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Il suo nuovo mezzo di trasporto lo soddisfaceva proprio alla grande. Era una bolla trasparente con una piattaforma che conteneva due comodi posti, uno dei quali aveva davanti i comandi. La cupola trasparente poteva esser ritirata e lasciava il veicolo scoperto. La carrozzeria era di una materia plastica gradevole al tatto. Il modulo scorreva con un sistema antigravitazionale al di sopra del terreno e poteva anche sollevarsi di una diecina di metri. Attraversava pure le acque che era una meraviglia. Una targhetta metallica incastonata sul retro della carrozzeria recitava:
AZULH (O)
999c.a.
Lui aveva interpretato, forse correttamente, che si trattasse d’un modulo di trasporto polivalente con quella sigla, AZULH© che sicuramente era il marchio di fabbrica e l’iscrizione dell’ultima riga stava a significare la durata della sua autonomia energetica, 999 anni circa, per l’appunto. Dunque era un mezzo a tecnologia avanzata, forse nucleare con un’autonomia praticamente infinita. Lui l’aveva trovato molto tempo prima, abbandonato nel bel mezzo di un deserto assieme a molti altri. L’area doveva in passato essere proprio di parcheggio, poiché sotto la sabbia si scorgeva un manto d’asfalto che aveva disegnati degli stalli per la sosta. Era giunto con una grossa moto a tre ruote che funzionava a carburante liquido, s’era fermato incuriosito e aveva cominciato ad interessarsi a questi veicoli. N’aveva toccato uno con mano e aveva avvertito un lieve ronzio interno. Il primo sul quale aveva provato ad entrare s’era chiuso ermeticamente e la cupola aveva perso la propria trasparenza trasformandosi in una barriera metallica impenetrabile. Col secondo aveva avuto più fortuna, era entrato e s’era posto ai comandi. Tirando a sé la cloche il mezzo s’era mosso, dopo essersi sollevato da terra d’una diecina di centimetri aveva proseguito in avanti aggirando gli ostacoli che incontrava. Stringendo più forte la cloche aumentava la velocità, rilasciandola il modulo si fermava, postandola all’indietro s’alzava, in avanti s’abbassava. C’erano vari led sul cruscotto, bastava toccarli e s’accendevano le luci, s’abbassava la cupola, s’andava a marcia indietro. Lui rimase estasiato da quel mezzo e dopo averne provato a lungo i comandi vi caricò sopra il suo zaino e il contenuto delle sacche della moto. Abbandonò la moto e proseguì con la bolla per la sua strada. Lui si spostava, si spostava sempre, un tempo a piedi o con l’autostop, talvolta sui mezzi pubblici e poi in moto. Anche quella l’aveva trovata al limitare d’un insediamento, forse era stata abbandonata, ma più verosimilmente l’aveva rubata. Da quanto tempo era in viaggio? Non lo sapeva, o meglio, non lo ricordava. Se ne era andato dal suo villaggio ancora adolescente, ricordava che c’era stata una battaglia e molti erano morti, o forse tutti, lui prima si era trasformato e aveva atteso a lungo, poi era fuggito da quei luoghi che intanto s’erano mutati in selva. Uscito dal bosco aveva trovato abbandonata una di quelle piattaforme volanti simili agli antichi shakebord, un giocattolo uguale a uno che i suoi gli avevano regalato. Dopo un paio di giorni però il giocattolo s’era scaricato e lui aveva dovuto arrangiarsi, comunque era scampato al pericolo anche se aveva dovuto attendere a lungo. Qualche volta nella sua errabonda esistenza s’era fermato, ma poi era dovuto sempre ripartire, forse questo era il suo scopo, o forse questo era dovuto a quel trauma iniziale della distruzione del villaggio della sua infanzia. I posti che visitava erano sempre diversi e mai era tornato nel solito luogo. Ricordava città avvelenate dalle loro fabbriche con strade intasate da veicoli maleodoranti, ricordava immense distese di prati con mandrie di bufali e greggi di pecore, ma la maggior parte dei luoghi era formato da deserti assolati, inariditi dalla calura e attraversati da cespugli rotolanti. Ricordava un immenso opificio abbandonato da ere e abitato da pericolosi mutanti, ricordava città viventi che chiudevano ogni passaggio al suo apparire. Aveva imparato ad evitare le città e anche le fabbriche, così tra le campagne cercava le fattorie e in queste trovava riparo e ristoro. S’offriva per lavori d’ogni tipo, riparava le macchine, lavorava nei campi. Spesso rifletteva sulla sua sorte, non ricordava in nome del villaggio dal quale era stato costretto a fuggire e neppure dove esso si fosse trovato e sapeva di non avere alcun nome: questi due fatti gli avevano procurato non pochi problemi nel passato. Così s’era dato un nome, Lambert – l’aveva visto scritto su un vecchio cartello pubblicitario abbattuto dai venti – e cominciò a dire a tutti di provenire da una fattoria vicino a Londra che si chiamava Victoria. La fattoria anni addietro l’aveva vista distrutta coi propri occhi. Con l’identità che s’era dato tutto si fece più semplice e inoltre aveva imparato molti trucchi per continuare il suo viaggio. Aveva, infatti, imparato a sfruttare delle caratteristiche particolari che i suoi simili non possedevano o che non erano capaci d’usare. Ma gli altri erano poi davvero suoi simili? Se pensava “forte” qualcosa gli altri lo comprendevano, se pensava un ordine, questo veniva eseguito, non sempre, ma quasi. Se non voleva esser visto, nessuno notava il suo passaggio. Dove s’usava ancora la moneta, lui faceva l’atto di pagare e questo soddisfaceva il commerciante o il commesso che pure delle volte gli dava il resto. Quando voleva esser ospitato, bastava lo desiderasse e subito veniva accolto come un amico o uno di famiglia. Nel suo peregrinare aveva incontrato innumerevoli linguaggi, gli bastava star un po’ ad ascoltare e poi comprendeva perfettamente ogni idioma. Erano così tante le sue avventure e i luoghi visitati che più volte aveva il dubbio di trovarsi su qualche altro pianeta. Così ebbe il dubbio che il suo vagabondare non si limitasse ad una sola Terra; s’era, infatti, imbattuto in territori troppo alieni per esser compresi in un unico pianeta. Il cielo con due lune, un sole morente con lande desolate che sembravano estendersi all’infinito o una luna enorme che dava l’idea che stesse per precipitare. Anche quell’enorme fabbrica abbandonata doveva trovarsi in un mondo altro. Si era ritrovato anche in una strana contrada i cui abitanti avevano degli inquietanti occhi bianchi piatti, come se portassero delle lenti, qui era stato ben accolto, ma poiché avvertiva un pericolo latente, se n’era velocemente andato. S’era anche ritrovato a camminare per lungo tempo lungo una spiaggia che sembrava proprio non avesse mai fine: lungo questa spiaggia aveva trovato altri viaggiatori, che i rari abitanti di quel posto chiamavano “caminante” .Adesso strava attraversando un paesaggio d’una bellezza inaudita, una strada sterrata si snodava tra colli coltivati a vite e ulivi. Dopo una serie di curve scorse in lontananza una grande fattoria in mattoni rossi composta di più edifici. Non tagliò per le coltivazioni ma proseguì lungo la strada sicuro che questa avrebbe portato al casolare più grande. Giunse, infatti, in un ampio piazzale in terra battuta ove erano parcheggiate numerose macchine agricole, c’erano anche dei moduli simili al suo ma muniti di ruote. Una fontana al lato della piazza inviava il suo zampillo d’acqua ad una vasca di pietra. S’avvicinò alla vasca, bevve un’acqua cristallina, si ripulì accuratamente dalla polvere del viaggio, poi dal modulo estrasse un paio di jeans, una t-shirt bianca, un paio di scarpe da ginnastica. Con calma si cambiò e s’avviò a piedi verso il casolare al fianco del quale sorgevano serre, stalle, silos…Girò davanti al portone d’ingresso e batté alcuni colpi con le nocche della sua mano. Dopo alcuni minuti la porta s’aprì. Un robot domestico lo stava osservando con aria interrogativa. “Cerco ospitalità anche in cambio di lavoro”, lui disse in italiano, dato gli sembrava proprio d’essere in Italia, forse in Toscana, almeno il paesaggio gli sembrava proprio quello. Il robot fece lampeggiare i suoi occhi e iniziò a parlargli in un linguaggio sconosciuto. “Puoi ripetere più lentamente, prego?” disse lui e il robot proseguì con la sua strana parlata. Dopo soli alcuni minuti cominciò a comprendere ciò che gli stava dicendo: ”…non mi sembri del tutto umano, anche se avverto amicizia. Ti classifico come tipo socievole, anche se con molte funzioni. Non sei neppure un robot. Sei un cyborg, un impiantato, un avatar o un simulacro? Non ho in file le tue configurazioni.”
