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(da “Cent’anni di veleno – Il caso Acna: l’ultima guerra civile italiana”, Stampa Alternativa 2005)
D’estate da ragazzini si partiva da Saliceto con un secchio e una rete a catturare i cavedani in qualche torrentello. Restavamo per ore appollaiati sui sassi, a parlare di niente, intenti a cogliere un guizzo in quello sputo d’acqua, sotto il sole a picco. Ricordo l’odore delle alghe secche e poi un odore acre, come di medicina, dallo scarico della fabbrica. Anche oggi, le rare volte che mi capita di tornare ancora al paese, ritrovo in quell’odore i miei dodici anni. E riconosco le voci dei vecchi, le crepe sui muri, la strada che si fa sterrato, i sassi. Basta così poco, in un giorno come questo, per morire di malinconia...
Mia moglie mi sfiora i capelli con la mano, quasi una carezza, e accenna un abbraccio, di una tenerezza dimenticata, annegando il viso nella mia giacca. Lei non sa dei cavedani. Non sa di quando li gettavamo nel secchiello pieno d’acqua velenosa del Bormida e stavamo lì a contare, con il cinismo innocente dei bambini, fino al momento in cui avrebbero voltato al cielo il ventre argentato. Uno, due, tre, quattro, cinque...
In piazza, davanti alla chiesa, c’è già qualcuno ad aspettare.
“Forse non ti ricordi di me, ma io ti ho visto nascere... Eravamo sempre insieme io e il tuo papà!”.
E’ un uomo piccolo, magro, la testa ossuta e il volto scavato come il greto di un fiume. Mi stringe forte l’avambraccio, come volesse – in quella stretta – raccontarmi una storia lunga una vita.
Poi altri volti, altre voci, altre parole.
“Diceva di aver messo da parte qualche cosa per ricomperare la terra, più su nelle fasce, dove non arriva il fenolo”.
La sua vigna papà aveva dovuto darla via per niente. Dall’uva veniva un vino cattivo e non si trovava a venderlo. La terra è rimasta lì, incolta, tutta rovi e ortiche, come i giardini delle case dei matti, e lui ha dovuto cercar posto in fabbrica.
Il cavedano disegnava gli ultimi cerchi nervosi in quell’acqua che non era più acqua. Acqua rossa. Acqua malata. Uno, due, tre, quattro, cinque...
“Un uomo così forte... Il male se l’è portato via in due mesi”.
Fa così caldo qui, non si respira. Entro in chiesa e per un attimo è come immergersi in un’urna fresca di acqua corrente e pietre vive.
I cavedani grandi erano i più difficili da prendere. Si nascondevano sul fondo delle pozze, dove l’acqua è più alta. Erano anche i più diffidenti, sempre pronti a guizzare sotto le pietre o tra le alghe al minimo movimento. Bastava un riflesso sulla superficie calma dell’acqua a metterli in allarme, un breve contatto del nostro mondo con il loro. La vita gli aveva insegnato qualcosa. Eppure anche loro, prima o poi, sarebbero finiti nella rete o presi all’amo. Era solo una questione di tempo, di attesa, di pazienza. Anche quelli, alla fine, li si poteva prender per fame.
Ci sono due corone di fiori. Una macchia di colore contro il marmo dell’altare: “I figli e i nipoti”, “L’Acna e i colleghi tutti”.
Ma non è più il tempo delle parole, perchè ogni parola, ormai, ha la misura del silenzio. Salirà come un cancro dalla gola e si fermerà, fredda, sulle mie labbra. Saprà di fenolo. Saprà di sangue.
Penso ancora ai cavedani e vorrei chiedere scusa ad ognuno di loro.
Questi sono i ricordi del giorno in cui ho salutato mio padre, il suo corpo gonfio nel vestito della domenica, disteso sul dorso. Il ventre al cielo, come un cavedano.
©
Alessandro Hellmann
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