggine tra noi e quell’episodio non fece che accrescere l’antipatia reciproca.
Montai in macchina piuttosto diffidente quindi. Impettita al posto di guida, mi guardava dallo specchietto retrovisore con quegli occhi miopi, compassionevoli. Non mi convinceva il cambiamento d’umore. Perché mio fratello non se ne accorgeva?
Giunta a casa, capii il perché. Papà, ritto sulla porta con un’espressione che non dimenticherò mai, mi accarezzò i capelli. M’ero appena tolta il berretto di lana. -Torno subito piccola, fai la brava- Mi disse andandosene con Filippo. Rimasi affidata alle cure di zia Caterina, che non era proprio nostra zia. Abitava nello stesso palazzo, all’interno 10, accanto al nostro. Ci aveva visto crescere. A volte, quando i turni di lavoro di mamma e papà coincidevano, zia Caterina si assicurava che noi ragazzi non combinassimo disastri. Come si faceva a non considerarla una di famiglia?
Mi aiutò a togliere lo zainetto dalle spalle e scoppiò a piangere, coprendosi il viso col fazzoletto che fino a quel momento aveva tormentato senza sosta, annodandolo e stropicciandolo tra le dita. M’abbracciò quasi a soffocarmi. La sentivo tremare. Diceva che la mamma ora riposava in pace. Era andata in cielo, con gli angeli. Non dovevo essere triste, i bambini forti non piangono. Dio si sarebbe occupato di lei, sarebbe stata bene.
Perché gli adulti avevano diritto al pianto e i bambini no? Perché oltre a Filippo, papà non aveva portato anche me all’ospedale? La mamma era morta, questo stava cercando di dirmi Caterina, usando un linguaggio che non mi piaceva affatto. Io pensavo solo ad una cosa. Se fossi stata grande, almeno quanto mio fratello, avrei potuto riabbracciarla, dirle che le volevo bene, che gliene avrei sempre voluto. Quella mattina non avevo fatto in tempo…
Odiavo i miei sette anni.
Dopo l’incidente, ci trasferimmo ad Amsterdam nel vivace quartiere Jordaan, da nonna Giovanna, la mamma di papà. Lui è nato e vissuto li fino a che non ha sposato la mamma. Lei studiava, era all’ultimo anno dell’università, un paio di esami e sarebbe tornata a Roma. Si sono conosciuti davanti alla casa di Rembrandt. Fu amore a prima vista.
Per me quella casa non era una novità. Venivamo a passarci l’estate, tutti gli anni, da prima ancora che nascessi. Ci sono foto di noi quattro che lo testimoniano. Io sono quella nel pancione di mamma. Filippo se lo ricorda molto più di me.
Papà, a causa del lavoro, faceva il pendolare, in attesa del trasferimento definitivo. Anche se non l’avevo frequentata spesso, volevo bene a nonna Giovanna. Mi faceva sentire a mio agio, nonostante fosse alquanto severa.
Cambiare città, scuola e amici, non era stato affatto uno scherzo. Mi mancavano le vecchie abitudini, gli orari di Roma. Li non ero costretta ad andare a letto alle venti. A quell’ora, stavamo ancora apparecchiando la tavola, mentre mamma spalancava lo sportello del frigo e decideva cosa ci andava di mangiare. Io votavo spesso per gli spaghetti al pomodoro. Ma non sempre venivo accontentata.
La cosa di cui sentivo molto la mancanza in realtà, era la mia vecchia cameretta. Un gigantesco tendone, a strisce bianche e rosse, si spalancava festoso davanti ai miei occhi. Circondata da allegri personaggi del circo, m’immergevo in quell’atmosfera vivace, gustandomi contemporaneamente le esibizioni di tigri, domatori e spericolati trapezisti, che si muovevano in una girandola di colori e forme. Davanti al mio letto, una figura spiccava su tutte le altre. Un mimo, un artista di strada vestito da clown, proprio come quello che stava al parco davanti casa nostra. Lo guardavo sempre dalla finestra il pomeriggio dopo aver riposto i quaderni. Ritratto con il fedele compagno, un pappagallo verde appollaiato sulla spalla intento ad arruffarsi le penne, sembrava così vero. Con i pantaloni larghi tenuti su da due enormi bretelle gialle e il cappello a cilindro sui capelli di paglia, facendomi l’occhiolino, tutte le sere dava il benvenuto a me e agli ospiti del circo. Opera della mamma. Lei era un’artista, creava illustrazioni per una casa editrice. Era la sua passione, oltre ad essere il suo mestiere.
La pendola aveva appena finito di battere l’ultimo rintocco, infrangendo così i miei pensieri e riportandomi di colpo nella piccola stanza sotto il tetto, nel bel mezzo di un gelido inverno.
Un rumore dal basso, fin troppo familiare, mi convinse ad abbandonare il tepore del letto per affacciarmi alla finestra. Giusto in tempo per vedere Filippo, Corrado e suo padre, uscire di casa con i pattini sotto al braccio. Corrado abitava all’angolo della strada, era uno degli amici di mio fratello.
La nonna gli aveva dato il permesso per andare a pattinare sul ghiaccio! In tivù avevano mostrato l’inaugurazione della nuova pista coperta in Leidseplein Square, una delle piazze più famose di Amsterdam. Volevo andarci, avevo chiesto alla nonna il permesso di accompagnare Filippo, più e più volte. Anche di pomeriggio, sarebbe andato bene lo stesso.
Sapevo però che mio fratello non mi voleva tra i piedi. Non era un problema della nonna.
Dal giorno dell’incidente, tutto era diverso. Filippo era così cambiato. Non solo fisicamente. Ai tempi di Roma, giocava spesso con me, anche se agli amici faceva credere il contrario. Era come se qualcuno gli avesse portato via tutta l’allegria. Come se non riuscisse più a vedere il mondo a colori, ad assaporarne la bontà. Ce l’aveva insegnato la mamma. Diceva che ad ogni colore corrispondeva un sapore e per ognuno era diverso. Per esempio, il blu che “assaporavo” io, era diversissimo da quello che percepiva lei: il mio infatti sapeva di lamponi. Diceva che era il bello della pittura: ogni pennellata un mistero.
Filippo non parlava mai con me, non mi permetteva di chiedergli nulla. Quando cercavo di carpirgli informazioni su quanto era successo alla mamma, mi trattava male, urlandomi contro tutta la sua rabbia. Volevo solo sapere se anche a lui mancava così tanto. Se la pensava sempre come facevo io.
Non aveva disputato la partita di basket quella famosa domenica. L’Euroma 1 aveva perso lo scontro diretto arrivando seconda a fine campionato.
Lui diceva che non gliene importava niente. Ma io sapevo che non era così. Non diceva la verità.
Mi mancava la sua presenza. Ecco perché ci scontravamo spesso. Cercavo in qualche modo di attirare la sua attenzione.
Scesi le scale diretta alla camera di nonna Giovanna. L’avrei convinta in qualche modo ad accompagnarmi. La trovai addormentata davanti alla tivù, con il telecomando in mano e il plaid sulle gambe. Invece di svegliarla, tornai silenziosa nella mia stanza. In un lampo indossai giaccone e pantaloni pesanti, direttamente sopra al pigiama. Dovevo muovermi in fretta se volevo raggiungere Filippo e Corrado. Conoscevo la strada per arrivare alla piazza, ma non c’ero mai andata da sola.
Con gli scarponcini in mano, ridiscesi le scale. Trovai la nonna nella stessa posizione di prima. Sapevo che stavo per fare una cosa sconsiderata. Ma se lei non si fosse svegliata e Filippo avesse tenuto la bocca chiusa, forse avrei potuto farla franca.
Presi i pattini, infilai gli scarponi ed aprii la porta. Un paesaggio fiabesco mi accolse nella notte.
Il vento s’era fermato. La neve continuava a scendere lenta, appiccicandosi al mio berretto di lana. Tutto era immobile. Cominciai a camminare. Le orme del terzetto, erano evidenti.
Attraversai il Bloemgracht, il canale dei fiori, soffermandomi a guardare la chiesa di Westerkerk. La domenica le sue campane mi tenevano compagnia.
L’acqua scorreva scura e minacciosa, inghiottendo ingorda i fiocchi di neve. Le case strette e lunghe, con le loro belle facciate decorate, assistevano consenzienti al mio passaggio.
Ancora un altro pezzo di strada, e sarei arrivata alla piazza. Non badai alla lastra di ghiaccio sul marciapiede.
-Il ghiaccio è insidioso, ricordatelo sempre-
La nonna mi aveva messa in guardia. Ma in quel momento ero assorta nei miei pensieri. Stavo elaborando il discorso che avrei fatto a Filippo di li a pochi minuti.
Continuai a camminare. Lo scarponcino slittò, fatalmente. Persi l’equilibrio. La gamba urtò contro qualcosa di duro. Una fitta lancinante mi annebbiò la vista. Poi non vidi più nulla.