“Penso d’essere umano, forse con qualcosa in più o di diverso, non so caro Z-932 (aveva letto la targhetta) mi chiamo Lambert e sono nato in una fattoria nei pressi di Londra che ha nome Victoria. Non chiedermi gli anni perché ne ho perso il conto.”
“Rilevo l’87% di falsità nei dati che mi hai fornito e forse qualcosa di più. Ma i miei sensori ti definiscono affidabile, umano, mutante o cyborg che tu sia. Per questo ti faremo entrare e penso che potrai trovare qui ospitalità, almeno per un po’. Se poi sai trattare i cavalli, qui il lavoro non manca. Seguimi, ti accompagno alla tua stanza.”
“Forse sarebbe meglio che tu avvertissi i proprietari della mia presenza.”
“Sono al corrente di quanto sta accadendo, sono sempre in contatto simstim con loro.”
“E chi sono questi proprietari? Puoi dirmelo?”
“C’è un’unica proprietaria, la Signorina.”
“La Signorina? Puoi dirmi di più di lei?”
“La incontrerai a cena, adesso seguimi.”
“Ok! E per inciso, so trattare i cavalli.”
“Considerati allora assunto.”
Si avviarono entro la sala, raggiunsero le scale, il robot si fermò danti ad una porta e l’aprì. Lui entrò, il robot prima di andarsene gli chiese se voleva che fossero portati i bagagli che aveva lasciato sul modulo. Lui disse di sì. Si guardò attorno, la stanza era accogliente, muri bianchi con stampe appese, pavimento in cotto, due poltrone, un armadio, uno specchio, un letto abbastanza grande quasi a due piazze. Si tolse le scarpe e si sdraiò sul letto, chiuse gli occhi e modulò il respiro con le tecniche di rilassamento che ben conosceva. Pensò al suo interminabile viaggio, alle molteplici avventure. Alla mente s’affacciarono le mille domande che non avevano mai avuto risposte. Chi era lui? Da dove proveniva? Perché sentiva sempre il desiderio di muoversi? Ritornò a molto tempo addietro, al suo villaggio che l’aveva visto crescere…ma questo villaggio non era abitato da soli umani. C’erano anche altri come lui, che potevano variare di forma, erano questi molto giovani e in pubblico assumevano le sembianze di ragazzi, ma quando erano da soli… Poi successe qualcosa, un massacro: lui prima si trasformò in un albero, poi riprese sembianze umane, ma dopo molto tempo, quando tutto era stato cancellato e il villaggio era divenuto una foresta da albero si trasformò in un adulto e dopo un lungo vagabondaggio si ritrovò in una città densamente abitata, ove centinaia di migliaia di persone abitavano e conducevano la loro esistenza in questa città tecnologicamente arretrata. Usavano animali ma anche antichi mezzi maleodoranti per spostarsi e per farsi aiutare nei loro lavori, la vita scorreva semplice e felice, ma tutto era irrimediabilmente inquinato. Trascorse molto tempo in questo posto e fu lì che decise d’assumere una forma totalmente umana, solo più tardi comprese le differenze dei due sessi e perfezionò la sua identità maschile. Dovette passare ancora molto tempo prima che provasse attrazione per l’altro sesso. In questo luogo lui s’accasò con una femmina, non aveva ancora assunto il nome di Lambert, lì lo chiamavano semplicemente Straniero. Ma il suo vagare non era iniziato in questa città che aveva il nome di Ur, ma molto prima, comunque i suoi ricordi non riuscivano a spostarsi più indietro del villaggio che l’aveva visto bambino: aveva visioni, ma tutte contraddittorie o palesemente false. Aveva assunto e perfezionato le sembianze umane, avrebbe potuto radicalmente mutare la sua forma come un tempo sapeva di poter fare? Non ne era sicuro, si sentiva totalmente stabile e il più lieve mutamento lo spaventava solo all’idea. Immerso in questi pensieri il sonno lo raggiunse.
“Signor Lambert, tra dieci minuti la cena sarà in tavola, se vuol prepararsi per scendere, il suo abito è sulla poltrona. Grazie.”
Si risvegliò e si guardò attorno, non c’era più nessuno nella stanza. Il robot doveva essersene subito uscito. I suoi bagagli erano in un angolo e su una poltrona era poggiata una veste di color blu e un paio di sandali di pelle. I pantaloni e la casacca blu non avevano l’aria di una tuta, ma sembravano più un abito da cerimonia, la stoffa poi al tatto pareva seta. Una porticina, che prima non aveva notato, era socchiusa e dava in un piccolo bagno. Si tolse gli abiti, cercò tra la sua roba l’occorrente per radersi, si recò in bagno, fece una doccia…prese poi in mano la serica veste blu e la indossò, calzò poi i sandali, si guardò allo specchio, scese verso il piano terra ove pensava si trovasse la sala da pranzo. La trovò subito, c’era un lungo tavolo apparecchiato coi due posti ai lati più lontani del tavolo stesso. Il robot gli indicò ove sedersi, giunse poco dopo una giovane dai lunghi capelli rossi abbigliata con una lunga tunica bianca.
“E così saresti Lambert di Victoria, vicino a Londra!”
“Sì. E so come trattare i cavalli.”
“Vedremo come te la caverai.”
“Tu sei la Signorina, hai un nome?”
“Un tempo ero chiamata in molti modi, ma ora sono la Signorina per tutti, e anche per te dovrà bastare.”
“Chi manda avanti la fattoria?”
“Zeta.”
“Il robot multifunzione che ho conosciuto?”
“E’ lui che provvede a tutto.”
“Da solo? Mi sembra impossibile, ho visto serre, silos, stazzi con gli animali, campagna coltivata…”
“Ci sono i contadini, è ovvio. Zeta è quello che tu a Victoria avresti chiamato un fattore.”
“I contadini cosa sono? Umani?”
“In parte, appartengono alla razza dei lemuri, un tempo erano i signori, quasi degli dei. Abitavano in quella che veniva chiamata la Città Eterna, ma poi col tempo sono divenuti apatici, sono lenti e non parlano. Ma comprendono tutto quello che a loro si dice e compiono le funzioni che gli vengono assegnate con molta calma, ma in modo perfetto.”
“Sarò curioso di conoscerli.”
