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Quel pomeriggio faceva un caldo infernale. Questo lo ricordo benissimo, quello che non ricordavo era un’estate altrettanto calda. D’altra parte, la memoria meteorologica è un elemento estremamente relativo, specialmente quando si suda tanto da non riuscire a tenere gli occhi aperti. Dormire era impossibile e di studiare non se ne parlava proprio. Nell’afa di quel giorno persino gli esami che si avvicinavano sembravano costituire un’eventualità troppo remota per essere presa seriamente in considerazione, così, incurante del sole che martellava impietoso, mi cacciai in testa un berretto da baseball e, inforcata la bicicletta, mi avviai faticosamente verso il paese semi addormentato. Al bar, ovviamente, non c’era nessuno, persino il cagnaccio, il proprietario, sonnecchiava appoggiato al bancone, con la testa a penzoloni e le braccia incrociate. Non c’era motivo di fermarsi lì, sotto la veranda di lamiera arroventata. Girai la bicicletta, attraversai a ritroso il paese e, pedalando con decisione, mi lasciai alle spalle le ultime case perdendomi nel dedalo di strade bianche della bassa. Perché ancora, in quegli anni che ora sembrano così lontani, appena dietro casa mia, oltre il giardino e il frutteto, cominciava un mondo diverso. Un mondo sospeso tra nebbia e cielo, un mondo di campi coltivati a mezzadria, vitigni abbarbicati agli olmi, pioppeti fruscianti. Ad ogni pedalata mi allontanavo dal paese e, fra barchesse diroccate e vecchie case di mattoni rossi, il tempo scorreva all’indietro fino ad un indefinibile e confortevole passato.
La bicicletta si infilava cigolando nelle buche scavate dalle ruote dei trattori, saltava tra i sassi lasciandosi dietro una scia di polvere che restava sospesa nell’aria immobile. Arrivato alla curva della silteda mi fermai qualche minuto all’ombra di un rovere e poi svoltai giù per lo stradone che portava al gavello. Era questa una lunghissima striscia di terra battuta in mezzo al niente dove, a dar retta ai vecchi, in tempo di guerra era atterrato un bombardiere americano in avaria. Qui la siepe di rovi e biancospino che cresceva ai due lati della strada offriva un po’ di ristoro, così scesi di sella per proseguire a piedi nel silenzio assoluto delle prime ore del pomeriggio. Il cielo era una cappa lattiginosa dove non si vedeva volare un passero né uno storno e una nebbia fine, effetto del calore, ristagnava sui campi, macchie brune e rosse che si succedevano nella pianura senza fine. Le zolle, argillose e secche, si spaccavano in una ragnatela di crepe profonde dove si nascondevano, lo sapevo anche se era difficile vederli, insetti, rospi e perfino grossi lombrichi spaventati da tutta quella calura. Oltre la strada, a due o trecento metri di distanza, serpeggiava sinuoso e verde l’argine della Secchia, il vecchio fiume fangoso che taglia tutta la provincia di Modena dalle profondità dell’Appennino giù fino al Bondanello, dove, non senza qualche protesta, si mescola alle acque indifferenti e sdegnose del Po. La Secchia non è un fiume di buon carattere e, nei secoli passati, ha procurato tanti di quei guai che i modenesi si son visti costretti a rinchiuderla fra due argini massicci, che pure non bastano a trattenerne i malumori quando la Primavera arriva improvvisa e l’acqua si riversa giù dalle montagne come se la gettassero a secchiate e la campagna si riempie di fontanazzi che sbucano nei luoghi più impensati allagando le cantine e le strade. Però quel giorno faceva talmente caldo che anche il fiume sembrava ansimare, immobile, lento e verdastro, giù in fondo al suo greto circondato dai pioppi.
Arrivato ponte della Ca’Rossa mi fermai per riprendere fiato. Un sentiero che risaliva l’argine attrasse la mia attenzione e io lo seguii fino in cima. Poi, gettata la bicicletta tra l’erba alta, mi sedetti all’ombra di un rovere masticando un filo di paglia. Il grano era già stato raccolto, l’uva sui tralci aveva acini piccoli e verdi e il granoturco era ancora di là da venire. La campagna sembrava dormire un sonno senza sogni, mentre le vacche si coricavano sulla terra umida dei recinti agitando la coda in segno di protesta per tutto quel calore immotivato. Fu solo dopo essermi coricato sull’erba che mi accorsi di come, poco oltre l’ansa del fiume, si vedesse chiaramente, attraverso l’aria incandescente, la sagoma scura del ponte di ferro.
