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- Dai, cammina, stronzo. Il sergente dette un colpo sul fianco dell’uomo col piatto del calcio del fucile, togliendogli il respiro. L’uomo ansimò e barcollò con sofferenza. Gli occhi erano grigi, spenti, piatti. Il volto emaciato, sporco, affilato nella fatica e nella sofferenza. - Metti le mani sulla testa e cammina, testa di cazzo. - disse il sergente dandogli un calcio sul polpaccio sinistro – ti faccio vedere io a farmi fare ‘sta sfacchinata, montenegrino di merda.
Incrociarono dei soldati, che salivano lungo il sentiero, poi videro altri uomini che risalivano… piccoli, lontani di qualche gola più in basso. “Fra poco…” pensò il sergente. - Ehi, sergè, com’è su da voi? Grigia come qua o avete un po’ di sole? - chiese uno dei soldati che stavano incrociando. - Ma che hai voglia di chiacchierare? Non rompere, come vuoi che sia in questo posto di merda? Piove sempre, qui… e poi con ‘sti testa di cazzo – accennò al prigioniero – da portare a spasso… - Poverommini sono, sergè, pure loro. - Si, col cazzo. L’altro soldato che stavano incrociando disse sottovoce al compagno: - Lascialo perdere che è una testa di minchia. - Com’è la strada, giù? Si scivola? Siete solo voi e quegli altri, oggi? - fece il sergente accendendosi il mozzicone di sigaretta che aveva preso dal taschino. - E’ brutta, devi fare attenzione, si scivola… c’è solo il V plotone che sta salendo… e giù si fatica anche di più. Hai una cicca per me? Il sergente tirò fuori un altro mozzicone e lo diede al soldato. Poi diede uno spintone al prigioniero: – Noi andiamo, addio.
Scesero con grande attenzione cercando di non scivolare sulla roccia fradicia, il prigioniero in silenzio, il sergente che smadonnava, la pioggia che cadeva forte ed il vento che rendeva la giornata tagliente come una lama. Il sentiero era difficile, improvvisamente, ai lati, si aprivano dirupi profondi, la natura era inospitale, dura, fredda, viscida. Il secondo gruppo di soldati era passato da un pezzo, diretto verso una delle cime del monte, verso quel poco di caldo del campo.
Ora il sergente era assorto, la piega della bocca era crudele, gli occhi erano vitrei. Disse al prigioniero di fermarsi e di voltarsi verso di lui. L’uomo si voltò e il sergente lo spinse con forza. L’uomo capì e gridò: - Cane! - in italiano, ma non riuscì a mantenersi in equilibrio e spalancando le braccia nell’ultimo tentativo di contrastare la spinta verso il burrone, precipitò nella profonda forra umida. Il sergente si sedette su una pietra lungo il ciglio del burrone, si accese un altro mozzicone di sigaretta, aspirò, guardandosi intorno silenziosamente. La pioggia non cadeva più, il vento ed il mondo s’erano fermati ma al sergente non importava. Aspirò il mozzicone finché non si bruciò le dita, poi lo gettò nel dirupo. Si alzò e cominciò a ripercorrere la strada verso la cima del monte, verso il campo, pensando al rapporto da fare.
Il giovane tenente era alto, 180 cm. In confronto ai suoi uomini era un gigante... figurarsi, a quei tempi l’altezza media era attorno ai 155. Volontario, la fronte ampia, intelligente, amante degli aereoplani, era finito nel genio della fanteria a combattere una dura guerriglia sulle montagne montenegrine. I suoi uomini lo stimavano molto. Nelle situazioni pericolose, non si tirava mai indietro, lui andava per primo, lui dava l’esempio. Ascoltò il rapporto del sergente e mentre ascoltava pensava ai suoi uomini. Il tenente non lo sapeva allora, ma tutti quei suoi uomini, 120, sarebbero morti durante la ritirata in Russia. Ma quel sergente, no. Quel sergente avrebbe finito qui la sua carriera. Lo congedò, poi prese carta e penna e scrisse al suo superiore una lettera dove chiedeva l’istituzione di una commissione d’inchiesta per l’omicidio di alcuni prigionieri da parte di quel verme.
Montenegro 1942 - Roma 2008
©
Paolo emidio Angelini
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