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Stasera sono a telefono e Mia mi sta lasciando, mi sta dicendo addio. Sono afferrato da una voce affilata e da una stringa di codici elettrici via etere.
“Cerca di capire, le cose non vanno più tra di noi.”
Certe vite somigliano a dei movimenti impacciati, fra piccole ed improponibili intenzioni incerte.
Forse è colpa dei pensieri che non sanno decidersi per alcuna direzione, quelli che si fanno rincorrere, promettendo paradisi di comprensione che invece non sono mai esistiti.
Magari è colpa di certe tinte del mondo, quelle che ingannano sulle esistenze di sfondi e primi piani, tutti mescolati dentro colori zoppicanti, che si compiacciono della loro indecisione cromatica. Nasce il problema del nome, in vite come queste, un nome da dare ai pensieri viziati, ai colori esitanti, a certi prati che i cani vedono gialli e gli uomini verdi. Decidersi per l’esatta sequenza e gerarchia di tinte, cose, numeri e amori è un gesto non consentito.
Certe vite come queste hanno una sola certezza: sanno di non poter uscire. Concedono piccoli atti di divergenza apparenti ma che poi rientrano subito dopo, ricordando che le uscite assolute non sono di questo mondo. Richiede buon occhio, non c’è che dire, una vita come questa, un occhio sbilenco che sappia abituarsi al gesto dell’uscita apparente e del rientro immediato. Che sappia gestire, in eguale misura, certe tensioni volitive e tutte le necessarie inversioni di marcia, in salti concavi contenuti nel loro stesso affondo. Stasera che ci sto pensando a questa vita che non può uscire, c’è un’aria densa di un settembre strizzato dentro l’umido, in cui certe suggestioni sono destinate a vivere per poco tempo, ingaggiate da tocchi mai compiuti, come quello di ultime luci estive o prime carezze autunnali. Ed io, arroccato nella mia posizione marginale, sono condannato a stare tutta la notte ad udire come ci si impone l’ onorabilità, quell’ ultima che resta, quando tutto è diventato esposto o rientrante, quando una donna ti sta lasciando e la cosa più facile sembrerebbe soffrire, ma solo se fosse una vita normale, dai pensieri ordinati.
Mentre la voce di Mia mi giunge affannata, forse timorosa che qualcuno o qualcosa non le lasci il tempo di dire ciò che preme dentro la sua gola, osservo il fluttuare liquido del liquore che mi accoglie nel vetro del bicchiere: sono ondine che non reclamano alcun tipo di assalto, morbidamente ramate che si ninnano con un dondolio pacato. Ecco, a pensarci un attimo, immagino di catturavi Mia con tutte le sue rinunce, nell’oscillazione fra gli estremi del bicchiere;
la vedrei nuotare come una sirena ubriaca, ligia al volere dell’alcool, sotto un nudo galleggiamento per inerzia.
“Era da tanto tempo che volevo dirtelo, sono confusa, mi sembra di non amarti più.”
L’ho conosciuta in un supermercato della periferia della città. Al nostro primo incontro non le ho letto versi d’amore nè bigliettini della fortuna vomitati da insopportabili cialde cinesi; lei era in piedi, appoggiata su un’anca come una dea su un piedritto di marmo, con certe ondulazioni bionde che le incorniciavano un viso leggero, dentro un impermeabile fuori moda. Bella, era bella da sembrare finta. L’evidente miopia però, le restituiva una lettura incerta, mentre aguzzava lo sguardo sull’etichetta di una salsa in scatola.
“Senza conservanti?” Ogni testo che avrei potuto scrivere o leggere si rimpiccioliva tutto lì, dentro un’etichetta che lei voleva che leggessi, dentro un’ incantevole, situazione normale.