Il ponte ferroviario, cioè il ponte di ferro, era una piccola curiosità locale. La linea Mirandola-Rolo era stata progettata negli anni trenta per collegare fra loro quelle che, all’epoca, erano fiorenti borgate agricole e per unire trasversalmente le tratte Bologna-Verona e Modena-Mantova. C’erano piccole stazioni di campagna con il loro bravo porticato e la loggetta per i viaggiatori, viadotti di mattoni rossi solidi e panciuti e un paio di ponti di ferro dall’aria austera. C’era tutto, tranne le rotaie e, ovviamente, il treno. Che non era mai passato, perché la compagnia era fallita poco prima dell’inaugurazione. Per molti anni la massicciata era stata usata come un sentiero attraverso i campi, buono per chi andava a piedi o in bicicletta, poi, con l’arrivo delle automobili, aveva perso anche quella funzione, l’erba era cresciuta tra i sassi e qualche ponte era crollato. Anche il ponte di ferro, a dire il vero, si era fatto un po’ pericoloso. L’assito era marcito ed era caduto giù nel fiume, così che per attraversarlo era necessario camminare sulle travi rugginose, un piede dopo l’altro, con cautela, abbassando la testa ogni volta che si incontrava una travatura di raccordo.
Sull’argine, all’altezza del ponte, c’era ancora una costruzione di servizio non troppo malandata, una scritta sbiadita riportava l’indicazione chilometrica e sul lato est, all’ombra, c’erano due panche di pietra nascoste tra l’erba alta. Sembrava il posto perfetto per coricarmi a leggere il libro che mi ero portato. A patto di non avere pregiudizi nei confronti delle formiche, e io non ne avevo. Il silenzio era assoluto e il libro non troppo interessante, forse fu per questo che mi addormentai quasi senza accorgermene. Stavo sognando di camminare nel deserto, inseguendo il miraggio di una fontana che si allontanava ogni volta che ero sul punto di bere, quando un tonfo sordo, come di qualcuno che si tuffasse nell’acqua, mi svegliò bruscamente. C’era troppa luce, troppo caldo e gli occhi mi facevano male, proteggendomi il viso con una mano mi sedetti sulla panca. Il rumore che mi aveva svegliato si ripeteva ad intervalli regolari, stringendo gli occhi guardai giù verso il fiume, dove si allargavano pigri cerchi concentrici. Qualcuno, seduto sul ponte, stava gettando sassi nell’acqua. Un passatempo come un altro, pensai, ma quando, finalmente, riuscii a mettere a fuoco quel tanto che mi consentirono i miei occhi miopi, mi trovai davanti una visione talmente curiosa da chiedermi se non stessi ancora sognando. L’uomo appollaiato sulla trave sembrava vecchissimo, era scalzo e indossava un paio di pantaloni sudici tagliati al ginocchio dai quali spuntavano due gambe oltremodo magre e storte. I pantaloni erano legati in vita con una corda da bucato alla quale, forse per maggior sicurezza, si agganciava un paio di bretelle scarlatte tese su una camicia che doveva, un tempo, essere stata bianca ma che ora assomigliava piuttosto alla tavolozza di un pittore naive. Se ne stava nel bel mezzo del ponte con le gambe a penzoloni, le maniche arrotolate e la camicia aperta sul petto ossuto e teneva in grembo un cappello di feltro da cui pescava, con estrema cura, i sassi che gettava nell’acqua. Prima li soppesava a lungo tra le mani, li lisciava e li osservava con attenzione, poi, dopo averli scagliati con gesto deciso, si chinava in avanti per ammirare i cerchi che si allargavano con un gran sorriso sul viso rugoso. Se il lancio gli riusciva particolarmente bene, applaudiva agitando le gambe e quindi, dopo essersi passato ripetutamente le mani sul cranio sudato, rovistava nuovamente nel cappello in cerca di un altra pietra.
All’improvviso, doveva essersi accorto della mia presenza solo in quel momento, il vecchio si voltò verso di me con espressione perplessa, inarcando esageratamente le sopracciglia. Poi sorrise, con un gran sorriso sdentato, e agitò la mano in segno di saluto. Ancora indeciso se fossi sveglio o se stessi dormendo, risposi a quel gesto con un movimento vago e mi chinai sotto alla panca in cerca degli occhiali, che dovevano essermi caduti assieme al libro durante il sonno.