Zeta intanto aveva portato alcuni vassoi d’argento con fette d’arrosto di vari animali. C’erano anche delle verdure fritte e condite. Il cibo era accompagnato da alcune caraffe contenenti un liquido ambrato, dal leggero sapore fruttato, molto dissetante, ma anche leggermente alcolico, s’avvide Lambert dopo averne bevuto un paio di bicchieri. Dopo gli arrosti e i contorni Zeta portò un vassoio pieno di frutta e, dopo quello due piccole tazze di un liquido nero profumato. Lambert l’assaggiò, non era tè e neppure caffè, ma possedeva un sapore estremamente gradevole. Durante il pasto lei aveva voluto sapere come si svolgeva la vita a Victoria e lui descrisse tutto ciò che s’era immaginato di quel luogo quando doveva essere abitato. Durante la conversazione lei si soffermò sui luoghi che si trovavano attorno alla fattoria. A tre giorni di cavallo c’era ciò che rimaneva della Città Eterna, le rovine erano racchiuse in una valle circondata da alte vette. A una settimana di cavallo dalla Città sorgeva una lamaseria abitata da un centinaio di bonzi. Oltre, lei non era mai andata, ma si diceva che se si seguiva una pista tracciata e delimitata da petroglifi, dopo un mese di viaggio a cavallo si raggiungeva il mare, ove c’era un villaggio di pescatori. Se s’attraversava il mare in breve si giungeva a un’isola ove sorgeva un palazzo che conteneva un’immensa biblioteca nella quale erano raccolte tutte le opere e le memorie dell’umanità. Lambert non disse nulla al riguardo, ma si ripropose che avrebbe verificato di persona queste storie, ma a suo tempo. Adesso aveva bisogno di riposo e la permanenza nella fattoria sarebbe stata lunga. Sempre che lui ci si trovasse bene. Avrebbe intanto ripreso i suoi viaggi anche durante la sua permanenza qui. Aveva un modulo che andava assai più veloce dei cavalli. Alla fine del pranzo la Signorina lo congedò dicendogli che al mattino avrebbe iniziato il suo lavoro d’accudire i cavalli. Zeta lo accompagnò nella sua stanza augurandogli la buona notte. Notò un piccolo libro posato sul letto, lo prese in mano, lo sfogliò. Le pagine avevano la consistenza di sottili lamine metalliche, si soffermò sulla copertina, c’era disegnato un pentacolo azzurro, l’immagine era tridimensionale e in movimento: il pentacolo lentamente ruotava in senso orario. Sotto l’immagine, il titolo e l’autore: “L’Aleph” di Jorge Luis Borges. Sul retro l’editore AZULH©, poi più sotto in piccolo “131a edizione”, mancava la data e il luogo di stampa. Si sedette sul letto e lesse l’introduzione: “Un pensiero insieme lucido e appassionato guida questi racconti, nei quali un’invenzione ardente e temeraria tocca, con esito spesso drammatico o patetico, temi universali: il tempo, l’eternità, la morte, la personalità e il suo sdoppiamento, la pazzia, il dolore, il destino. Temi universali uniti al sentimento dell’unicità irripetibile dell’esperienza individuale, in uno scrittore che si presenta innanzi tutto, sotto l’aspetto dell’eleganza”. Si accorse che la scrittura era quella normale che lui aveva trovato in quasi tutti i suoi vagabondaggi e che la lingua era quella in uso correntemente nel continente europeo, una mescolanza d’inglese e radici latine. Scorse poi l’indice dei racconti, sfogliò di nuovo le pagine dal tatto metallico, lesse una pagina aperta a caso e infine riposò il libro. Si spogliò e si sdraiò mentre le luci della stanza al solo suo desiderio s’affievolirono fino a spegnersi del tutto. L’uomo che si faceva chiamare Lambert si risvegliò di primo mattino, si rimise i suoi vestiti e scese al piano terra. Zeta l’attendeva e una abbondante colazione lo aspettava sul tavolo. Gli fu poi indicato il recinto dei cavalli. Lo raggiunse e quattro lemuri lo stavano aspettando. Cercò di parlare con loro, ma come gli era stato detto questi se ne rimasero muti anche se rimasero ad osservarlo. Anche lui cercava di capirli meglio mentre lo accompagnarono ai box che erano occupati dai cavalli. I lemuri gli ricordavano alcuni indio che aveva conosciuto nei villaggi andini: bassi, con corti capelli neri, occhi neri anch’essi. C’era una ventina di cavalli nei loro stalli e cinque se ne stavano liberi nei prati circostanti. Lambert non seppe identificare a quale razza appartenessero, sicuramente a nessuna di quelle che lui conosceva: erano troppo alti e il loro manto troppo lucente. Più lontano nel pascolo scorse un pegaso che stava dispiegando al sole le sue enormi ali. Rimase a bocca aperta a guardarlo, aveva sentito molto tempo addietro parlare degli esperimenti d’ingegneria genetica compiuti dagli antichi che avevano ricreato questa razza, ma non ne aveva mai visti. Sapeva anche che c’erano in giro animali mitologici e chimere. Rimase a lungo ad osservare il pegaso che continuava a distendere una alla volta le sue ali al sole, quasi volesse sgranchirsi e preparare i suoi muscoli ad un imminente volo. Era la prima volta che vedeva un animale sì bello e nobile che pareva uscito dalla più antiche fiabe. Gli fu sufficiente la prima mattina di lavoro per comprendere come la sua presenza fosse del tutto inutile: i lemuri malgrado la loro lentezza e la loro apparente indolenza, sapevano benissimo come trattare i cavalli. Al pomeriggio si fece sellare un cavallo bianco e girò attorno alla fattoria che risultò essere molto più vasta di come lui se l’era immaginata. I giorni passarono velocemente, per non apparire del tutto inutile collaborava talvolta al lavoro dei lemuri, ma più spesso cavalcava nei dintorni. Un giorno si spinse fino a scorgere la possente cinta della Città Eterna. La sera rientrava in villa e Zeta era sempre ad attenderlo, come se conoscesse il momento esatto del suo rientro, la Signorina invece non si fece mai incontrare. Lambert cenava e poi giocava un po’ con Zeta, a carte, a dama, a scacchi, ma la cosa non era divertente perché Zeta lo lasciava quasi sempre vincere. Barava a suo favore in maniera troppo sfacciata. Una TRI-TV era in una sala, ma dai canali solo raramente usciva qualcosa e, quasi sempre si trattava di notiziari che parlavano di cose lontane e non interessanti per Lambert. Intanto altri libri erano stati portati nella sua camera. C’era anche un lettore che ad ogni tocco mostrava la riproduzione di un’opera d’arte: quadri, grafiche di vari autori, alcune delle quali fu in grado di riconoscere, altre no. Le immagini mutavano sempre per non ripetersi mai. Zeta non era un buon conversatore e le sue risposte erano brevi e laconiche. Talvolta sosteneva di non conoscere le risposte o più probabilmente non voleva fornirle. Sempre si rifiutò di dire ove fosse la Signorina o quando si sarebbe rivista. I pegasi erano due, una coppia, ma non appartenevano alla fattoria: avevano un nido sulle vicine colline e venivano per star assieme ai cavalli. Lambert, malgrado i molteplici tentativi, non riuscì mai ad avvicinarli. Un giorno chiese a Zeta se poteva assentarsi dal lavoro per qualche giorno: voleva visitare la Città Eterna. Zeta gli rispose che poteva farlo, Lambert allora un po’ per celia – questa ferraglia non si muove mai dalla Villa - gli chiese se avesse voluto accompagnarlo. Rispose che ne sarebbe astato onorato, al che Lambert gli disse:”Domattina allora di buon ora partiremo, fatti trovare sul mio modulo e carica provviste per una settimana”. Al mattino trovò la colazione sul tavolo e di Zeta non c’era traccia in casa; allora si diresse al modulo sicuro di trovarlo lì, ma con sua grande sorpresa accanto al posto di guida era seduta la Signorina, bellissima con un top trasparente e minipant in pelle che non lasciavano spazio all’immaginazione. Calzava degli stivali alti fino al ginocchio che sembravano di pelle di serpente. Lui rimase in silenzio a fissarla, mezzo fuori e mezzo dentro il modulo. Poi gli tornò la voce.
