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Sostanzialmente in linea
di Emiliano Bussolo
Pubblicato su PBSE2007


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Il suo impiego era la follia. Questa follia si muoveva all'interno di coordinate sempre espresse da tre frasi che ne definivano lo stato quantitativo: aumentare, diminuire, restare sostanzialmente in linea. Il metro di paragone immutabile era il periodo dell'anno precedente. Queste espressioni all'apparenza scarne erano sufficienti a indicare l'andamento delle vendite del prodotto sul quale ogni mese doveva preparare un rapporto. Le vendite, senza possibilità di errore, aumentavanodiminuivanorestavano sostanzialmente in linea con lo stesso periodo dell'esercizio precedente. Tutto qui.
Si partiva dai numeri, le quantità, e si preparava un documento chiamato Commento nel quale illustrare le variazioni rispetto allo stesso maledetto periodo dell'esercizio precedente. C'erano anche grafici, il problema era che il grafico della sua vita era tondeggiante, sfuggente, denso di sfumature che mal si prestavano a una analisi del tipo aumentadiminuisceresta sostanzialmente in linea. Ci scherzava sopra, anche, ma la colonizzazione mentale non è mai una cosa della quale prendersi gioco, e se ne rendeva conto quando a casa rispondeva al telefono in modo automatico e diceva: "Sì?"
"Ciao, come va?"
"Sostanzialmente in linea" diceva allora.
E ridevano, ma c'erano dentro fino al collo.
Lavorava racchiuso in un cubicolo, e insieme a lui c'erano altre persone, ombre che scivolavano tra i cubicoli e il paradiso artificiale della macchina del caffè. Davanti all'agglomerato di cubicoli si estendeva una grande prateria di moquette grigia, al di là, l'ufficio di Cardone, il capo.
"Hai un secondo?" diceva Cardone e il telefono rimbombava dell'eco delle parole identiche che uscivano dal suo ufficio, oltre la prateria grigia.
Il momento alla fine l'aveva sempre, anche se il più delle volte avrebbe voluto dire "no", oppure "vaffanculo". Il momento comunque lo trovava, allora si alzava, si faceva largo nella distesa grigia e posava le nocche sulla porta aperta. Toc toc.
"Entra."
Il suo capo, occhiali tondi e la bocca troppo grande nella quale versava ogni giorno lattine e lattine di Coca Light, aveva uno speciale modo di porre le domande.
"Portate tutti i capelli corti, qui" domandava magari.
"Cosa?" era l'unica risposta.
"Sì, ho notato che qui portate tutti capelli corti; da me" veniva da fuori "li portiamo più lunghi. Giovedì vado a tagliarli".
"Perfetto."
"Di quanto sono aumentate le vendite in Germania nell'ultimo mese?"
"Cosa?"
E via così; dialoghi equivalenti a testate contro muri, alla fine dei quali lui usciva sempre gravato di nuovi compiti, per i quali non aveva mai tempo.
Oppure Cardone gli chiedeva di chiudersi la porta alle spalle e allora iniziava a tartassarlo con problemi, ritardi o generiche lamentele sul suo atteggiamento.
"Vorrei che chiedessi scusa a Perra, direi che è il minimo."
C'era stata una partitella di pallacanestro e lui, esasperato, aveva detto a Perra, vicepresidente IT, di passare quella "cazzo di palla".
"Hai ragione, Cardone, mi sono lasciato trasportare."
"Sei indietro sul tuo progetto."
Il suo progetto speciale avrebbe dovuto consegnarlo in una settimana di tempo, e nemmeno una riga era stata scritta, nemmeno una pallida idea del motivo per cui, rispetto allo stesso periodo dell'esercizio precedente, le dannate vendite aumentavano o diminuivano o, sostanzialmente, restavano in linea.
Avrebbe dovuto fermarsi più a lungo in ufficio, ricercare, preparare bozze, incuriosirsi, dar peso. Invece, ogni giorno finiva con ritrovarsi sulla metropolitana a valutare, per i primi dieci minuti del viaggio, ciò che avrebbe fatto l'indomani: piani, ricerche, bozze. Ma in fretta tutto il resto prendeva il sopravvento.
Era arrivato alla conclusione che per avere la pace sarebbe stato disposto a perdonare le ore passate a fissare inerte lo schermo, i minuti davanti alla macchina del caffè, i momenti dei discorsi senza senso fatti per scacciare la noia con la noia ancora più vuota del loro contenuto, o quando per dormire si chiudeva in bagno con la sveglia dell'orologio puntata dopo tre minuti.