Quando finalmente riuscii ad infilarmeli sul naso e il mondo riprese un senso compiuto, rialzai lo sguardo verso il ponte di ferro, ma, con mia grande sorpresa, il vecchio era sparito. Tenendomi ben saldo al bordo della trave superiore, camminai lentamente fino al centro del ponte. Dove avevo visto il vecchio ora c’erano soltanto alcuni sassi bianchi. Non poteva essere caduto nell’acqua, perché in quel silenzio assoluto me ne sarei certamente accorto. In ogni caso il fiume, molti metri più in basso, era completamente immobile. Proseguii fino all’altra sponda, sempre più incuriosito da quella sparizione improvvisa. Del vecchio non c’era traccia, c’era però una specie di sentiero di erba calpestata che proseguiva parallelo all’argine per qualche centinaio di metri e poi scendeva, attraverso le siepi, dirigendosi verso i campi coltivati. Una nebbia leggera sfumava i contorni degli alberi e l’orizzonte era tutto un baluginare di riflessi. Il sudore mi colava sulla fronte inzuppando la tesa del berretto e bruciandomi gli occhi quando, finalmente, sbucai su di una strada ghiaiata e deserta. Pochi metri più avanti c’era una piccola casa colonica. Una semplice costruzione quadrata di mattoni rossi, con un tetto a due acque curvo al centro sotto il peso degli anni come la schiena di un mulo. Qua e là, fra i coppi, crescevano ciuffi d’erba e, sul retro, un secondo edificio, più basso, faceva da stalla e fienile. Sotto al porticato riposava un Superlandini, che doveva esser vecchio di almeno settant’anni. In realtà la si sarebbe detta abitata soltanto da qualche gallina, non fosse stato per le tendine di pizzo che si scorgevano dietro all’inferriata delle finestre del piano terra e le lenzuola bianche stese fra il tiglio e la casa. Non sapevo bene che cosa stessi cercando, così camminai lentamente fino al centro del cortile e mi appoggiai al bordo del pozzo. Sorprendentemente, la pietra era fredda. Anzi, l’aria stessa era piacevolmente fresca, molto più di quanto non giustificasse l’ombra del grande albero e, sebbene non si muovesse una foglia, l’afa sembrava scomparsa.
Intorno, nel raggio di diversi chilometri, non c’erano altre case, soltanto una successione ininterrotta di campi e vigneti, qualche olmo a marcare un confine e occasionali pioppeti, quindi il misterioso vecchietto doveva per forza essere entrato lì.
Mi chiesi chi ci vivesse. Non c’erano tracce di automobili, nemmeno sull’aia pavimentata di mattoni, né un’antenna sul tetto. Anzi, non ci arrivava neppure l’elettricità, a giudicare dalla completa assenza di cavi. Chiunque abitasse lì doveva far a meno di tutte le comodità della vita moderna. Curioso, quantomeno. Un movimento dall’altra parte dei vetri mi sottrasse alle mie deduzioni e mi riportò alla realtà. Se in quella casa abitavano, come supponevo, due anziani coniugi, la mia presenza nel loro cortile era quantomeno inopportuna. Isolati com’erano avrebbero potuto spaventarsi oppure, anche peggio, reagire con una fucilata “a sale”. Stavo quindi per andarmene quando...
“Buongiorno!” disse la vecchia signora.
“Buongiorno...” risposi, un po’ imbarazzato.
“Fa un caldo terribile qui fuori, perché non entrate a riposarvi un poco?”
La guardai perplesso, sembrava estremamente vecchia, vecchia in modo indefinibile, ma aveva occhi vivaci e una voce allegra e gentile. E mi guardava con un sorriso dolcissimo disegnato sul viso completamente coperto di rughe.
“Non vorrei disturbare...” dissi.
“Mo’ si figuri! Sono sempre da sola, qui. I miei figli son tanti anni che non si fanno neanche più sentire. E anche quando passano di qua, è come se neanche mi vedessero. Venga dentro, piuttosto, che ho appena finito un buslan chl’è gnu na meravija!1”
Prima non ci avevo fatto caso, ma ora sentivo distintamente il profumo della ciambella appena sfornata. La vecchia si sfregò le mani sul grembiule candido e continuò a sorridere. Indossava un vestito nero e uno scialle dello stesso colore. Qualche ciocca di capelli bianchissimi e fini come la tela di un ragno le scendeva sulla fronte. Quando mi avvicinai si voltò soddisfatta e mi fece strada attraverso l’andito. Camminava curva, appoggiandosi ad un bastone, come capita spesso ai contadini quando, da vecchi, pagano le fatiche di una vita.