Dovevo proprio aver fatto una brutta caduta. Non ricordavo niente, solo il forte dolore che per un attimo mi aveva tolto il respiro. Mi alzai per testare la gamba. Funzionava tutto alla perfezione.
Mentre mi spolveravo la neve dai pantaloni, alzai la testa e notai un movimento in fondo alla strada. Proprio davanti a me, nel vicolo buio. Era scuro, non riuscivo a vedere bene.
Mi sembrava una figura familiare. Possibile? Mi avvicinai curiosa, qualcuno stava suonando un organetto, era una specie di valzer. Girai l’angolo e il tendone a strisce bianche e rosse più grande che avessi mai visto, apparve davanti ai miei occhi. Il circo! Era la fotocopia di quello che la mamma aveva dipinto nella mia cameretta!
Iniziai a correre.
Arrivata davanti all’entrata, mi arrestai di colpo, a bocca aperta. Trovai ad accogliermi lui, il mio mimo, con il fedele compagno appollaiato sulla spalla. Il pappagallo verde mi fece un inchino. Il clown mi sorrise prendendomi per mano.
Entrammo insieme nel tendone: ed ecco le stesse tigri e gli stessi leoni esibirsi in spaventosi ruggiti e giravolte, mentre il domatore faceva mulinare la frusta con eleganza, disegnando cerchi immaginari nell’aria. Alzai lo sguardo, e sopra la mia testa, un gruppo di trapezisti, gli stessi che tutte le sere ripetevano il numero nella mia stanza, volteggiavano sicuri tra una sbarra e l’altra, incuranti del pericolo.
Non sapevo cosa dire. Guardavo affascinata, aspettando altre sorprese.
In quel momento il clown, appoggiandomi le mani sulle spalle, mi fece voltare. La vidi. La mamma veniva verso di me, serena, come la ricordavo, come l’avevo vista l’ultima volta.
Le corsi incontro, quasi volando tra le sue braccia. Ci abbracciammo forte in mezzo alla pista. Tutti si fermarono ad osservarci.

