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Il cibo ed io
di Carlotta Reboni
Pubblicato su SITO


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Anche oggi sono grassa, nasco grassa, muoio grassa, qualsiasi cosa faccia rimango grassa.
E’ una ossessione che mi accompagna da una vita, quasi dalla nascita…mah, senza esagerare da quando ero all’asilo, da quando per la prima volta ho avuto la sensazione che il mio corpo non andasse bene, che io non andassi bene, sempre a disagio nel mio corpo per colpa del mio corpo.
Alla fine tutto viene sempre ricondotto a questo, a questo rapporto così difficile con se stessi che si traduce poi nell’aspetto fisico, nel proprio fisico. Penso che per molte donne sia così, forse per tutte, alcune lo sanno e altre non lo sanno.
“stai benissimo” ecco, questo è mio marito, con la frase forse peggiore che un uomo possa pronunciare -stai benissimo-ma cosa vuol dire?  lo so anche io che non sto male, che non sono malata, che non sono una grande obesa, ma non vuol dire che io sia bella, che sia in forma, che sia magra, vuol dire “vai anche bene così” e quell’ ‘anche’ è la parola di troppo, che poi è brutto pure “vai bene così” come a dire che io non possa ambire ad una situazione migliore… 
“ma dai cosa vuoi che dica più di così, non si vede niente, no, non sembri ingrassata, sono cose che vedi solo tu, stai bene e sei bella, basta”
“no, non è vero, non è per niente vero, mi sento un ippopotamo, succede sempre così se mangio carboidrati alla sera, lo sai benissimo e poi che sono bella lo dici solo per zittirmi”
“vabbè pazienza, ti passerà, domani non ci penserai neanche più” figurati se domani non ci penso più, un illuso proprio. Mi sento una mongolfiera con le gambe pesanti, la pelle che mi tira, la pancia gonfia, ho una faccia come una torta di compleanno e questo sarà ciò che mi aspetta per i prossimi giorni. Questo e solo questo.
E così questo è il mio presente, il mio passato, il mio futuro. Una vita passata quasi solamente a valutare il mio corpo, a cercare di accettarlo, come tutti gli analisti dicono di fare, senza però mai riuscirci, un fallimento quotidiano che si trasforma nel fallimento di una vita.

La mia storia comincia da molto molto piccola.

“Ha la tendenza ad ingrassare, c’è poco da fare” era la frase tipica di mia madre “lei mangia e ingrassa subito, si vede immediatamente, non è una bambina come le altre, non può mangiare come gli altri…lei diventa subito grassa, assimila troppo”

“Adesso vediamo un attimo, facciamo una visita completa e poi ne parliamo” cercava di prendere tempo il dottore mentre mi sentiva il cuore…chissà che c’entrava poi il cuore, dio solo lo sa. Spogliati, girati, fatti misurare, fatti pesare, il tutto naturalmente senza chiedermi se volessi, venivo trattata come un pacchetto. A quei tempi era così, non c’erano le delicatezze che ci sono oggi per i bambini, eri una specie di cosa a cui nessuno chiedeva il consenso. Ecco appunto: “io non vedo niente che non vada signora” il medico a mia madre, a me nessuno rivolgeva mai la parola, il dialogo era solo tra gli adulti anche se riguardava la piccola cosa presente,  “forse la bambina ha solo un po’ di appetito, ma mi sembra una bambina del tutto normale” “beh, certo che è normale, nessuno dice che non sia normale, ma il problema è che lei ingrassa subito quando mangia, si vede subito intendo se ha mangiato. Può darci magari una dieta da seguire? Io poi gliela faccio fare, la controllo io”, ecco, a questo punto il medico si arrendeva e il fatto che fossi normale era, per mia madre, una conferma che non ero speciale, che non ero superbella ma “normale” una qualsiasi, una che tendeva a diventare grassa, come tutto il proletariato del mondo, non come la superstar che sarei dovuta diventare secondo i suoi acuti calcoli. Venivo dimessa con la dieta, indipendentemente dal fatto che ne avessi bisogno o meno. La dieta l’avevamo, il medico si era arreso abbastanza in fretta, in fin dei conti a dieci anni un paio di chili in più secondo le tabelle classiche la bimba poteva anche averli, male non faceva…e invece male avrebbe fatto.
“cosa stai facendo Caterina?” mia madre con voce accusatoria mentre ci fissava in piedi, appoggiandosi alla credenza con il sedere, sua posizione privilegiata di osservazione;
“sto contando la pasta, sono 13 penne” 
“non osare mai più fare una cosa del genere, come se non ti dessi da mangiare. Tu mangi sai? Tu mangi più che a sufficienza, non pensi ad altro”
“Alessia ha il burro e io no, la mia pasta ha solo il pomodoro” 
“Alessia può mangiare un pezzettino di burro perché è magra, vuoi dimagrire o no? Nessuno è mai dimagrito mangiando il burro” il pezzettino di burro era davvero un pezzettino. Anche mia sorella, magra come un fringuellino non aveva diritto a più di un pezzettino di burro, io invece, la pagnotta di famiglia, avevo diritto a “niente” e di niente dovevo accontentarmi. E non potevo neanche lamentarmi perché tutto ciò veniva fatto per il mio bene ed era anche una fatica per tutta la famiglia: per mia madre che doveva controllare tutto anche se non richiesto, per mia sorella che si sorbiva queste sgridate, questi discorsi e quest’aria tesa da mancato obiettivo prestazionale, per mio padre che doveva sempre mangiare con una figlia col muso a tavola. La figlia ero io.