Ci vollero alcuni minuti prima che gli occhi si abituassero alla penombra, c’era odore di ciambella, farina e un sentore vago e piacevole, come di violetta e lavanda. Entrati nella piccola cucina mi indicò una sedia impagliata.
“Sintav2!” disse e non ebbi neppure il tempo di sedermi che già mi aveva servito una fetta di torta fumante e un mezzo bicchiere di malvasia.
Due piccole finestre dai vetri opachi illuminavano la stanza di luce soffusa e tra le finestre c’era un caminetto sormontato da una mensola di rovere dove stavano allineate le pentole di rame stagnato. Lei si sedette sulla poltroncina che stava sotto alla finestra più lontana, spostò con garbo un poggiapiedi di velluto, sistemò il pizzo sui braccioli e raccolse dalla cesta il lavoro d’uncinetto che doveva costituire il suo unico passatempo.
Oltre alla poltrona, il mobilio della stanza era costituito da un tavolo, quattro sedie impagliate, un pendolo che scandiva, lento, i secondi e una credenza dove facevano bella mostra tondi di maiolica azzurra e bianca, vasi di rame su centrini di pizzo, qualche libro dalla rilegatura consumata e un gran cesto pieno di noci e arance.
Le pareti erano dipinte di bianco e dalle travi del basso soffitto pendeva una lampada a petrolio. E faceva freddo. Qualcosa di più della normale frescura che ci si aspetterebbe in una vecchia casa di campagna, qualcosa di diverso dal freddo umido e odoroso di muffa e funghi di una cantina.
“Allora, av piasel? Lo faccio ancora come faceva la mia mamma, pensate un po’ voi. E ne son passati di anni!”
“Come, scusi?”
“Al buslan, av piasel3?”
“Sì, signora, buonissimo!” dissi, e certo non stavo mentendo per cortesia “E anche il malvasia, squisito. E fresco al punto giusto!”
“Son proprio contenta. Son qui da sola da tanto tempo... Ah, e mi chiamo Filomena, mica ‘signora’. E voi, siete di Moglia, voi?”
“No, sono di Novi. In realtà, stavo facendo un giro in bicicletta e...”
“In bicicletta con questo caldo?” mi guardò e aveva negli occhi una curiosità da bambina. Doveva esser stata bella da giovane, chissà quanti anni prima, ma c’era qualcosa di strano nei suoi lineamenti, era come se il suo volto fosse parzialmente sfuocato, difficile da definire. O forse era solo la penombra di quella stanza, dove la luce faticava ad entrare, come se venisse da molto lontano.
“E di che famiglia siete? Una volta conoscevo tanta gente di Novi. Quando c’era ancora il mio povero marito, si andava sempre alla fiera d’Ottobre. A piedi, andata e ritorno! E ce n’è di strada, ma allora avevo le gambe buone, mica come adesso.”
Parlammo per molto tempo, o almeno così mio parve, anche se non saprei dire di cosa. La voce della signora Filomena era tranquilla, gentile. Avvolgente al punto che l’argomento di conversazione perdeva completamente ogni importanza e il tutto sembrava esaurirsi in un reciproco scambio di suoni ovattati e piccole cortesie. Fu soltanto molto tempo dopo che, guardando fuori dalla finestra, mi accorsi che il sole se n’era andato e che grosse nuvole scure stavano addensandosi in cielo. Per quanto si potesse vedere, almeno, perché la finestra pareva deformare curiosamente la scena, cambiando forme e colori. Il tiglio, ad esempio, visto da lì sembrava molto più piccolo di quanto non fosse in realtà, e si vedeva anche un rampicante che copriva gran parte del porticato e che, da fuori, non avevo notato. Trovarsi in bicicletta nel bel mezzo di un temporale estivo può essere un’esperienza poco divertente, così mi congedai dalla vecchia signora, ringraziandola per l’ospitalità.
“A proposito...” le dissi raccogliendo il cappello dal tavolo “Venendo qui, ho incontrato un ... signore. Piuttosto anziano. Era scalzo e portava un paio di pantaloni curiosi, lunghi fino a qui...”
