Eravamo un manipolo male assortito di quindicenni da battaglia e la figura da leader era a quel tempo detenuta da Samuele. Il suo papà era titolare di un’officina meccanica e quando Elviro, un suo garzone, si comprò la macchina nuova, Samuele lo convinse a lasciarci la vecchia Fiat 500 che andava in rottamazione.
Avevamo una vettura tutta nostra.
La vecchia 500 era d’un color bianco aspirina. Sembrava un po’ spoglia quando la ereditammo, perché Elviro le smontò la targa. Ufficialmente la vecchia Fiat era morta. Ma il motore ruggiva ancora e noi, al posto della targa di dietro, ci disegnammo una bella A cerchiata.
Quella di anarchia.
Cominciammo dunque a fare scorribande in giro per le campagne, nei pomeriggi ancora caldi di un’estate agli sgoccioli. Dietro l’officina meccanica del papà di Samuele partiva una strada sterrata che s’inoltrava nei campi a ridosso del fiume Varaita. L’ideale per giocare a fare rally, correndo a tavoletta tra frutteti e campi incolti.
Samuele, nonostante i quindici anni, era un buon pilota.
La strada terminava in una macchia boschiva, oltre la quale c’era il letto del fiume. Parcheggiavamo e, con teli mare disegnati in vario modo, procedevamo balneari nello scorcio più esotico di Costigliole Saluzzo.
Giamaica, la chiamammo.
Giamaica era la zona in cui il fiume s’allargava in stagno. In alcuni punti era abbastanza profondo da poterci nuotare dentro ed era, in effetti, una piccola piscina naturale. Trascorremmo la mattinata a prendere il sole, poi accendemmo il fuoco per cucinare della carne alla brace.
Eravamo felici.
Cesare spiegava che si masturbava con la mano insaponata per ritardare l’eiaculazione. Io mi occupavo del fuoco mentre Tazio, che del grande Nuovlari vantava soltanto il nome, faceva il bagno. Da parte sua, Samuele preparava la carne e le spezie. Nel bagagliaio della vecchia 500 c’era una cassa di birra, per placare la sete.
Dopo pranzo continuammo a prendere il sole, a fare il bagno, a parlare di ragazze. A Costanza puzzava l’alito, Tatiana era brutta come la morte e a Federica bastava un frizzantino per riuscire a convincerla a mostrare le tette.
Due di noi, non dico chi, le avevano perfino baciato i capezzoli.
Nel tardo pomeriggio decidemmo di rientrare. Samuele si mise al volante della vecchia 500, noi tre prendemmo posto di dietro. Il sedile di fianco al guidatore era saltato via durante una scorribanda nella settimana precedente e avevamo dovuto rinunciarci.
Il viaggio del ritorno, così breve, fu tuttavia intenso.
Ci trovammo la strada, tanto stretta da rendere difficoltoso il passaggio di due vetture, intasata dal lento proseguire di un trattore. Andava a passo d’uomo, il mezzo agricolo. Samuele prese ad accelerare, indeciso se tentare l’azzardo d’un fortunoso sorpasso, oppure restare a pazientare dietro il trattore.
Poi mettemmo a fuoco il tappeto verde d’un prato e la tentazione di giocare a Bo e Luke fu troppo forte per resistervi.
Samuele sterzò e accelerò. La vecchia Fiat guadagnò la via sconnessa del prato, come una macchiolina bianca impazzita. Evitammo gli alberi che crescevano qua e là, in ordine sparso, balzammo attraverso una serie di violente sconnessioni, infine tornammo in strada appena davanti al trattore.
Il contadino alla guida ci guardò con aria stupefatta. Avrebbe segnalato la nostra illegale presenza alle autorità?
Cesare aveva un bernoccolo in testa. Tazio rideva come un cretino. Samuele era tutto eccitato ed io, che non ero suo zio, mi mettevo in bocca una sigaretta per festeggiare l’avventura.
Quella sera ci sarebbero state cose da raccontare al bar.
Nel sorpasso la vecchia 500 si contuse un poco. Il fondo, già arrugginito, cedette in più punti e adesso, correndo per le strade sterrate di campagna, entravano sassolini, polvere e quant’altro. C’era una voragine che guardava di sotto.
Decidemmo che era ora di farla fuori.
Quando giunse il camion per la raccolta dei ferri vecchi Samuele salì sul carrello elevatore e infilò le pale di sollevamento dentro l’abitacolo, di fianco. I vetri esplosero in frantumi. La vecchia Fiat fu caricata sul camion e noi, per celebrare la sua dipartita, sorseggiammo solenni una birra. Eravamo un po’ tristi ma era chiaro che sarebbe finita così.
Perché il gioco è bello se dura poco.