I giorni proseguivano così, io li contavo perché pensavo che più ne fossero passati, più mi sarei avvicinata al fatidico obiettivo da scalare, ovvero la mia magrezza finalmente raggiunta: sarei diventata magra e bella e i problemi si sarebbero risolti, tutto sarebbe andato in maniera normale e io non sarei più stata la bambina diversa.
Ma le cose non andarono esattamente come erano state da me pensate, anzi. 

***

Dopo parecchi anni mi accorsi che stare sempre a dieta, mangiare le due tristi fette biscottate con la marmellata a colazione e portarsi tre cracker e mezzo a scuola per merenda, non era proprio il sogno della mia vita e pur non avendo altri sogni nella vita cercai di capire comunque come liberarmi almeno parzialmente dal giogo cui ero sottoposta. 

Ogni giorno era uguale al precedente e ogni mattina mia madre mi faceva sostare tre secondi sull’ingresso della cucina prima di farmi entrare per la colazione così poteva analizzare se ero dimagrita rispetto al giorno prima. Se notava qualcosa che poteva anche solo vagamente insospettirla, cominciava una serie di domande a raffica, stile inquisizione spagnola per cui alla fin fine qualcosa da confessare si trovava sempre “un grissino dalla mia amica Barbara”, “mezzo panino con la marmellata dalla nonna”. La situazione si stava lentamente trasformando, assumeva una propria vita e percorreva una strada che non era stata da me assolutamente prevista, la strada della malattia mentale, dell’ossessione di mia madre per il mio corpo e per la mia fisicità.

“Dove stai andando?” esordì mia madre un pomeriggio, vedendomi vicino alla porta con la borsetta a tracolla;

“Da nessuna parte, vado a fare un giro” 

“Hai finito i compiti?”

“Sì certo, avevo poco da fare per domani, comunque sto fuori solo un’ora”

“Va bene, torna presto e non mangiare mi raccomando”

Ecco, le altre ragazzine si sentivano dire “fai la brava” e io invece mi sentivo dire di non mangiare, c’era qualcosa di anomalo nella mia vita, ma non me ne accorgevo, pensavo che anche gli altri vivessero così e pensavo che “diventare magri” fosse il sogno di tutti. L’ossessione di tutti, come era la nostra. 

Appena fuori di casa mi precipitai in panetteria, mi piaceva molto la panetteria sotto casa mia perché aveva qualcosa di familiare: ci eravamo sempre andati, compravamo quattro panini per quattro persone, poi tre perché io non potevo più mangiarlo, sempre gli stessi panini e sempre nello stesso posto. Le commesse erano due, una un po’ grossa, l’altra no ed erano molto gentili e sempre sorridenti “per forza che quella è grassa, se una fa la panettiera lo diventa di sicuro, non diventare così eh” e io “no, no” sempre a rassicurarla, fin da quando avevo 10 anni.