La vecchia mi guardò con espressione indefinibile e disse, come se parlasse fra sé:
“Mo peinsa te4... credevo proprio di essere l’unica a vederlo!”
“Come dice?”
“Eh, è mio fratello, Ampelio. Non c’è mai stato del tutto con la testa, puvrein5... Ha avuto una febbre quand’era piccolo.” disse, allargando le braccia come se si scusasse.
“Ah, capisco, e vive qui con lei?”
“Con me? Ah, no. Una volta, adesso sono sola.”
“Ma credevo....”
“Vede, poverino, lui è morto. Son dieci anni in questi giorni, sa?”
“Eh?”
“Sì, è morto. Solo che lui non se n’è accorto.”
“Ah....”
“Continua ad andare sul ponte a buttare i sassi nel fiume come faceva da ragazzino. Mi fa una pena se sapesse. A volte passa di qui e lo chiamo. Si ferma a mangiare una fetta di torta, come ha fatto lei. Non dice una parola e poi torna ad andarsene. Io lo so che ce lo dovrei dire che è morto. Ma poi ho paura che se ne abbia a male non mi venga più a trovare.”
“Ahem. Capisco, signora. Adesso, però devo proprio andare.”
“Ma tornerete a trovarmi qualche volta, vero?” La signora Filomena mi guardò con i grandi occhi un po’ velati, inclinando la testa di lato e si appoggiò al bastone.
“Certamente.” dissi, grattandomi la testa indeciso su come avrei potuto ribattere.
Mi accompagnò fino alla porta e restò a guardarmi con un sorriso enigmatico mentre io mi allontanavo dalla casa. Dovevo essermi sbagliato, perché non c’era una nuvola in cielo, anzi, faceva più caldo di prima, un caldo insopportabile che cresceva mano a mano che mi allontanavo dall’ombra del tiglio.
Mentre pedalavo verso casa, sbuffando sotto il sole cocente, continuavo a pensare alla vecchia signora Filomena. La solitudine e l’età fanno brutti scherzi, lei è il fratello dovevano aver vissuto da soli in quella casa per tanti di quegli anni da perdere ogni contatto con la realtà. Perché che il fratello fosse tutt’altro che un fantasma non avevo il minimo dubbio. Mi ripromisi che sarei tornato a trovarli al più presto.
In realtà, preso da un esame di fisica particolarmente ostico, passarono diverse settimane prima che rimettessi mano alla bicicletta. Era una sera di fine agosto quando, infine, tornai al ponte di ferro. Questa volta una piacevole brezza scompigliava le cime degli alberi e muoveva l’erba alta degli argini. Un pescatore mi salutò con la mano mentre passavo, risposi al saluto e pedalai lungo l’argine fino al vecchio tracciato della ferrovia. Non potei nascondere una certa delusione nel constatare come non ci fosse assolutamente nessuno sul ponte. Mi accomodai, comunque, sulla panca di pietra e mi coricai a guardare le nuvole incrociando le braccia sotto la testa. Un’enorme formica nera mi spiava curiosa da una crepa, chiedendosi, suppongo se fossi commestibile e io iniziai a pensare a cosa avrei potuto fare se, davvero, fossi stato in grado di parlare alle formiche, quando un tonfo sordo attirò la mia attenzione.
Era di nuovo lì. Seduto a cavalcioni del ponte, intento a gettare sassi nel fiume. Sporco, scarmigliato, scalzo. Questa volta non me lo sarei lasciato scappare.
Mi avvicinai cautamente, in equilibrio sulla trave di metallo. Visto così sembrava parecchio concreto, per essere un fantasma. Raccoglieva i sassi che teneva nel cappello, li studiava ad uno ad uno con attenzione e poi li gettava nell’acqua. Esattamente come la prima volta che lo avevo visto. Non volevo spaventarlo, col rischio che cadesse di sotto, così cercai di attrarre la sua attenzione.
“Ahem! Signore...” chiamai. Non ci fu nessuna reazione.
“Ampelio!” provai di nuovo, alzando la voce.
Ampelio si voltò, un’espressione sorpresa gli illuminò il volto poi esplose in una risata sdentata, batté le mani e fece un gesto che io interpretai come un invito ad avvicinarmi.
Mi sedetti al suo fianco. Non credo sapesse parlare. Forse era muto, o forse, semplicemente, nessuno si era mai preoccupato di spiegargli come si facesse ma, a gesti, mi mostrò il cappello, i sassi e mi “insegnò” a lanciarli nel fiume. In fondo era divertente.