Gran parte delle volte arrivava a casa, e mangiava rapidamente qualche tramezzino comprato lungo il tragitto dalla stazione al suo portone, gamberetti, uova, maionese, arrosto, tonno, lattuga, pancetta lattuga pane. Sovente un succo di pompelmo. Poi ripuliva la scrivania, accendeva il portatile, e si metteva a studiare i numeri nel tentativo di trovare una relazione, un maledetto filo rosso che potesse fargli capire quello che accadeva. Eppure in testa aveva altro che gli sembrava enormemente più importante e non lo era. Aveva letto che un vecchio si era lessato vivo per l'acqua troppo calda della sua vasca, e a volte pensava anche a quello. Che fosse meno importante non ne era sicuro, di certo non per il vecchio. Era insomma la vita, quel dannato intruso che non riusciva a mettere da parte per preparare infine un rapporto decente, e in tempo. Si preparava un té.
Una sera squillò il telefono.
"Sì?"
"Ciao." Era Spallanzani, un suo collega. Un tipo strano e ordinato, capelli pettinati all'indietro, giacche, camicie sempre stirate, un sorriso ironico che su quella statura sapeva un po' di infido. Una decappottabile sulla quale era stato visto in compagnia di donne e di uomini bellissimi. Forfora.
"Come sei messo con il tuo rapporto?"
"Benone, ci stavo lavorando adesso" disse versando l'acqua calda dal pentolino alla teiera.
"Quasi finito? Io ho finito." La voce di Spallanzani era neutra.
"Nemmeno iniziato a dire la verità. Sono disperato, non mi viene in mente un cazzo. Come cazzo hai fatto ad avere già finito?"
"Lo sapevo. A me le cose vengono, lo sai. Per me è sempre stato così."
"Secondo me, alla fine cominci a crederci, per questo sei così veloce" disse per attaccarlo. Scalpitava. Perdeva tempo prezioso per il suo rapporto, erano già le dieci ed era ancora a pagina zero. Dalla tazza il té fumigava lentamente.
"Senti, dobbiamo parlare. Sai, potrei darti una mano" disse Spallanzani asciutto.
"Cosa mi devi dire?"
"Vediamoci, altrimenti è troppo complicato."
E si videro. La sera dopo. Lui fumava una sigaretta dietro l'altra mentre attendeva Spallanzani nel bar vicino all'ufficio. Fòrmica, vecchie bottiglie di amaro, grappa Nardini. Spallanzani arrivò leggero, parlava al cellulare con qualcuno che gli diceva qualcosa di molto vero, perché rispondeva: "Sì sì sì".
"Ciao." Spallanzani diede un'ultima occhiata al piccolo schermo del telefonino e lo richiuse. Gli cadde a terra un po' di forfora dalle spalline imbottite della giacca.
"Alla buon'ora, ti aspetto da dieci minuti."
"Alla fine sono qui. La vuoi una mano?"
"Come?" D'istinto pensò che Spallanzani volesse rifilargli qualche pasticcona per non dormire o per concentrarsi. Tipo fosforo.
"Devo presentarlo tra tre giorni, e ancora non ho deciso che carattere usare su word." Accese una sigaretta, prese un tiro, sbuffò il fumo. Il solito. Poi guardò il barista e si chiese se una persona normale poteva avere gli occhi così rotondi.
"Io... ho costruito una cosa. Mi aiuta un casino. È sufficiente, ogni sera... qualche minuto. Lo uso da un anno ma non l'ho mai detto a nessuno." Gli occhi incerti di Spallanzani correvano rapidi da un angolo all'altro del bar in un clima da guerra fredda. "Te lo presto" concluse.
"Cosa sarebbe? Ti aiuta a fare cosa? Senti Spallanzani, io ho quel rapporto da fare. Se vuoi darmi una mano, ok, altrimenti prendo un'altra birra e vado. Cos'è?"
"Emette raggi" disse Spallanzani
"Emette raggi" ripeté lui. "Allora siamo a posto. Raggi x? Hai costruito una macchina per farti le radiografie? Ah be', sei un genio. Io però mi sento bene, non ho bisogno di radiografie." In realtà, quando era in ufficio la pancia gli si gonfiava e premeva contro la cintura...
"Senti, è difficile da spiegare. Vieni da me."
Andarono da lui. La casa di Spallanzani fu una sorpresa, abitava in una zona nascosta, molto verde, in una palazzina di tre piani. Strano che non ci fosse ancora venuto.
"Hai qualcosa da bere?"
"Cosa vuoi? Devo avere delle birre e del vino."
"Birra. Che marca hai?" domandò per infastidirlo.