“Dimmi Caterina cosa desideri?” Cosa desideri, che bella frase. Io avrei avuto un sacco di desideri, che non avevano niente a che fare coi panini ma intanto compravo quelli “sei panini al latte per piacere e poi due brioches, un cono gigante al cioccolato, due paste con la crema e un pacco di biscotti alla farina gialla”

Ed ecco raggiunto il mio obiettivo, solo che poi dovevo trovare un posto per mangiare queste cose e di sicuro non potevo farlo a casa, in presenza di mia madre che sarebbe impazzita. No, era completamente da escludere, non potevo neanche andare in un altro posto, tipo a scuola o da mia nonna, non se ne parlava neanche. In passato giravo spesso per la città mangiando mentre camminavo, mi facevo dei bei pezzi di strada e fingevo di guardare le vetrine dei negozi, così nessuno badava più di tanto a me, andavo sempre in un posto particolarmente riservato all’interno di un cortiletto quasi privato dove c’era un negozio di biancheria per la casa, lì rimanevo un pochino nascosta, girata verso le vetrine e quindi con le spalle alla strada, in modo che quasi nessuno potesse vedermi, ma di sicuro non potevo rimanere lì in eterno, dopo un po’ cominciavo a sentirmi a disagio. E quindi ecco una illuminazione: sotto il portico in piazza dei Martiri, la piazzetta era centrale, vicina e il portico quadrato sul lato della piazzetta che ne copriva solo una parte, con due panchine al suo interno, mi dava anche una certa protezione. Che fantastica idea, coi miei pacchetti mi diressi verso la piazzetta a passo pesante, il mio. Panchina nascosta, un po’ di odore di pipì, forse di cane o forse no, un po’ di penombra e io seduta lì sopra, con aria depressa che sgranocchiavo le mie cosucce e intanto pensavo, perché mentre mangiavo i pensieri mi si affollavano nella mente, come se avessi tolto il tappo da una bottiglia troppo scossa e uscisse tutta la schiuma all’improvviso: la mia vita triste, la scuola troppo difficile per una che aveva già tanti problemi in casa, i discorsi settimanali di mia madre sull’importanza di essere magri: “io ti devo proteggere da te stessa, io ho il compito di farti arrivare magra all’età adulta, è il mio compito come madre: vuoi diventare una donna grassa? Vuoi essere grassa da grande? Le donne grasse non si sposano, lo sai? Oppure trovano solo gli uomini che le altre non vogliono, perché è anche ovvio: un uomo, tra una donna grassa e una magra, chi credi che sceglierà? Una magra. Una donna magra. E quindi quella grassa rimane senza niente, capisci? Io lo faccio per te, solo per te, per il tuo futuro. E’ questo il compito di una madre.”

In tutto questo discorso, che mi veniva ripetuto con foga, c’era comunque qualcosa che non mi tornava, c’era qualcosa che non mi convinceva, ma non sapevo bene cosa fosse. Diciamo che non le credevo, non sapevo cosa volessero gli uomini e anche io pensavo che nessuno volesse una donna grassa, ma nonostante questo, mi sembrava che il discorso in sé fosse troppo scarno di informazioni per farne la base della propria esistenza.

Dopo essermi divorata le mie provviste, con bocconi avidi e quasi senza respirare, tornavo a casa dove mi attendeva “madre”. “Madre” pretendeva di essere baciata appena varcata la soglia di casa, il bacio di Giuda, così lo chiamavo perchè io sapevo benissimo che era il suo sistema per sentire il mio alito: anche dalla guancia riusciva ad annusarmi, a sentire se avevo “mangiato”. Questo verbo “mangiare” che portava con sé qualcosa di lurido e abominevole, facendo diventare lurida e abominevole anche me, da repulsione. Andai in camera, non potevo chiudermi dentro perché le chiavi erano state tolte dalla serratura: perché io e mia sorella avremmo dovuto chiuderci dentro? Non c’era niente da nascondere, in una famiglia non c’è bisogno di chiudersi dentro!