E’ un’insegnante di francese, Mia, i cui sogni hanno accenti stranieri come la sua pronuncia. Una di quelle donne incerottate dai pensieri e convinzioni di altri tempi. Certe rughe tipiche del passato verranno anche a Mia, ne sono sicuro, quando di lei inutilmente avrò provato a stendere con infinita pazienza i pensieri ondulati, quelli che le generano troppe domande ogni giorno della sua vita, ad ogni sorpasso ed ad ogni inizio, tenera e sempre fragile, convinta di dover apparire determinata, quando è solo spaventata. Tutta la ingoierà, Mia, la polvere delle cose che si deteriorano nel tempo, pur di non mostrarla agli altri, la scioglierà come zucchero pregiato dentro l’abitudinario the delle cinque. E tutto di lei apparirà perfetto, senza una sola crepa che mostri la sua bella incertezza.
Ed ha incontrato me, che invece non temo e adoro la polvere sui mobili come ciò che rende più autentica la mia epoca.
“Vedi, ci ho pensato tanto. Quando due persone non hanno più niente da dirsi... sento che non ci capiamo”. La voce di Mia, quella che non si è interrotta un solo istante, buca nei miei ricordi e fa bolle di sapone dentro il mio whisky.
Quante volte l’ho trovata a scarabocchiare lampi di pensieri sui suoi fogli azzurri, con quelle matite laccate da bambina che le piacciono tanto. Beh, io i pensieri degli altri non ho mai voluto saperli; le cose normali, quelle senza pensiero, sono quelle in cui avviene l’incontro, l’attimo ed ogni evento: le etichette di salse, ad esempio. Con lei volevo leggere gli annunci pubblicitari sui cartelloni in strada, le marche delle auto, le stringhe banali dei loghi dei capi firmati. Volevo fare della nostra unione un credo di semplicità, che all’alba si sveglia solo per il piacere di riaddormentarsi quando gli altri non possono farlo.
La nostra storia era una specie di rimedio al dolore, diciamo così. Avremmo fatto sempre quello che agli altri appare una stranezza, ma il nostro sarebbe stato un delicato controsenso ad una direzione troppo affollata. Avremmo rassicurato le famiglie di questo condominio e la vecchia signora greca del primo piano che il mare, con tutti i suoi spasmi, non salirà mai oltre le mura del nostro stabile, per poi sghignazzare insieme sotto le lenzuola, nella notte che russa, scorgendo da lontano la bandiera nera dei pirati che si avvicina, e senza averne paura, perché sono nostri amici. Noi non avremmo avuto paura delle cose che temono gli altri e così avremmo preso accordi anche con la polvere e l’avremmo mascherata da brillantina per capelli, in modo che per noi, solo per noi, il passare del tempo sarebbe stato solo una goffa messa in scena.
Ma Mia non voleva tutto questo. Lei era come tutti quelli che preferiscono aver paura dei pirati per non aver paura degli attacchi più intimi, quelli più inconfessabili. Lei era deliziata da tutte le sue piccole e umane inquietudini, da certe abitudini che davano ritmo al suo vivere, che la facevano sentire in ordine con le cose. Anche quel ripetere ad alta voce, seduta al tavolo della cucina al buio, la lezione per la scuola il giorno dopo, era forse il ripristino di certe forme di obbedienza che rassicurano molto le persone più fragili, che trovano pace solo quando sanno di aver fatto tutto, ma proprio tutto quello che è in loro potere fare. Alla cattiva coscienza della propria indolenza lei non sarebbe sopravvissuta, l’avrebbe condannata ad un rilascio d’ogni concentrazione, alla rinuncia al controllo di azioni e pensieri. Con l’accento straniero di certe manie infantili avrebbe continuato a ripetere le sue lezioni serali, ottenendo in cambio la sterile convinzione della propria ispezione di fronte a qualunque imprevisto.
Che ora prendesse tutto questo coraggio, no, non me lo aspettavo. Cosa aveva previsto per il dopo, mi chiedo, per certe mattine inutili come parentesi e certe notti che hanno l’alito caldo di presenze ammuffite di ricordi? Che avesse un altro? Un tipo con i sensi spenti e allergico alla polvere, un raccordo tra la mia impudenza e la sua correttezza, qualcuno che sarebbe rimasto con lei in cucina la sera, a farsi insegnare la pronuncia francese? Lei che voleva sapere e capire tutto, che cosa aveva progettato per quell’ultimo discorso? No, noi non ci capiamo perché non c’è una sola ragione al mondo per capire quello che non chiede d’essere capito, ma solo vissuto. Così sempre brava a scambiare il mio rispetto per indifferenza, il mio amare la sua bella solitudine per un ordinario abbandono. Alla fine, so amarla con una semplicità che a lei spaventa, o forse, con il tempo, ha finito per annoiarla.