"Ho delle birre. Se ne vuoi una è lì." tagliò corto Spallanzani e indicò il frigo. Sopra ci aveva attaccato inviti di discoteche e biglietti di concerti; da uno, un volto ammiccante di donna diceva: "Please come". "Andiamo di là" disse, "lo tengo in camera da letto" disse.
"Cosa?"
Spallanzani era già in camera, reggeva in mano un oggetto quadrato e bianco grande circa due pacchetti di sigarette, sopra c'era una piccola lampadina a fiammella, come quelle dei ceri elettrici che si mettono sopra le tombe. La lampadina era spenta, e forse anche la mente di Spallanzani, pensava lui. Aveva già finito la birra. Tornò in cucina a prenderne un'altra. Spallanzani era rimasto lì, con l'oggetto appoggiato sui palmi delle mani e l'aria smarrita.
"Che ne dici?" disse quando lui tornò.
"Cos'è?"
"Il motivatore."
"Buonanotte, Spallanzani, devo andare" disse lui che cominciava anche ad avere un po' paura. Voleva mettere tra sé e Spallanzani una distanza enorme, enorme come la grande prateria grigia. Rimase.
"Lo accendi, lo guardi per un po', e domani, in ufficio, sei un'altra persona. Attivo. E il rapporto lo fai in due ore. Basta che lo guardi per dieci minuti, di solito concilia anche il sonno."
"Spallanzani, con tutto il bene che ti voglio, credo tu sia un po' fuori. Bevi?"
"Si capisce. Tu no?"
Non rispose. Accese una sigaretta.
"Ti spiace non fumare?" disse subito Spallanzani.
"Scusa." Sfregò la sigaretta contro il bordo di un bicchiere di carta mezzo pieno per far cadere la parte incandescente, la rimise nel pacchetto, ne sentì l'odore nauseante, la tirò fuori, la spezzò, la gettò nel bicchiere.
"Accendilo, dai. Vediamo" disse.
Spallanzani avvicinò a sé la macchinetta. La guardò. Sfregò l'interruttore, poi disse: "Facciamo così. Te la presto. È sufficiente che la accendi e guardi la lampada per dieci minuti. Nient'altro. Prova. Per me ne ho un'altra, più potente" fece una pausa "quella lì non mi serve più. Dammi solo i soldi per il materiale."
Alla fine pagò. Era stanco, voleva andare a casa, in più aveva perso un sacco di tempo con quella stronzata. Chissà quanti té si sarebbe potuto preparare. Ma se c'era una cosa al mondo che odiava, questa era il tè. Alla fine pagò.
Arrivato a casa tolse la scatoletta dalla tasca della giacca e la appoggiò sul tavolo in cucina, sedette e rimase a guardarla per un po'. Ghignava. Spallanzani doveva essere andato del tutto. "I soldi dei materiali." Per ventimila lire aveva comprato una specie di candela da cimitero. Mise su l'acqua per il té, andò alla scrivania e non pensò più alla scatoletta. Guardava lo schermo, adesso. L'odore del té in infusione che saliva dalla grande tazza vicino al monitor lo stomacava. Alzò le braccia e si piegò all'indietro contro lo schienale per stirare la schiena; in quella posizione riusciva a vedere il tavolo della cucina e, sopra, il motivatore. Bella stronzata. Suonò il telefono.
"Allora? L'hai provato?" era Spallanzani.
"Come no. Pazzesco. Ho capito tutto" rispose lui.
"Vaffanculo. Fa' come ti pare." Riattaccò.
Guardò di nuovo il motivatore. Non riusciva a crederci. L'aveva comprato sul serio. Si sentiva come quella volta che aveva comprato una batteria di pentole in televisione. La domanda, in effetti, come in quel caso era: "Perché?" Altro che sostanzialmente in linea. Diminuiva nettamente, lui, in caduta libera. Inoltre dormiva poco, un po' per insonnia e un po' perché preferiva stare sveglio, ma quasi mai le due condizioni si presentavano simultaneamente. Buttò nel lavandino il té ormai freddo, si tolse i vestiti, li appoggiò sulla sedia, andò a letto. Di dormire, però, non se ne parlava, allora decise di riflettere. Di pensare.
Eppure si sentiva inquieto, allora tornò in cucina e versò acqua in un bicchiere. Il motivatore era sul tavolo, e lui sedette sulla sedia più vicina per esaminarlo. Lo prese in mano, lo guardò, attaccò la spina.
Alla fine cosa cambiava?
Tanto valeva provarlo, e magari funzionava davvero. Lo mise davanti a sé, premette l'interruttore e la luce si accese. La luce della lampadina non era intensa, che male poteva fare guardarla? Che male poteva fare crederci?

© Emiliano Bussolo





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