Ormai era ora di cena e io, con le mie provviste in pancia non avrei potuto mangiare uno spillo di più, ma d’altra parte saltare la cena non era possibile, sarebbe equivalso ad una ammissione di colpa quindi mi sedetti senza aprire bocca, di fronte a mia sorella, nella nostra cucina, col tavolo bianco di legno apparecchiato per due: “oggi hai la minestra di funghi, mezza mozzarella e il cavolo lesso con un cucchiaio di olio…non spandere l’olio Caterina, un cucchiaio è un cucchiaio, se lo spandi diventano due cucchiai!” urlando “se continui così non dimagrirai mai!”. Parole sacrosante, non sarei mai dimagrita perché ogni mia cellula era protesa a non dimagrire, a contrastare madre in questa battaglia contro il mio corpo.

Dopo il secondo cucchiaio di minestra sentii che non ce la potevo più fare, non potevo andare avanti, il mio stomaco non poteva reggere quella quantità di cibo, era troppo nella mia pancia. La pancia ormai sembrava un otre, gonfia e dura, piena. Non entrava più niente, mi si era alzato anche il seno, teso sopra la pancia tesa anch’essa. Non sapevo come fare, non potevo arrendermi così perché si sarebbe capito che avevo mangiato al pomeriggio. Posai il cucchiaio, era finita. “Cosa c’è? Perché non mangi” una domanda che non era una domanda ma una affermazione “hai mangiato fuori vero? Cosa hai mangiato per non finire neanche la cena? Una quantità enorme di cibo” mia madre, con tono accusatorio lievemente urlato, che non lasciava scampo. In questi casi meglio non rispondere, non parlare per niente, il mutismo è l’unica strada percorribile. “non capisci che diventi sempre più grassa? Non lo vedi? Io più di farti la dieta e controllarti non posso fare, io non posso fare niente per te, se potessi prendere i tuoi chili su di me lo farei, ma non posso. Ce li hai tu, non posso prenderli io. Se non fai la dieta non dimagrirai mai. Mai. Tu non sei come gli altri capisci? non puoi mangiare, non puoi… semplicemente non puoi. Devi pensare ad altre cose, devi fare altre cose, basta pensare al cibo, non pensi ad altro tutto il giorno. Sei tu che mangi, è colpa tua se sei così e rimarrai sempre così se continui a mangiare…guarda che tette che hai, hai due tette così” e si mise le mani davanti al busto per mimare due palloni davanti a sè…Ecco, ora avevamo passato il segno e io me ne andai, con le lacrime agli occhi mentre mia sorella, sottovoce le diceva “questo non avresti proprio dovuto dirlo, mamma”

*** 

Ormai ero arrivata ai 16 anni, età critica sotto tutti i punti di vista ma per me in particolare: l’argomento fisicità era esploso, ero molto rotonda, una ragazza con curve morbide, volendosi esprimere in modo benevolo o grassotta volendosi esprimere in modo sincero. Io cercavo di coprirmi in tutti i modi e di arginare il mio corpo che mi pareva fosse assolutamente fuori controllo. Mi imbacuccavo in vestiti lunghi e improbabili, con spalline imbottite per sembrare più slanciata e golfini sottilissimi che non creassero ulteriore spessore, il momento di apice è stato raggiunto scocciandomi il seno con il nastro adesivo da trasloco in modo da comprimere il corpo tanto da sembrare una specie di ballerina, come io pensavo, o di tronco come pensavano gli altri.

“Andiamo a comprare qualcosa da metterti, non hai più niente di nuovo Caterina” esordì Madre.

Oddio, mi toccava uscire per andare in un negozio di vestiti e mi toccava anche provarli e farmi vedere con delle cose addosso. Vabbè ce l’avrei fatta in qualche modo, e poi così, in fin dei conti, mi sarei guardata allo specchio a figura intera, cosa che non mi succedeva da mesi. Ormai non sapevo più che aspetto avevo e non sapevo più come fosse il mio corpo.

“Vuoi uscire Caterina da quello spogliatoio per piacere?” no, non volevo. I jeans erano troppo stretti e lo spogliatoio era anch’esso troppo stretto per cui io mi vedevo a dieci centimetri dallo specchio, la situazione peggiore possibile: le mie gambe ciccione riflesse non entravano dei pantaloni che, a loro volta, rifiutavano di salire oltre metà coscia.