“Mi aspettavo di trovarci Zeta.”
“Lo preferivi?”
“No, certamente!”
“Dal cambio allora ci hai guadagnato.”
“Sì, preferisco un umano.”
“ E’ un’affinità istintiva, no?”
“Certo.”
“Stai dicendo stronzate: tu non sei umano e non lo sono neppure io. I lemuri di umano hanno poco e gli animali sono animali. Nella fattoria chi s’avvicina di più all’uomo è Zeta che fu costruito a sua immagine e somiglianza e i due pegasi che hanno un patrimonio genetico in parte umano.”
“…”
“Sei rimasto senza parole? Dai partiamo con questa tua bolla. Non sono mai entrata nella Città Eterna, ma con te mi sa che scoveremo un passaggio.”
Lambert avviò il modulo e si diresse verso la Città Eterna, in silenzio stava riflettendo su ciò che la Signorina gli aveva detto. Che lui non fosse del tutto umano l’aveva sempre saputo, forse era un mutante, ma lei sembrava una donna al cento per cento; se è per questo anche lui ormai si sentiva un uomo al cento per cento e per lei provava un’attrazione sessuale molto forte. Tra l’altro lei doveva possedere molte delle risposte alle sue domande. E poi lui aveva preso l’abitudine a trattare gli altri con un nome; se n’era scelto uno anche per sé, no?
“Allora, visto che staremo assieme per un po’ e, la cosa tra l’altro mi fa molto piacere, guardiamo di darti un nome decente:Signorina non va proprio bene!”
“Da lungo tempo tutti mi chiamano così.”
“Non è un nome, è una condizione:una volta si chiamavano così le ragazze da marito.”
“Non ho mai sentito la necessità di cambiarlo.”
“Guarda, qui ho L’Aleph, il primo libro che tu o Zeta m’avete lasciato.”
“Io, forse…”
“Ok, osserva, adesso lo prendo, lo sfoglio e il primo nome femminile che trovo sarà anche il tuo.”
“Metti la guida automatica o finiremo fuori strada.”
“Perché chiami strada questo viottolo pieno di sassi e cespugli?”
“Un tempo lo era.”
“Non so mettere in automatico, ti va bene così? O vuoi guidare tu?”
“No, dammi il libro, lo sfoglio io, il primo nome femminile che leggo, sarà il mio: contento?”
“Mi sembra giusto.”
Passò L’Aleph alla donna e lei si mise con impegno a sfogliarlo. Trascorsero vari minuti poi infine trovò un nome femminile.
“Emma Zurz, ecco un nome di donna. Ci ho messo tanto perché nelle prime pagine sono citati solo maschi.”
“Emma allora. D’ora in avanti tu ti chiamerai Emma: è un nome antico e anche decente.”
“Decente? Senti, l’hai letto il primo racconto di questo libro?”
“Sì, c’è la città degli Immortali e gli Immortali ricordano i nostri lemuri. Però sorge su un altopiano, mentre la nostra città e nel bel mezzo d’una valle. Comunque le somiglianze sono molte: per questo m’hai procurato questo libro?”
Lei non rispose e rimase muta ad osservare il panorama che scorreva attorno al modulo. Giunsero alla Città Eterna e girarono attorno alle possenti mura. Anche se si vedevano in parte diroccate, non trovarono alcuna apertura e nessun appiglio. Superarle in volo era impossibile, il modulo non si spingeva così in alto. Si fermarono in un prato davanti a lisce pareti di roccia, anche nel punto più basso delle mura la bolla era giunta solo fino alla metà dell’altezza necessaria per scavalcarle. Alzarono una tenda e scaricarono le provviste che s’erano portati dietro. Si distesero al sole e colei che era stata or ora chiamata Emma si tolse i suoi pochi abiti e giacque accanto a lui.
“Come sai che non siamo umani?”
“Lo so e basta.”
La conversazione fu breve e qui terminò perché assieme intrapresero l’antico rito dell’amplesso finché il sonno non li colse entrambi. Si risvegliarono davanti alle mura, ma grande fu la loro sorpresa quando si resero conto che si trovavano all’interno della Città. Davanti a loro stretti viali, torri, ponti e abitazioni, e poi ancora torri e abitazioni di fogge strane che ricordavano le città murate medioevali. Le ricordavano soltanto, perché avevano un che d’alieno. Tutto era abbandonato, tutto era diroccato, ma non in modo grave. Attraversarono vari passaggi e anche tunnel che foravano le costruzioni, ma non c’era alcun ingresso visibile per accedere all’interno di esse. Giunsero ad una piazza, forse nel centro della città, ad un lato di essa vi era una grande cupola metallica che però lasciava intravedere cosa vi fosse all’interno: incomprensibili scatole metalliche rettangolari di varie dimensioni che sembrano accatastate casualmente. Lambert accostò una mano sulla superficie della cupola e avvertì la sensazione che essa possedesse una forte carica magnetica. I peli della sua pelle si drizzarono. Anche lei incuriosita appoggiò le sue mani. S’avvertiva un lontano ronzio che proveniva dall’interno e sembrava scendere nelle più profonde fondamenta della Città. Adesso erano certi che la Città li stesse osservando, con interesse, ma al momento senza reazioni. Sempre a lato della piazza c’era una piccola fonte che zampillava. S’avvicinarono e assaggiarono l’acqua che ne sortiva: aveva un leggero sapore fruttato come quello delle bevande della fattoria. Per precauzione l’assaggiarono appena, ma quel piccolo sorso tolse ad entrambi istantaneamente sia la sete sia la fame. Si sedettero su gli scalini di pietra della fonte e rimasero incerti se proseguire l’esplorazione. Come sarebbero usciti? Forse ad un loro risveglio si sarebbero ritrovati all’esterno, o forse no, la Città li avrebbe trattenuti. Emma non si sentiva in contatto col suo robot, come abitualmente lo era, cercò allora con una piccola trasmittente di comunicare con Zero, ma non ebbe alcuna risposta. Attesero e giunse la notte portando costellazioni diverse da quelle abituali. Entrambi pensarono d’esser stati spostati o nel tempo o nello spazio. La temperatura era rimasta gradevole come se la Città proteggesse se stessa dai rigori della notte. Al mattino, dopo un breve sonno, si ritrovarono nella piazza, non all’esterno come avevano sperato. Emma riprovò a chiamare Zeta, ma non ebbe alcuna risposta. Bevvero alla fonte e ripresero l’esplorazione della Città alla ricerca d’un passaggio verso l’esterno o di qualche accesso che li portasse all’interno degli edifici. Giunsero ad una torre di pietra molto grande e alta, di pianta quadrata; nel mezzo di uno dei lati c’era un incavo che ricordava una porta rettangolare, ma anche questa era composta della solita pietra dell’intera costruzione. Davanti all’immagine in granito della porta c’era sul selciato uno spazio quadrato di circa un metro per lato rialzato d’una diecina di centimetri. Entrambi salirono su questo e all’improvviso con una velocità incredibile si trovarono catapultati sulla sommità della torre. La velocità era stata molto elevata ma loro non avevano minimamente risentito dell’aumento di gravità. C’era un terrazzo molto ampio con alberi dagli strani frutti. Una piccola fontana zampillava. Lo spazio a disposizione sulla sommità della torre aveva dell’incredibile, sembrava almeno dieci volte più grande di come apparivano i basamenti. Era un giardino a tutti gli effetti, il panorama che si scorgeva dal bastione era superbo. Un parapetto alto circa un metro delimitava il giardino dal vuoto. Insetti alati e grandi farfalle multicolori andavano incessantemente da fiore a fiore, da cespuglio a cespuglio. Dopo aver ammirato le bellezze del grande giardino pensile si avvidero che la piattaforma che li aveva trasportali lassù era tornata a terra. Erano forse in gabbia? Era questa la prigione che la Città aveva loro riservato? Inutilmente Emma insisté col trasmettitore, da quell’altezza avrebbe dovuto funzionare benissimo, ma questo non successe. Il panorama comunque era quello giusto, solo la notte le stelle erano aliene. I giorni passarono e loro si sentirono i novelli Adamo ed Eva nel giardino dell’Eden. Facevano l’amore tutti i giorni, ma non per questo ne furono scacciati. Un albero aveva frutti all’apparenza e al gusto di mele, li mangiarono sorridendo chiedendosi dove fosse finito il serpente. Erano in trappola, però Zeta prima o poi sarebbe venuto a cercarli, ma quanto tempo sarebbe occorso ai suoi circuiti per provare la sensazione simulata della preoccupazione? Non lo sapevano, non lo potevano sapere. I giorni trascorsero lenti e loro ne persero il conto o forse avevano perso l’interesse a contarli. In mancanza di meglio potevano soddisfare ogni esigenza di coppia, la fonte li ristorava, un piccolo laghetto li rinfrescava, i prati erano soffici, le notti clementi, i frutti tutti commestibili…Un mattino all’improvviso si ritrovarono due pegasi che brucavano l’erba a pochi metri da loro.
