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Il calcestruzzo
di Lorenzo Spurio
Pubblicato su SITO


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Quel giorno il ministro dell’ambiente avrebbe dovuto pronunciarsi in Senato su una serie di questioni tra le quali una che mi stava particolarmente a cuore e che prevedeva l’abolizione di un progetto articolato finalizzato alla conversione di un parco in un area abitativa. La questione mi interessava per svariati motivi primo tra tutti perché nel quartiere dove abitavo era necessaria una piccola area verde.

Ad una prima analisi poteva sembrare una questione abbastanza comune e molto frequente su tutto il territorio nazionale, tuttavia la popolazione del quartiere e più in generale della città, me compreso, si era fortemente opposta al progetto edilizio di un impresa del nord Italia. C’era stata un’assemblea cittadina ma non era bastata, erano seguiti uno sciopero e poi una fiaccolata. Il sindaco seppur sapeva parlar bene poteva far poco per intervenire nella vicenda. La questione non era d’interesse neanche per la provincia. Ovviamente era una questione dominata dai soldi. L’ostilità di noi abitanti si era fatta palese ed evidente e, contro alla nostra natura di cittadini rispettosi e civili, c’erano stati alcuni episodi di vandalismo notturni che avevano la pretesa di minacciare chiaramente il comune e di mettere in guardia su un azione tanto brutta. Preciso che non sono dei verdi e che non vado in giro nelle piazze firmando per petizioni e per progetti che incrementano l’utilizzo di forme di energia alternative e rinnovabili. Inoltre scarsamente mi pongo tali questioni. Pur essendo un cittadino modello diciamo che non mi interesso ampiamente della migrazione di certi uccelli di nicchia, né vado in giro a valutare il livello d’inquinamento dell’aria basandomi sull’eventuale presenza o assenza di licheni.

Inoltre non avevo intenzione di salvaguardare il parco solamente per permettere a John, un senzatetto perbene e amato da noi tutti, di continuare a vivere li o per evitare che le coppiette non sapessero poi dove appartarsi ma perché il parco c’era sempre stato. Era nostro. Era un’isola felice. Non c’era motivo di abbattere dei pini e degli abeti centenari per permettere a un’impresa di costruire nuove palazzine. Uccidere delle piante per poter far vivere delle persone? Secondo me era un paradosso dover uccidere qualcuno per poter far vivere qualcun altro. Mi ero imposto da subito a quel progetto assassino anche perché non era giusto estirpare alberi tanto imponenti e nobili, saggi per il loro percorso vitale, cosi di punto in bianco per una bizzarria umana. Quell’eden, seppur piccolo, doveva essere conservato. Come me la pensavano in molti nel quartiere. Altri non prendevano nessuna posizione perché non avrebbero tratto nessun giovamento sia nel caso in cui il progetto fosse stato approvato che nel caso in cui fosse stato respinto. Gran parte della gente prende una posizione solo quando ne intravede delle utilità. Meno spesso prende una posizione per pensare a qualcosa che è fuori da se.

Tuttavia quel giorno in parlamento il ministro, di fronte a un nutrito gruppo di senatori di entrambi gli schieramenti, spiegò la questione parlando prima della regolarità del progetto secondo le norme edilizie passando poi a parlare delle resistenze e delle opposizioni incontrate dalla popolazione nei confronti di quel progetto. Cosi come una parte dei miei concittadini non si sono interessati alla questione perché non li tocca da vicino, gran parte dei senatori mostrarono poca attenzione all’argomento. Un senatore della terza fila aveva il cellulare in mano forse intento a mandare un sms alla sua compagna mentre un altro parlamentare, in prossimità del secondo emiciclo, stava leggendo il giornale dove forse, a parer suo, avrebbe incontrato una notizia più accattivante di quella che il ministro stava esponendo.

Quel giorno la questione in parlamento venne solo esposta dal ministro ma i giorni che seguirono ci furono delle trattative tra ministero, comune e l’impresa che evidentemente dovettero finire per essere a favore dell’impresa. La settimana dopo infatti era ormai certo che bisognava dire addio al parco. Coloro che si erano fortemente opposti a quel progetto edilizio si sentirono sconfitti e lesi dalle loro istituzioni. Io e alcuni concittadini, assieme anche al clochard John manifestammo nuovamente per la salvaguardia del parco in presenza di alcune emittenti regionali e nazionali. Decidemmo anche di buttare benzina sul fuoco con alcuni cartelloni con slogan irrispettosi ed indignati nei confronti del comune e della politica in genere. A conclusione di quello che definimmo un funerale ambientale decidemmo di incatenarci ai tronchi di alcuni abeti. Tutto questo non servì a nulla perché alcuni giorni dopo tutto rimase in sordina e iniziarono i lavori.

Quando vidi arrivare gli uomini addetti all’abbattimento degli alberi mi si strinse il cuore e capii che oramai non c’era niente da fare. Non era giusto utilizzare seghe e altri strumenti contro la natura che invece era disarmata. Era una lotta impari. Immaginai nella mia mente che al momento dell’accensione delle seghe elettriche, i rami degli abeti si tramutassero in bracci molto lunghi che afferravano gli operai, li sollevavano e li gettavano violentemente a terra. La natura avrebbe avuto più diritto di mostrarsi violenta. Un colpo di tosse di mia zia mi riportò alla realtà. I primi rami venivano tagliati. Il rumore che sentivo non era quello della sega elettrica ma il lamento di quei poveri esseri inermi che imploravano aiuto. Non potevo far niente per loro e mi venne da piangere. Mia zia vedendomi mi dissi di non essere ingenuo e che gli alberi non avrebbero provato nessun dolore. Avevo trentadue anni e sapevo bene che non era cosi. Ogni ramo che cadeva a terra inerme, ogni albero che rimaneva temporaneamente menomato era un’insanabile ferita che veniva fatta sulla pelle della natura. Il cemento armato e il calcestruzzo non avrebbero annullato il ricordo e il dolore di quegli alberi in quella focosa giornata di fine Luglio.

© Lorenzo Spurio





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