“Questi non mi entrano…” in realtà ero io che non entravo nei pantaloni, io che non ci stavo in una taglia piccola, io che ero troppo grassa per provare i bei vestiti che mia mamma voleva comprarmi.

“Ci fa provare questo body per favore signorina?” mia madre usava il plurale anche se ovviamente chi doveva provare ero solo io, non penso fosse per mostrare empatia quanto invece per dare l’idea di pluralità, noi due che ce l’avremmo fatta a indossare quei vestiti che volevamo assolutamente comprare; a questo punto però successe un imprevisto, la signora oppose un rifiuto “no, signora, mi dispiace, non darò il body a sua figlia perché non è della sua taglia e più grandi non li ho”.

Mioddio, la commessa insinuava che non sarei potuta entrare in un vestito individuato come idoneo da madre e decretava pure, come effettivamente era, che mi sarebbe servita una taglia più grande, un affronto difficile da digerire per Madre. “Invece le entra, signorina. Glielo faccia provare che poi vediamo, lei ha questo difetto del seno grosso ma la vita ce l’ha magra sa ” e quel signorina ripetuto ad ogni frase doveva essere una sorta di umiliazione indiretta, usato al posto di “commessa” o al posto “donna proletaria che non ha studiato”, ma la signorina, che probabilmente era la proprietaria del negozio, mantenne la decisione e noi ce ne andammo a casa con le pive nel sacco.

“Non voglio più che tu dica che ho un difetto” io, finalmente a casa dopo l’ennesima esperienza da perdente nel negozio

“Cosa intendi scusa, non capisco” madre ribattè e non si capiva se facesse finta di non ricordare o non ricordasse davvero

“Intendo che non voglio che tu dica che il mio seno è un difetto, come hai fatto oggi pomeriggio con la tipa che non voleva darmi il body”

“Beh ma scusa cosa vuoi che dica? Lo è, è un difetto…cosa sarebbe allora?”

Ci pensai un attimo, no non lo era, io ero fatta così, era una parte di me, il mio seno non era un difetto “Non è un difetto…è una caratteristica”. Ecco madre era stesa, non aveva mai pensato che le sue idee potessero essere interpretate in una maniera diversa dalla sua: per la prima volta mi ero difesa.

***

“Allora ti sei decisa con questo vestito? Siamo pronti finalmente?”

Che poi in realtà quella puntuale della coppia sarei io, mica mio marito “sì, dai, sì. Andiamo, sono pronta ma non stressarmi …aspettami in macchina”

Gli incontri di famiglia a casa mia sono sempre un delirio: mia mamma è già nervosa una settimana prima, mia sorella tesissima perché anche lei poveretta non sa mai cosa l’aspetta, mio papà se non è nervoso difficilmente percepisce la tensione, il marito mio e di mia sorella subiscono l’atmosfera agitata senza più di tanto farsi notare, ma comunque risultano entrambi abbastanza irritanti.

Ecco, sono a casa: l’ingresso molto ampio prende tutto il piano, appunto il piano terra, con mobili antichi e marmo rosa per terra, saliamo le scale, io con aria affannata come sempre e siamo nel lussuosissimo salotto: divani azzurro cielo e panchette ricoperte con tessuto dorato, è bello vivere in una bella casa e quando ci si abitua non è facile vivere diversamente, la tavola ovale molto grande è apparecchiata con una tovaglia in bianco e oro e i piatti con il profilo verde chiaro fanno un contrasto molto piacevole, bicchieri col bordo d’oro e argenti di ogni tipo ci circondano, è un Natale nel lusso, ma in fin dei conti la nostra è stata una vita nel lusso.

Mia mamma è vestita benissimo come sempre: un abito blu scuro lungo fino al ginocchio, con una decorazione bianca che segna il profilo del collo e delle maniche e una giacchetta bianca e blu sopra, sembra Jackie Kennedy, uno dei suoi miti. Io in confronto adesso sembro una barbona…ma poi arriva mia sorella e l’atmosfera migliora.

“Eccovi, che bello!! Che bravi a ricordarvi il dolce!! Anche io ne ho fatto uno comunque” Mia mamma con voce talmente acuta che è già un miracolo che non si rompano i bicchieri in salotto.

Come sempre è elegantissima e devo dire ancora molto bella.