Lo guardai con estrema attenzione. Non dava l’impressione di essere “trasparente”, era piuttosto concreto e, senza voler essere scortesi, abbastanza maleodorante. Mancava solo la prova finale, così, pur sentendomi un po’ stupido, allungai lentamente una mano, puntando l’indice. Se fosse stato un fantasma il dito gli sarebbe passato attraverso, giusto? O magari sarebbe semplicemente scomparso nel nulla. Non mi fa onore dirlo, ma il cuore mi batteva più rapidamente del normale quando, con delicatezza, gli toccai una spalla con il dito. Ondeggiò un poco e poi si voltò stupito, inclinando la testa di lato, ma, decisamente, non scomparve. Non era un fantasma, e non si lavava da un pezzo, scoppiai a ridere e Ampelio si mise a ridere assieme a me. Poi, siccome non c’erano più sassi nel cappello, si alzò e si avviò verso casa, voltandosi di tanto in tanto a guardare se lo seguissi. Perché no, in fondo, mi dissi, avrei bevuto volentieri un altro bicchiere di malvasia.
Il vecchio mi precedeva con andatura traballante, la casa era sempre come la ricordavo. Solo... un po’ più malconcia. E sporca. C’era un’automobile malandata parcheggiata nell’aia, e poi dovevano aver allacciato l’elettricità, perché c’era anche una parabola fissata al tetto, con un cavo pencolante che scendeva lungo la parete e scompariva dentro una delle finestre del primo piano. Una signora grassa dall’aria sudicia stava battendo un tappeto. Il tiglio, almeno, sembrava lo stesso.
“Disgrazé! Ma ndua sit a’sté, c’le n’ora c’at serc6?”
Ampelio, apostrofato in quel modo, si strinse nelle spalle con l’espressione di un bimbo colto con le mani nel sacco e indicò me con un gesto della mano.
“Io....” Stavo cercando qualcosa da dire, ma la signora non mi diede il tempo di finire, prese il vecchietto per un braccio e lo trascinò in casa.
“Gina!” strillò “Vieni a prendere lo zio e portalo dentro, che poi vengo su io a fargli il bagno. E sbrigati!”
Io, che ero rimasto al margine dell’aia, stavo già pensando di filarmela alla chetichella quando la massaia mi apostrofò con malgarbo:
“E tu chi saresti?”
“Io?”
“Sì, tu!”
“Ah, no... E’ che io passavo sull’argine, in bicicletta voglio dire. Ed ho visto Am... cioè il signore che sedeva sul ponte di ferro. Siccome mi è sembrato un po’ pericoloso, l’ho accompagnato fino a qui... comunque me ne stavo andando. Buonasera.”
“E’ lo zio di mio marito.” disse, con un sospiro, come se parlasse tra sé “Che Dio lo stramaledica, l’è vec c’ma’l cuc, ma l’na mor mai!7”
Si fermò un attimo, come rendendosi conto che, forse, non era un commento da farsi davanti ad un estraneo, infatti un istante dopo mi rivolse nuovamente la parola e questa volta con più garbo.
“Mi scusi sa. E’ che oggi non è giornata. Questa vecchia baracca sta andando a pezzi e mio marito non combina nulla di buono. E’ solo capace di ubriacarsi e di giocarsi lo stipendio a tresette. Grazie per aver riportato qui il vecchio. Posso offrirle qualcosa da bere?”
Aveva evidentemente pronunciato le ultime parole per puro formalismo, ragionevolmente sicura che avrei rifiutato. Deve essere per questo che risposi:
“Sì, grazie, prenderei volentieri un bicchiere di vino. Con questo caldo!”
Mi guardò con espressione sorpresa e visibilmente irritata. Poi si spazzò le mani sul vestito sudicio e mi fece cenno di seguirla. Entrammo nella cucina che già conoscevo, anche se non sembrava più la stessa. Avevano sostituito le finestre piombate con altre di vetro normale, entrava molta più luce, ma anche la frescura sembrava essersene andata. La poltrona nell’angolo era sporca, il caminetto ingombro di cartoni e pezzi di legno e non c’era traccia dei paioli di rame, né delle maioliche dai colori delicati. La lampada a petrolio era stata sostituita da una lampadina che penzolava appesa ad un filo nel centro della stanza e le pareti, bianche soltanto poche settimane prima, erano ora macchiate e sporche. Solo la credenza era ancora al suo posto, ma ingombra di cartoni di latte e scatolette accatastate in malo modo. E su tutto aleggiava un odore stantio di muffa, polvere e sudiciume.