“Ce ne possiamo andare!” esclamò Emma, lei conosceva e sapeva come trattare questi superbi animali. Lambert per la prima volta riuscì a vederne uno da vicino e a toccarlo, alla fattoria mai avevano permesso che lui s’avvicinasse. Era enorme, grande più del doppio dei cavalli e le sue ali erano coperte da gigantesche piume dello stesso colore del manto: i pegasi obbedivano a Emma e lei gli dette tutte le indicazioni su come cavalcarli e come si dovesse afferrare per non cadere. Salirono sul parapetto che cingeva il giardino pensile e da questo saltarono in groppa agli animali volanti. I pegasi non appena loro furono ben saldi, si gettarono giù dalla torre e spiegando le loro smisurate ali scesero in cerchio attorno all’edificio che alla loro partenza sembrò risvegliarsi e vibrare: udirono poi schiocchi e sibili mentre s’allontanavano. Lambert chiuse gli occhi mentre gli animali scendevano in cerchi concentrici e quando li riaprì i pegasi erano atterrati accanto al loro modulo, fuori delle mura. Saltarono sull’erba mentre la città si stava ridestando. I pegasi s’alzarono nuovamente in volo e s’allontanarono veloci con pochi colpi d’ala, in un attimo erano solo due puntini nell’azzurro cielo. Anche loro s’affrettarono a ripartire lasciando lì tenda e provviste poiché anche le mura adesso stavano vibrando e alcuni massi stavano precipitando: la città non aveva gradito la loro fuga. Mentre stavano allontanandosi due nubi nere s’addensarono sopra la Città e fulmini iniziarono a baluginare. Un forte temporale si scagliò contro di loro con violenti colpi di vento e mulinelli ma il modulo proseguì come niente fosse lungo la strada del loro ritorno. Al rientro nella fattoria trovarono Zeta che li stava aspettando, aveva preparato un’abbondante colazione per due.
“La gita è stata di vostro gradimento?”
“Zeta vuoi prenderci in giro?”
“Il volo coi pegasi è stato tranquillo?”
“Allora sei stato tu a mandarli?”
“Certo. Sono il robot di casa. Devo accudire ai suoi abitanti.”
“Non ti chiediamo come hai fatto a capire che ci occorreva aiuto. Però potevi mandarli prima, no?”
“Volevate una settimana di vacanza. Vi ho lasciato solo qualche giorno in più. C’è qualcosa che non va, Signorina?”
“Non mi chiamo più Signorina, da questo momento mi chiamo Emma.”
“Sempre come desidera Signor…pardon! Emma! Un attimo devo cambiare il nome in tutte le memorie…fatto! Ho comunque, se v’interessa, elaborato tutte le varie probabilità dopo aver perso ogni contatto con voi. E al novantanove virgola qualcosa per cento voi dovevate esser bloccati in Città. Al settantotto virgola qualcosa per cento voi eravate sulla grande torre. La Città intrappola tutti gli intrusi proprio lì e normalmente li rilascia dopo un paio d’anni.”
“Allora tu conosci la Città Eterna. Ci se mai stato?”
“La risposta è sì a tutte e due le domande.”
“Perché non ci hai detto nulla?”
“Non mi avete chiesto nulla in merito.”
“Va bene. Ma perché la Città è stata abbandonata?”
“Non sono autorizzato a rispondere a questa domanda.”
“E se ti chiedessi di rispondere lo stesso?”
A questo punto Zeta sembrò modificare i propri lineamenti, s’accesero dei led sul suo corpo e assunse un’aria minacciosa. Con una voce ben diversa e impersonale non molto amichevole aggiunse: ”Area riservata. Scandire codice d’accesso, prego”.
Lambert fece un tentativo e lesse la sigla sulla sua targhetta: “Zeta 932”.
“Codice errato” risuonò ancora più minaccioso “avete un altro ultimo tentativo per indicare il codice esatto.”
Intervenne Emma e considerando che Zeta era sempre più sinistro disse: ”Richiesta annullata, richiesta annullata”.
Le luci di Zeta si spensero all’istante e svanì subito l’aspetto minaccioso. Con la solita voce amichevole chiese se ciò che aveva preparato fosse di loro gradimento. Più tardi Lambert si recò nell’area riservata all’allevamento dei cavalli: tutto era in perfetto ordine e tutto filava liscio. Quei peones che venivano chiamati lemuri e che forse erano i discendenti degli antichi immortali, signori della Città Eterna, sapevano alla perfezione il fatto loro a dimostrazione che la presenza di Lambert era solo un optional. Fuori dai box un pegaso trotterellava indisturbato. Lambert s’avvicinò e l’animale lo lasciò fare. Lo carezzò sul muso e lui sembrò gradire. Adesso i pegasi si lasciavano avvicinare da lui, ne fu contento.