Mia mamma è riuscita, pur senza utilizzare chirurgia plastica, a rimanere imbalsamata per trent’anni, non ha una ruga e, a settant’anni, ha ancora i boccoli biondi come Schirley Temple, tutti abbiamo provato a dirle che non guasterebbe un filo bianco tra i capelli, considerato anche il fatto che entrambe le sue figlie sono già brizzolate, ma non c’è stato spazio per alcun dialogo.

“A tavolaaaa!” sempre mammina, quasi cantando un’operetta.

Il pranzo è sempre buono, sempre perfetto, con una tensione strisciante ma un dialogo ormai rodato: siamo tutti rodati, sappiamo cosa funziona, cosa si può dire e cosa no. Quali sono gli argomenti che ci fanno stare in una zona di pace calcolata: “Ho visto la zia la settimana scorsa, mi sembrava stanca poveretta, mi ha detto che non va in va in vacanza dagli anni ‘80” dico ridendo un po’.

“Lei si lamenta sempre, lo sai come è fatta, comunque se tua cugina non le desse sempre e dico sempre da tenere i suoi figli, avrebbe un po’ più tempo per sé. La loro famiglia funziona così in ogni caso, io glielo ho detto un sacco di volte di prendere la baby sitter ma non ascoltano mai nessuno, nessuno in quella famiglia ascolta nessuno” ecco, mia mamma: in una frase sola, come di consueto, riesce ad insultare sia mia zia che mia cugina per chiudere poi con un insulto globale a tutta la famiglia. 

Poi tocca a noi essere rimesse a posto: “Alessia perché hai i capelli di quel colore? Stavi così bene bionda…cambi sempre, non c’è bisogno, quando uno trova il proprio colore poi deve tenerselo. Vabbè comunque fai quello che vuoi” anche questa è una tecnica, la tecnica della mano elastica: butta il sasso e poi si ritira velocemente. Io più di tanto invece non vengo verbalmente insultata, basta lo sguardo indagatore, lo sguardo materno contaettogrammi: è vero, indubbiamente sono ingrassata, due chili, niente da dire, naturalmente tutto viene fotografato senza pietà. Bastano uno o due secondi, basta un suo sguardo e sai già, hai la certezza di essere ingrassata, come a Paperon de Paperoni si legge il simbolo dei dollari negli occhi, a mia madre si legge Kg nella pupilla. 

“Vado a prendere i dolci!” esclama mia madre un po’stizzita. Sì perché la mia è la famiglia delle contraddizioni: il dolce c’è però non bisognerebbe mangiarlo, è buono e deve piacere a tutti però non fa bene, mia mamma lo cucina però non vorrebbe poi portarlo in tavola; torna solamente col nostro dolce in mano e un’aria un po’scioccata: “mmma chi ha mangiato il monte bianco? Non ce nnn’è più” dice con aria veramente sconvolta. Oddio è successo l’impossibile: qualcuno ha distrutto il suo piano e soprattutto si è mangiato il dolce, o meglio, uno dei due dolci come io faccio notare: “vabbè ma il nostro c’è, ce n’era un altro?” “Sìì!” dice mia madre con tono secco: “avevo fatto un piccolo Monte-Bianco e ora non c’è più, c’è solo un cucchiaio sporco sul piatto semivuoto”. Oddio, una cosa del genere è un affronto in casa nostra, non è mai successa una cosa di questo tipo. Mia sorella, dopo una breve esitazione, si decide a parlare “Ehm, forse sono stata io…non pensavo fosse per tutti, cioè era così piccolo che pensavo che fosse per una persona sola” “e quella persona hai creduto di essere tu!” con aria accusatoria e un tono di voce da soprano, come quando si agita. 

Ecco, siamo un po’ molto a disagio tutti, ma mia mamma interviene perché non le piace che tutti sappiano che c’è un problema, che il problema riguardi il cibo e che mia sorella sia in grado di mangiarsi un dolce da sola a tempo perso: “vabbè comunque non importa, mangiamo quello di Caterina…e non parliamone più”. Come cambiano le cose, come cambia la vita. O forse no.

© Carlotta Reboni





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(2) Il cibo ed io di Carlotta Reboni - RACCONTO
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