Tutto era cominciato con un sospetto che prima sporadicamente, poi sempre più insistente, si ripresentava alla mente. All’inizio non gli avevo dato peso, poi, di settimana in settimana, il dubbio era divenuto una certezza e, finalmente, convinta avevo chiamato e fissato un appuntamento.
L’aria asettica e le pareti monotonamente bianche e spoglie della stanza mi davano un senso di soffocamento mentre, stringendo con le mani il bordo del lettino, osservavo inebetita il monitor del computer senza comprendere le parole dello specialista.
Ricordo solo il sollievo che provai nell’afferrare la cartelletta che una donna in camice mi porgeva prima di fuggire dallo studio medico.
Rientrai in casa chiudendomi, con un colpo secco e deciso, la porta alle spalle e mi gettai sul letto con tutto il cappotto. Senza accorgermene piombai in un sonno profondo e senza sogni.
Mi risvegliai madida di sudore e più stanca di quando mi ero coricata. Ricordai di aver fatto l’ecografia e, rabbrividendo, anche l’esito dell’esame, che aveva confermato il sospetto, trasformandolo nella paventata realtà.
“C’è tempo,” mi dicevo. “La carriera, i sacrifici per affermarmi, per costruire la mia indipendenza, la voglia di emergere… Non è proprio il momento”.
Avevo temporeggiato convincendo anche mio marito.
«Oltre che circondato d’amore, un bambino ha bisogno di cure, della presenza costante dei genitori e se ora non possiamo garantirgliela, è meglio aspettare» argomentavo con lui a sostegno della mia tesi.
Quando poi, ritenendo di aver pianificato tutto, avevo deciso che era giunto il tempo di diventare madre mi ero resa conto che gli anni erano volati e non ero più una ragazzetta.
Non avevo parlato ad alcuno del mio sospetto, nemmeno con il mio consorte. Non meritavo aiuto, dovevo arrangiarmi da sola.
Avevo deciso che il non riuscire a rimanere incinta fosse la giusta punizione al mio continuo rimandare.
In quello stallo disumano non esistevano stagioni. Tra rimorsi e frustrazioni le ore si beffavano della mia illusione e scorrevano lente.
Il tempo, con insolenza, rendeva l’oggi uno ieri e domani un giorno uguale a quelli che lo avevano preceduto.
«E’ trascorso un altro mese» ripetevo con amarezza appallottolando il foglio del calendario e gettandolo nel cestino della carta straccia.
Inutilmente il sole faceva capolino tra le nuvole, apatica e svogliata abbassavo le tapparelle lasciandolo fuori dalla mia vita.
Mi richiudevo sempre più in me stessa per crogiolarmi in un’autocommiserazione pericolosa e funesta.
La depressione volteggiava sul mio capo come un avvoltoio. Ero una preda pronta da dilaniare e lei attendeva paziente. Non me ne rendevo conto ma presto sarebbe arrivato il suo abbraccio ferale.
Le crisi d’ansia si ripetevano ricorrenti ed io le subivo senza reagire. Non volevo rimanere a galla, persino l’istinto di sopravvivenza esitava ad aiutarmi.
Le sabbie mobili che avevano soffocato la stima verso me stessa mi trascinavano sempre più a fondo fino a farmi perdere il contatto con la realtà.
Il senso di sconfitta oltre a provarmi psicologicamente mi debilitava nel fisico. Ero vistosamente dimagrita e scure occhiaie illividivano il viso.
Anche il lavoro era divenuto un gravame eccessivo, così adducevo scuse o inventavo malori per allontanarmene. Solo il bozzolo delle pareti intime e protettive della mia casa mi dava sollievo.
Sdraiata in poltrona rimanevo per ore, con gli occhi spalancati, a fissare il soffitto.
La mia mente, come una chiocciola, si era ritirata all’interno di un guscio impenetrabile.
Mi detestavo a tal punto da ritenere l’annichilimento fisico, l’unica punizione adeguata alla mia colpa.
Trascurandolo, volevo vendicarmi del mio corpo traditore. Egli era il nemico mortale da sconfiggere, la causa di tutto.
Irrazionalmente ripiegata nelle mie ossessioni, non comprendevo di aver bisogno di aiuto.
Gli sforzi di mio marito per impormi un sostegno psicologico li vedevo come un’umiliazione ulteriore che evidenziavano il mio essere una donna a metà…
Per fortuna in una tiepida serata di primavera la sua caparbietà riuscì ad aggirare le mie difese.
Con tono dolce ma severo mi costrinse ad ascoltarlo. Aveva capito tutto anche se non gliene avevo parlato o forse aveva visto i referti degli esami clinici, ma cosa importava ormai? Non avevo più nulla da perdere. Avevo già perso in partenza e ora, lì davanti a lui, ero pronta ad ascoltare anche la sua sentenza: «La sterilità non è la fine di tutto e in molti casi può essere curata, solo alla morte non c’è rimedio. Da questo preciso istante io e te uniremo le forze e, INSIEME, valuteremo le strategie da adottare» mi disse.
Porgendomi alcuni fogli, aggiunse: «Qua ho annotato i centri per la fecondazione assistita e questi, invece, sono i moduli per la domanda di adozione perché non necessariamente si deve partorirlo un figlio per diventare madre. Smettila di piangerti addosso e decidiamo cosa fare. Il nostro ruolo di genitori comincia da qui».
Le sue parole mi colpirono profondamente.
Ora non era più solo il MIO desiderio di essere madre, ma la NOSTRA voglia di diventare genitori che, in un modo o nell’altro, avrebbe trovato compimento.
Non ero sola come avevo univocamente deciso.
Capitolai, mi sarei fatta aiutare.
“Condividere il percorso dell’esistenza con chi ci ama, è infinitamente meno faticoso che arrancare da soli” mi trovai a riflettere prima di volare tra le sue braccia.