“Ragazzi sono tornato!” disse ai peones che indifferenti lo stavano osservando e uno di loro mostrò appena un cenno del capo. Era la prima volta che rivelavano di notarlo. Così si mise a lavorare con loro nel trasporto di alcune balle di fieno. La sera divise il cibo coi lavoranti nel capannone che abitualmente loro usavano come mensa. Alcuni lemuri portarono i vassoi col cibo. La metà di questi erano femmine e avevano lo stesso aspetto dei lavoranti: basse, brutte, con neri capelli tagliati corti. Le femmine si distinguevano solo perché portavano ampie sottane dato che anche le tette erano ben poco apparenti. In un angolo della sala c’era un piccolo pianoforte e malgrado fosse lucido come nuovo, Lambert ebbe il presentimento che non funzionasse e che non fosse mai stato usato almeno nelle ultime centinaia d’anni. La cena si svolse nel più assoluto silenzio, anche nel cibarsi sembrava proprio che evitassero di emettere qualsiasi rumore. Finito che ebbe, s’accese una sigaretta tolta da un pacchetto regalo di Zeta, e s’avvicinò al piano. L’aprì e iniziò a provarlo: alcune note erano sballate e alcuni tasti non funzionavano proprio. Decise che l’avrebbe fatto sistemare dal robot e malgrado il cattivo funzionamento intonò alcune canzoni mentre i lemuri lo stavano osservando. Le sue dita si mossero su e giù per i tasti almeno per un’ora. Spesso scuoteva la testa per la nota dal suono sbagliato e per i vari tasti muti ma riuscì ugualmente a proporre vari pezzi del repertorio dei Beatles che conosceva più o meno a memoria. Quando smise, nessuno fece alcun cenno, ma lui intuì che la sua musica era piaciuta.
“Scusatemi per le stonature e per le note mancanti. Ma domani lo farò sistemare e ne tirerò fuori qualcosa di meglio.”
Si alzò, nessuno applaudì, ma l’attenzione era concentrata su di lui. Fece un inchino leggero e mentre usciva dal capannone decise che avrebbe anche chiesto a Zeta di procurargli degli spartiti, avrebbe così potuto suonare per i lavoranti un po’ meglio. Tornò alla villa, cercò Emma ma non riuscì a trovarla, chiese allora di lei a Zeta che gli rispose che lei era presente in villa solo quando lo desiderava. S’accontentò della risposta sibillina e si recò nella sua stanza; aspettò Emma quella notte, ma lei non venne. Nei giorni successivi Lambert chiese a Zero se fosse in grado di sistemare il piano e di procurargli degli spartiti, la musica classica sarebbe andata bene, ma se fosse riuscito a trovare qualcosa dei Beatles…Zero lo assicurò che avrebbe sistemato lo strumento e che avrebbe fatto cercare gli spartiti richiesi e molto probabilmente lui glieli avrebbe portati tra quattro o cinque giorni. Lambert fu sicuro che il robot avrebbe provveduto al meglio e quando gli spartiti fossero arrivati si riservò di chiedergli come aveva fatto ad ottenerli. Ma qualcosa lui già sospettava: c’era un hangar, tra quelli più distanti dalla fattoria, dal quale in continuazione uscivano piattaforme cariche di merci e anche i prodotti che loro producevano se ne andavano da quella via. Un giorno a cavallo si recò alla porta di quell’hangar e quando entrò uno strano marchingegno lo colpì. C’era un arco che sembrava fatto di luci: le merci in quel momento stavano entrando sotto l’arco e dall’altra parte di questo non usciva proprio niente: un trasmettitore di materia, questo doveva essere. Nell’hangar c’erano solo i soliti peones e chiedere a loro sarebbe stato solo fiato sprecato. Così dopo aver osservato per un po’, se ne tornò alla villa, trovò Zero e a lui chiese notizie dell’arco. Gli confermò che trasmetteva e riceveva in altre postazioni, ma dove e come questo era sempre stato un compito dei lemuri. Anche Emma l’usava per i suoi spostamenti personali, quali che fossero lui non lo sapeva. Lambert però insistette e così venne a sapere che lei passava la maggior parte del suo tempo nella sua città, a Lud. Dove fosse Zero non lo sapeva, ma disse che si trovava in un altro altroquando. Lambert lo ringraziò per esser stato prodigo d’informazioni, almeno questa volta, e per non avergli detto “non in memoria” o “codice d’accesso, prego”. I led di Zero lampeggiarono accennando un sorriso. Lambert se ne stava già andando quando il robot gli disse:”Ma non ti interessano più gli spartiti?”
“Certo che m’interessano!”
“Allora in camera tua c’è un pacco, per te.”
“Grazie Zero, quando non pretendi i codici sei un angelo!”
“Un angelo?”
“Lascia perdere.”
Lambert si recò subito nella sua stanza e sul letto c’era un pacco di spartiti, tutti per piano: lesse uno ad uno i titoli: “Piano Jazz” di Nino de Rose, “12 suonate” di Clementi, “Michelle” dei Beatles, “Strawberry Field Forever” dei Beatles, “23 pezzi facili” di G.S.Bach, “Nocturnes” di Chopin, “Marcia turca” di Beethoven, “Hay Jude” dei Beatles, “Lady Madonna” dei Beatles, “Danza ungherese n°6” di Brahms, “Berceuse” di Chopin, “Canto senza parole” di Ciaikowski, “Magical mystery tours” dei Beatles, “Help” dei Beatles, “Doctor Robert” dei Beatles, “Yellow submarine” dei Beatles, “Lucia di Lammemour” di Donizetti, “Carnevale di Venezia” di ignoto, “L’usignolo” di Liszt, “Revolution” dei Beatles, “Yesterday” dei Beatles, “Tanhauser” di Wagner, “Eleaor Rigby” dei Beatles e “Penny Lane” sempre dei Beatles e altri.
Alcuni spartiti erano stampati su carta ingiallita, altri erano su quei fogli dalla consistenza metallica. Su tutti gli spartiti, anche su quelli cartacei, c’era il marchio AZULH©, scritto piccolo in fondo a destra sull’ultimo foglio. Iniziò a sfogliarli con invidia e li divise in due: da una parte mise la musica dei Beatles e dall’altra i rimanenti autori. Rilesse ancora una volta i titoli e rimase soddisfatto anche per la buona presenza della musica dei Beatles.
La sera mentre i lemuri stavano mangiando in silenzio nella loro sala lui si mise al piano e attaccò col “Carnevale di Venezia”, passò a Liszt e poi ai Beatles, qualcosa si ricordava anche a memoria e poi Donizetti, insomma suonò per quasi due ore mentre il tempo per lui pareva essersi fermato tanto si stava immedesimando in ciò che suonava. Era ormai dimentico di dove si trovava e quando decise di terminare e s’alzò per andarsene dopo aver accuratamente sistemato la musica su una mensola, all’improvviso giunse alle sue orecchie un applauso e, solo allora si rese conto di trovarsi nella mensa dei lemuri e s’avvide che nessuno se n’era andato, non solo, nella sala erano presenti tutti loro, anche quelli che abitualmente se ne stavano rintanati in cucina o in altri luoghi. Era la prima volta che questi esseri, un tempo superiori, avevano dimostrato un sentimento, gli stavano esprimendo di saper gradire la sua esibizione che tra l’altro lui giudicava assai modesta. Come se si trovasse sul palcoscenico d’un teatro, s’inchinò più volte ringraziando la platea e quando rientrò in Villa trovò Zero ad attenderlo e inaspettatamente anche lui si complimentò per l’esecuzione. Di notte mentre stava dormendo si ritrovò Emma al suo fianco. Al mattino le chiese del suo viaggio a Lud, ma lei fu evasiva nelle risposte: gli disse solo che nell’appartamento di Lud aveva l’Aleph.
“L‘Aleph?” chiese lui meravigliato “Mica è quello del libro che mi hai lasciato?”
“I libri te li ha lasciati Zero, non io” rispose.
“Il nome della tua città, Lud, mi ricorda qualcosa. E’ forse dominata dai computer dipolari?”
“Sì è questa Lud. L’hai letto sui libri di Zero?”
“No. E’ il ricordo di qualche vecchia notizia, letta o raccontata, non ricordo proprio.”
“Vuoi venire con me a Lud?Vuoi conoscere l’Aleph?”
“Come prossimo viaggio avevo programmato di visitare la lamaseria, volevo poi raggiungere il mare e il villaggio dei pescatori. Da qui s’arriva all’isola e si può consultare la biblioteca, tu me l’hai detto.”