La signora, ondeggiando pesantemente sulle gambe gonfie, mi versò con malgarbo un mezzo bicchiere di vino bianco e si lasciò cadere sulla poltrona nell’angolo guardandomi con astio malcelato. Non sapeva bene cosa stessi facendo lì, ma prima me ne fossi andato, meglio sarebbe stato. Su questo concordavo perfettamente, quindi vuotai il bicchiere di vino quanto più rapidamente possibile, ringraziai e mi avviai verso la porta. Neppure il vino aveva lo stesso sapore.
“La ringrazio, signora. ne avevo bisogno. Era molto buono“ mentii “La lascio al suo lavoro, dev’essere dura tener dietro a due vecchi.”
“Due? Ma che dice?”
“Beh, sì, il signor Ampelio e la sorella.”
“Ampelio? Ah, sì, è vero, si chiama così. Mica me lo ricordavo più... ma poi, a lei chi gliel’ha detto? E comunque sua sorella non c’è più.”
“Ah, mi spiace...” dissi. La notizia mi rattristò molto, comunque, se non altro, spiegava tutti quei cambiamenti. “Beh, dev’essere stata una cosa rapida. Ad una certa età capita, suppongo. Ma quand’è successo? Un mese fa mi era sembrata piuttosto in forma. Anche se, insomma, magari non c’era più del tutto con la testa.”
La signora si piegò in avanti faticosamente sulla poltrona, come per guardarmi meglio, appoggiando le mani sulle ginocchia.
“An’no mia capì chi s’iv o cusa f’iv chè, però second’me av manca un Venerdè8.”
“Mi scusi?”
“Mia suocera è morta dieci anni fa.”
“Impossibile.”
“Per Dio, se è possibile. Volete che non lo sappia? La Filomena è morta e sepolta, e son stati dieci anni in questi giorni. Guardate, dietro di voi, sul televisore. Quella è la sua foto.”
Mi voltai e sul Mivar unto e bisunto, gettata in un cestino, tra fiammiferi bruciati e tappi di sughero, c’era una fotografia sbiadita. Non c’era da sbagliarsi, era proprio il sorriso aperto e gioviale della vecchietta gentile che mi aveva offerto la ciambella e il malvasia. Sotto c’era una data, 10 Agosto 1974 e una piccola croce dorata.
Mi misi a ridere, non so perché, e ridevo tanto che mi piangevano gli occhi. Uscii di casa senza salutare e senza smettere di ridere e, sempre singhiozzando, mi appoggiai al tiglio. Ogni tanto, dagli occhi, mi scendeva una lacrima più amara come se mi fosse entrata una gran tristezza, da qualche parte in fondo al cuore.
Da un luogo indefinito, arrivava un profumo dolce e leggero, come di violette e lavanda.
In questo libro, troverete molte finestre aperte su stagioni e paesaggi diversi di un mondo immaginario eppure, in un certo modo, coerente. Un teatrino di personaggi sperduti, testardi, a volte brutali, mossi dalla consapevolezza di una mancanza, di un vuoto al quale non sanno dare un nome preciso ma che sognano confusamente di colmare. E questa necessità li spinge a viaggiare, a cercare, a rovesciare il tavolo, a cambiare tutte le carte della mano, contro ogni logica, perché o si trova una scala reale o non ha senso giocare. E tanti saluti a chi si contenta di vincere con una doppia coppia.
Siano essi geniali (e molto distratti) ingegneri, brutali e giganteschi barbari imprigionati in un mondo a metà fra Howard e Lord Dunsany, ombre nel deserto, impiegati non del tutto disposti a piegarsi, vecchi e bellicosi contadini toscani o fantasmi, a loro modo piuttosto concreti.
Completano il tutto un paio di divagazioni giovanili, che ho incluso più che altro per nostalgia, come fossero quei pezzi che si trovano a volte nei musei, quelli che nessuno sa davvero cosa fossero o a cosa servissero ma sembra brutto lasciarli in una cassa sul retro. Così li si espone con una avvertenza in caratteri piccoli: ritrovamento non catalogato, uso incerto. Agitare con prudenza.
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