-Se fossi stata più grande, papà mi avrebbe portato in ospedale, avrei potuto salutarti un’ultima volta, dirti che ti voglio bene…scusami…-
Lei mi disse che lo sapeva, che non c’era bisogno di parlare. Riusciva chiaramente a sentire il mio amore e quello di Filippo. Era così forte e puro, non si sarebbe mai spezzato.
Aggiunse che non dovevo sentirmi in colpa, e non dovevo neanche avere fretta di crescere. Anzi, avrei dovuto vivere i miei sette anni come un dono, conservandone i ricordi nel cuore una volta diventata grande.
Era l’età più bella, una magia. Non dovevo sprecarla.

Le campane iniziarono a suonare. Il clown si avvicinò e mi prese nuovamente per mano, mentre il pappagallo in un frullo d'ali, zampettò allegro sulla mia spalla.
-E' ora di andare. Il tempo a nostra disposizione sta per terminare-
Mi stavano cercando: Filippo, la nonna e anche il papà di Corrado. Erano tutti preoccupati.
-Tienimi con te, non voglio andar via-
Avrei voluto dirle tante di quelle cose.
Mi disse che anche lei avrebbe voluto, ma non era possibile. Non potevo rimanere. Avevo un compito da svolgere.
-Anche se non potrai vedermi, sarò con te, in qualunque ora del giorno, in qualsiasi posto andrai. Sempre.
Dovrai riferire le mie parole a Filippo. Anche lui deve sapere. Vedrai, ricomincerà a sentire i colori, ad assaporarne la bontà, come vi ho insegnato. Ricordi come si fa tesoro? Se l’aiuterai, ci riuscirà di nuovo. Sei sempre stata brava in questo-
L’abbracciai, sprofondando tra le sue braccia.

Mentre andavo via accompagnata dal mio clown, la mamma rimase a guardarmi, sorridendomi per incoraggiarmi. Le luci si spensero e la musica si affievolì, finché le ultime note del valzer si dispersero nell'aria come tante farfalle colorate.

Aprii gli occhi. Erano tutti intorno a me. Nonna Giovanna, Corrado e perfino il signor Otto, il papà di Corrado. Filippo mi stringeva la mano guardandomi preoccupato. E stavolta non per ordine di papà. Non l’avevo mai visto in quelle condizioni. Forse avevo parlato nel sonno: cosa avevo detto?
Ero scivolata sul ghiaccio e il forte dolore mi aveva fatto perdere i sensi. La nonna si era svegliata e salendo in camera, s’era accorta della mia assenza. Era uscita di fretta intuendo dove fossi diretta. Mi aveva ritrovato stesa per terra nei dintorni di casa e a quel punto aveva chiamato il padre di Corrado.
Sapevo che tutto sarebbe andato a posto. La mia gamba rotta. La punizione che sicuramente non avrebbe tardato ad arrivare e Filippo.
Anche lui sarebbe guarito, glielo leggevo negli occhi.
A darmi questa certezza furono le parole della mamma che riecheggiavano senza sosta nel mio cuore. Era stato tutto così autentico e vero. Percepivo ancora il suo profumo, quello della cipria che mi piaceva tanto. Non potevo aver sognato.
E lo sapevo, ne ero convinta, perché riuscivo anch’io a sentire il suo amore, così chiaramente, come mi aveva detto lei pochi minuti prima.
Era vero, non si sarebbe mai spezzato.
Forse aveva ragione zia Caterina: in qualunque posto fosse andata la mamma, in paradiso o a tenere compagnia ai miei amici circensi, qualcuno si stava prendendo cura di lei.

© Donatella Magnani





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