“La lamaseria è d’una noia mortale. Ameno che tu non ti diverta a meditare coi bonzi. Il mare non è un granché bello, le spiagge sono grigie così come il colore delle acque che tra l’altro sono pure troppo fredde per fare un bagno decente. La biblioteca invece è interessante. Ed è infinità, molto più ampia della stessa isola che l’ospita. Così infinita che si rischia di perdersi al suo interno. Molti visitatori hanno passato la loro vita al suo interno perché non sono più stati capaci d’uscirne. O perché la biblioteca li ha trattenuti, come dicono varie voci incontrollabili. Dicono che la dentro vi siano tutti i libri che sono stati scritti da tutti i senzienti del multiverso e anche che siano presenti tutti i testi che saranno in futuro scritti. Ma per consultare la biblioteca basta accedere ai suoi banchi memoria, con un visore. Non c’è bisogno d’andare fin la e poi se ci si sperde nelle sue memorie, poco male, si stacca il collegamento e non si rimane impigliati da nessuna parte. C’è anche un altro pericolo: i bibliotecari. Questi vivono la dentro da migliaia d’anni, si tramandano il lavoro da generazione in generazione, tra loro vi sono anche degli alieni. Sembra che siano tutti impazziti e dietro la loro apparente cordialità e premura si nascondano dei veri pericoli. Se poi vuoi fare questo viaggio per cercare il mitico “Libro di sabbia”, il libro infinito, è tempo perso, non si trova più nella biblioteca, ma è sul pianeta dell’Opificio. Non chiedermi come sia arrivato fin la nessuno lo sa, ma adesso è collocato nella biblioteca universitaria di Farvel, su quel pianeta e non può esser consultato.”
“Su un altro pianeta addirittura!”
“Con le porte, con un po’ di fortuna ci si arriva. Una volta ci sono stata, ma di vedere il libro non ci ho neppure pensato. Se ti va di viaggiare con me, un giorno ci andremo.”
“Certo che mi va di viaggiare con te. Cominciamo dalla lamaseria?”
“No, quella è una palla, te l’ho già detto. Cominciamo da Lud. Voglio mostrarti l’Aleph.”
“Va bene. Quando?”
“Uno di questi giorni. Ti avverto io.”
Detto questo si rimise la tunica e uscì a piedi nudi dalla stanza. Passarono una ventina di giorni, Emma non si vedeva, i concerti proseguivano, così come l’accudimento delle scuderie. I lemuri erano sempre più cordiali con lui e talvolta gli rivolgevano una o due parole, sembrava che fossero sul punto di risvegliarsi dalla loro catatonia. Anche Zero era più loquace e con lui si potevano intavolare discussioni d’ogni tipo, era quasi come parlare con un amico. Un giorno gli portò un nuovo libro che non aveva alcun titolo in copertina. Gli disse di leggerlo con attenzione perché parlava della sua specie e di quella di Emma. Incuriosito iniziò a leggerlo e questo illustrava le peripezie di una razza aliena scoperta per puro caso su un lontano pianeta di un’altra galassia. Era una razza poliforme che aveva la capacità di trasformarsi in qualsiasi oggetto o essere vivente con i quali fosse venuta a contatto. Alcuni senzienti umanoidi trovarono poi il modo di rendere permanente la mutazione, così una grande azienda terrestre in quel periodo si trasformò in una zaibatsu e acquisì enormi ricchezze trasformando e stabilizzando i poliformi in oggetti di gran valore. Si scoprì anche che questi potevano trasformarsi in esseri viventi, animali e vegetali e subire poi la stabilizzazione. Allora sia lui che Emma appartenevano a questa razza? Lui non lo ricordava. I suoi più lontani ricordi iniziavano con la sua infanzia in un villaggio rurale, poi distrutto e proseguivano dopo la sua fuga con trasformazione in albero in una città maleodorante ove era certo d’aver vissuto all’inizio nascosto in una discarica assieme ad altri umani lì rifugiati, poi s’era accasato con una del posto per diversi anni finchè non era sorto in lui il desiderio di tornare a viaggiare. Forse all’inizio era stato stabilizzato in un oggetto di valore, poi la stabilizzazione aveva iniziato ad essere instabile, l’oggetto aveva perso funzionalità e valore ed era stato gettato trai rifiuti. S’era risvegliato prima che le nanomacchine lo riciclassero col resto dei rifiuti e aveva assunto forma umana, quella di un ragazzo che era stato ospitato nel villaggio. Aveva mantenuto così a lungo quella forma che adesso non era più in grado di mutarla – o forse non voleva mutare perché quella forma a lui era congeniale - oppure il processo di stabilizzazione indotto era nuovamente divenuto operante. Forse le cose erano andate proprio così e, si ripromise di parlarne con Emma. Quasi avesse letto nei suoi pensieri il mattino successivo Zero gli disse che magari lui era stato un preziosissimo robot multifunzione, come lui, o un’auto di lusso o chissà, uno di quei sofisticati frigo-cucine quasi senzienti come ci sono qui nelle stanze per preparare i cibi. O perché no? un cesso di quelli autopulenti. E queste ultime parole furono accompagnate da un’inflessione ironica. Anche Lambert rise di cuore, mentre stava bevendo alcune sorsate da una lattina che aveva proprio l’identico sapore della cocacola, ma che però aveva stampato sopra la scritta Nozz-A-La. E venne il giorno che Emma volle portarlo a Lud. Passarono sotto l’arco luminoso dell’hangar e si ritrovarono in un piccolo appartamento che si trovava al centesimo – o giù di lì – piano di un grattacielo. Era tardo pomeriggio e Lambert stava col viso incollato alle finestre alte e strette e ammirava Lud, la città in mano ai computer dipolari, la città il cui tempo era andato troppo avanti. La New York di un altroquando sita in una delle Terre del multiverso, così almeno lui ricordava ed Emma glielo aveva confermato. O forse Lud sorgeva in un altro multiverso? Nel quale l’equilibrio dell’esistente s’era definitivamente compromesso. C’era qualcosa nella mente di Lambert che gli frullava ora nella testa, qualcosa d’indefinito ma che riguardava una torre nera e dei vettori che s’erano spezzati…o che erano stati spezzati: ma da dove gli venivano queste idee? C’era anche una tartaruga sulla quale la Terra (o era un universo) s’era precariamente appoggiata. C’era anche una rosa… La rosa e la torre erano forse la stessa cosa? Che idea folle!
Pensava questo mentre guardava fuori. All’improvviso si rese conto di due cose: antichi libri parlavano di questo posto, inoltre lui si trovava su una delle due torri che un attacco terroristico perpetrato da un gruppo di fanatici nazislam avevano abbattuto. Ma questa era storia antica e non si ricordava che fossero mai state ricostruite. Ma qui a Lud le torri ancora esistevano e lui adesso si trovava su una di queste, inoltre qui a Lud la cocacola si chiamava proprio Nozz-A-La…allora al piano terra doveva esserci un deposito per bagagli a gettone…ma cosa c’entravano questi ricordi frammentari? La voce di Emma lo riscosse dai suoi pensieri.
“Allora, lo vuoi veramente conoscere l’Aleph?”
Detto questo lo fece sedere su una poltroncina che era posta davanti all’angolo di due pareti. Gli indicò un punto a mezz’aria in cui guardare. Lui l’accontentò ma malgrado si concentrasse a lungo non riuscì a scorgere niente.
“Non sempre è possibile vederlo, riproverai più tardi.”
