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È tardi. Nel volgere di un battito di ciglia è scesa la notte.
Le ombre della sera da tempo, ormai, si sono distese sull’agglomerato urbano e ne hanno mutato l’aspetto.
L’illuminazione sbiadita, spesso inesistente, dei lampioni nelle vie deserte, nei vicoli inariditi, nei piccoli recessi nascosti non riesce a contrastare il nero imperante che macchia quella parte di mondo e la nasconde persino agli occhi di Dio.
L’uomo si rifiuta di sentire, di vedere, di annusare oltre i muri scrostati di quei poveri tuguri crivellati dai colpi delle mitragliatrici, massacrati dai mortai e falciati dai razzi, le esistenze in essi custodite.
Miseri scrigni di terra e mattoni che racchiudono vite dimenticate il cui valore è inferiore a quello dello straccio consunto e annerito dal carbone con cui le donne, velate e ingobbite, puliscono il forno ancora caldo e profumato di pane.
Forse c’è qualcosa di sbagliato in ciò che sta facendo o forse ad essere sbagliate sono le scelte a cui lo ha portato la sua fede.
Si siede divenendo invisibile, lui stesso ombra tra infinite ombre.
La percezione, imprecisa e nebulosa, di una minuscola fessura vuota, una microscopica crepa da colmare, in mezzo a infiniti spazi pieni, lo porta a riflettere e a scoprire di avere paura.
Paura non della morte, sorella del buio in cui si muove e che lo avvolge come una materna placenta, ma paura delle sue riflessioni.
È stato abituato a non pensare, istruito ad agire in maniera automatica come il piccolo ingranaggio di un gigantesco meccanismo.
Gocce di sudore gli inumidiscono il corpo, ricordandogli le lacrime di rabbia e di dolore con cui la nera signora dalla lucida falce avvolge gli scenari delle sue stragi. Sacrifici rituali compiuti in nome di un delirante ideale.
Richiamati da un profumo, forse da qualche oggetto di cui il buio ha confuso i contorni, da vaghe somiglianze a cui la notte ha cambiato le forme, rapidi ricordi gli scivolano nella mente dagli spazi sconfinati del passato.
Com’è bello il sapore del ricordo e del passato quando si sa di non avere più un presente né un futuro…
Qualcosa rimane impigliato nell’anima e la graffia. Un bruciore basso e pulsante lo avverte di una nuova, inattesa, presenza.
La nostalgia si avvicina sollecita. Lo accarezza con dita esitanti quindi, serrandolo in un intimo abbraccio, lo stordisce di obliate emozioni. Infine lo abbandona, dileguandosi rapida, come un’amante colta in flagrante ma lasciando al suo posto un disarmante senso di incompletezza e sulle spalle il peso quasi tangibile della solitudine.
Lui è un uomo. E i veri uomini non provano sentimenti inutili.
Lui è un uomo. E gli uomini degni di questo nome non si lasciano andare a stupide emozioni.
Lui è… il frutto del ventre di sua madre che con il corpo avvolto nella lunga veste nera, lo tiene stretto accanto a sé per rendere meno gelide le notti nel deserto. …Il riflesso orgoglioso che si accende negli occhi scuri di suo padre, i cui tratti severi del viso vengono arabescati dai bagliori della danza selvaggia e primitiva delle fiamme di un fuoco da campo. …Un bambino perso nella visione delle stelle che gli sembrano talmente vicine da sentirne il calore sulla pelle.
Alza gli occhi al cielo ma, ora, a fatica riesce a distinguerle. Sono lontanissime e con esse, irraggiungibili, ci sono i suoi sogni e la sua adolescenza negata.
Nell’interminabile notte le certezze vacillano. La ragione reclama risposte a domande troppo a lungo ignorate. Eluse o appositamente fuorviate da chi ha manipolato la sua intelligenza condizionandola, umiliandola e massificandola.
Anche la luna appuntata sull’oscuro drappo del cielo sembra estranea e sfuggente, quasi ostile. I suoi argentei riflessi rendono il paesaggio esangue, spettrale.
Vorrebbe lasciare alla notte la spaventosa processione di demoni e fantasmi che si porta dentro. Nasconderli tra le sue non stagioni. Eclissarli tra le spire del buio. Annegarli nel nero opprimente dell’assenza di luce.
L’uomo riporta lo sguardo davanti a sé. Tutto procede secondo i piani, ma nei suoi desideri più reconditi vorrebbe che qualcosa si inceppasse. Che quel meccanismo lo stritolasse e lo portasse via come le prime luci dell’aurora fanno con il buio delle tenebre che lo attanagliano e di cui si nutrono i suoi incubi.
Una sventagliata di mitra lacera il profondo silenzio della notte fiocamente illuminata dalla piccola falce di luna calante.
La serie di colpi sparati a distanza ravvicinata fischiando, impattano contro il suolo e sollevano sbuffi di sabbia, davanti ai suoi piedi.
È stato scoperto.
Ha poco tempo.
Sa che non rivedrà mai più il giorno vestirsi di luce dorata e alimentare la vita.
«Sdraiati con il ventre a terra e le mani dietro la nuca. Veloce!» gli intima una voce dura e autoritaria dall’accento straniero e un numero indefinito di soldati lo circonda.
Nella penombra che lo avviluppa si accoccola in posizione fetale. “È il mio dio che lo vuole… così, almeno, mi è stato insegnato”. Il fiato a lungo trattenuto nei polmoni esce con forza e imprime alle parole un’enfasi rabbiosa «Allah akhbar».
Mentre l’oscurità lo ingoia e si richiude su di lui, all’intorno la notte esplode con un fragore d’inferno tingendo l’alba di rivoli rosso sangue.
©
Cinzia Baldini
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