Si alzò e tornò a guardare fuori dalla finestra mentre le prime ombre si stavano formando sulla città. Lei intanto s’era seduta sulla poltrona e stava concentrandosi. Giunse la notte ma non lo sfolgorio di luci artificiali che una città del genere avrebbe dovuto produrre. Solo qualche finestra era illuminata e in basso il traffico era del tutto assente. Giungeva un lontano rumore di tamburi e dei bagliori furono visibili, come se vi fosse un incendio in un angolo remoto della città… Emma era ancora seduta e sembrava caduta in trance. L’appartamento era al buio e da lei emanava una leggera luminescenza. Lambert ora l’osservava sempre più incuriosito, la vide farsi trasparente e poi sparire del tutto. Si ritrovò solo nell’appartamento buio: era rimasto a bocca aperta nel vederla sparire. Si sedette al suo posto e si concentrò nuovamente nel punto che gli era stato indicato. Dapprima non successe proprio nulla, poi all’improvviso vide una piccolissima sfera cangiante che lentamente si fece di un quasi intollerabile fulgore. La sfera sembrava nuotare a mezz’aria, ma poi comprese che quel movimento era dovuto a un’illusione prodotta dai vertiginosi spettacoli che essa racchiudeva. Si rese conto che questo era l’Aleph; avrà avuto il diametro di due o tre centimetri, ma lo spazio cosmico era contenuto al suo interno, senza che la vastità ne soffrisse. Ogni cosa era nella sfera infinita, poiché la vedeva distamene da tutti i punti del multiverso. Vide vasti mari, popolose pianure, vide albe e sere, vide la moltitudine delle metropoli, vide un’argentea ragnatela al centro d’una torre nera, vide un labirinto spezzato e la New York che ricordava, vide infiniti occhi che fissavano lui come uno specchio, vide tutti gli specchi e nessuno che lo rifletté, vide la fattoria ove ultimamente abitava e si soffermò sul pavimento piastrellato dell’atrio, vide tempeste di neve, vide grappoli d’uva, piantagioni di tabacco, vene di metallo, paesaggi lunari, vide l’interno dell’ascensore che saliva verso la piattaforma orbitante, vapori d’acqua, interni di cratere, vide convessi deserti equatoriali e ciascuno dei loro granelli di sabbia, vide una donna in un locale di dubbia fama che non avrebbe mai dimenticato tanta era la sua bellezza, vide il centro d’un violento tifone, un altero corpo nudo maschile disteso su un letto, vide un tumore che devastava i polmoni, vide un cerchio di terra secca in un sentiero ove prima c’era un albero, vide ogni lettera d’ogni pagina, vide assieme il giorno e la notte di quello stesso dì, vide un tramonto sulle Alpi che sembrava riflettere il colore d’una rosa, vide la rosa di quello stesso colore, vide i collegamenti di quella rosa con la nera torre, vide un disco volante atterrare sulle Mura Urbane di Lucca, vide la discarica ove forse era ri-nato, vide un salone ove un globo terracqueo era posto tra due specchi che lo moltiplicavano senza fine, vide cavalli con la criniera al vento, vide pegasi solcare il cielo, vide serpenti d’auto che si muovevano all’infinito nella notte, vide la delicata ossatura d’una mano, vide i sopravvissuti d’una battaglia nell’atto di spedire cartoline illustrate a casa, vide una sfera armillare posata su un antico scrittoio, vide le ombre oblique di alcune felci sul pavimento d’una serra, vide tigli, stantuffi, circuiti integrati, schermi al plasma, ologrammi in movimento, computer dipolari, bisonti, sauri, mareggiate ed eserciti, vide flotte di navi e di astronavi, vide tutte le formiche che esistono sulla Terra, vide un astronauta impazzito, vide in un cassetto d’una scrivania una pistola pronta all’uso, vide la circolazione del suo oscuro sangue, vide i meccanismi dell’amore e le modificazioni della morte, vide un temponauta smarrito nei meandri del tempo, vide l’Aidoru che personificava il desiderio, vide un colle ove soggiornavano disoccupati antichi dei e vide schiere d’umani aggrappati ai bastoni da preghiera, vide la Casa della Vita e quella dei Morti coi loro Signori: vide l’Aleph, da tutti i punti, vide nell’Aleph le terre e nelle terre di nuovo l’Aleph e in questo tutti i mondi del multiverso. Vide il suo volto e le sue viscere, vide il volto di Emma e di colui che in questo istante legge questo scritto, provò vertigine e piacere poiché i suoi occhi avevano visto l’oggetto segreto e supposto, il cui nome usurpano gli uomini, ma che nessun uomo ha mai contemplato: il tutto.
Poi si rese conto che il gioco era ancor più complesso: lui s’era soffermato solo su una parte infinitesimale dell’Aleph che riproduceva l’universo a lui noto, poi s’era concentrato su una parte ancor più infinitesimale di questo universo:la Terra. Comprese che l’Aleph conteneva tutti gli universi esistenti, che erano infiniti:il multiverso. Questa ultima verità lo sconvolse, perse i sensi e rimase boccheggiante senza conoscenza, disteso sul pavimento della stanza, di quella stanza che sorgeva in una torre che doveva esser stata abbattuta da tempo. Lambert aveva visto l’Aleph, il luogo ove ora si trovava, senza confonderlo con altri spazi e visto da ogni angolazione del multiverso. Si riprese molto tempo dopo mentre Emma, che era tornata, stava guardando un programma della TRI-TV, forse registrato.
“Allora, hai visto? – gli disse – tutti i punti dell’esistente concentrati in un unico punto-spazio. E questo è nulla! Funziona anche come i nostri portali: ci si può spostare ovunque, istantaneamente, anche se il trasferimento dura all’incirca una giornata. Voglio farti conoscere un mondo. Quello che più amo. Te la senti di venire ora con me?”
Prima ancora che da Lambert giungesse una risposta, lei si sedette nuovamente, lo fece accomodare sulle sue ginocchia e fissò il solito punto. L’Aleph fu immediatamente visibile come una girandola di colori, vi fu poi un precipitarsi verso una meta, un vorticare di soli e di galassie, un attraversamento di orizzonti degli eventi, infine con un ultimo lampo tutto si dissolse e si ritrovarono in piedi su un verde pianeta. Erano soli in un bosco. Questa era almeno la prima impressione. Lui si guardò attorno, il cielo era interamente ricoperto da un fitto intreccio di foglie. In terra solo soffice sabbia. Ma gli alberi? Dov’erano gli alberi? Il soffitto di foglie copriva l’intero orizzonte, ma non un tronco si levava dalla distesa di sabbia.
“Un tempo questo pianeta era abitato, poi tutti se n’andarono e si portarono dietro ogni cosa. Il pianeta era un’intera foresta sotto la quale s’era sviluppata una civiltà millenaria. Tutto fu spostato da un’altra parte, solo le foglie degli alberi della foresta rimasero al loro posto, sospese. Dice la leggenda che ogni mille anni una foglia lascia il suo cielo e cade. Chi la raccoglie e la conserva diviene immortale. Qui trovai una foglia sulla sabbia e l’ho racchiusa nella gemma della mia collana. Noi poliformi dovemmo essere immortali, o quasi. Comunque non si sa mai, la conservo come portafortuna. Adesso sdraiamoci qui sulla sabbia e guardiamo il cielo di foglie e, ascoltiamo il silenzio. Solo in questo luogo il silenzio è tangibile e dà le risposte. Vorrei vivere qui, per sempre.”
“Sì! Dà le risposte…”
(N.d.A. ~ ringrazio J. L.Borges per la descrizione dell’Aleph)
©
Vittorio Baccelli
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