Eravamo immobili e silenziosi in una specie di statico inseguimento che non è mai stato nemmeno un partire. Eravamo finiti dentro la stessa conformità a mappe tutte vuote che generano il consenso a non andare da nessuna parte: allora sembra ci sia un accordo perfetto, ma lo è perché la sua genesi è abortita da sempre, lo è perché, quello che si decide insieme è semplicemente di non partire.
“Sai, ci vuole coraggio in queste cose.. dobbiamo ammettercelo.”
Dentro una specie di coraggio..dice. Ma forse è meglio chiamarlo inquietudine a finire la nostra storia (il suo) o ostinazione a continuarla (il mio). Entriamo così in collisione, forniti delle stesse dinamiche di forza, destinate ad annullarsi reciprocamente. Non siamo coraggiosi, dunque. Eppure, io so, in qualche modo, ma un modo strano ed inconcludente, che noi due ci amiamo. Così senza apparenti motivazioni, ma solo perché sentiamo di volerlo, al di là della sua solitudine che scaccia e della mia che amo.
La mia terrazza, intanto, precipita sul golfo, stasera. Sembra che fugga dalla scatola chiusa del mio soggiorno, insinuandosi su certe mura imbrattate di noia e scaffali di libri boccheggianti, correndo assieme alla polvere che rotola con lei, in una specie di gara a chi per prima raggiunge l’uscita.
Quando finalmente vince, si allarga come un sorriso sul mare e resta fuori, fuori dalla cecità di tinte che io non vedo e che solo lei può inventare. Ma stasera che si declina la fine di un amore, la mia terrazza crollerà nel mare. E’ un peso su queste mattonelle azzurre di mosaico orientale: un labirinto di direzioni e forme portato dietro a fatica che non s’accorge che la sua zavorra spacca tutte le travi possibili. E resta in bilico fra la volontà di resistere alla forza gravitazionale ed il suo peso da carcassa di morto. Stasera, un elemento minimo che s’è mostrato più durevole della sua arrogante muratura, l’ha sconfitta: un filo del telefono che ha accorciato le distanze dal fondo, ma pur sempre a distanza, rendendo me così lontanamente vicino dalla mia disfatta, dal mio precipitare in acqua.
“Come sempre, non dici niente, resti zitto, che dovrei pensare? Mi stai ascoltando o no? Sai cosa non ho mai sopportato di te?”
Mi muovo nervosamente nella stanza a piedi nudi, per sentire correre lungo il mio corpo la stabilità apparente. E’ così che la incontro sopra il tavolo, racchiusa in una cornice. La vedo sorridere dentro una foto in bianco e nero che le leviga il viso, puro, senza una sola ruga d’espressione. Finalmente un corpo, oltre che una voce. Una foto recente, tutto sommato. Ecco tutto l’accento straniero di una donna che non ama la polvere: è racchiuso nel viso che resta leggero, in certe promesse di profondità che quegli occhi regalano, indistintamente, a tutti.
E’ ormai certo che qualcosa s’è perso mentre scattavo quella foto, in quel preciso istante in cui io ho fermato il mondo sulla sua immagine, qualcosa è accaduto dietro di me, intorno a me, fra di noi, qualcosa che ha trovato una via di fuga oltre la foto scattata. Una mano che sorregge una tempia piena di capelli, è nel grandangolo che io l’ho racchiusa, eppure chi, chi può dirmi che lei non sorridesse ad un altro dietro di me? E’ sempre stato il problema di ogni guardiano, questo:
se il nemico è alle spalle, egli non potrà vederlo. O al massimo anche se il guardiano per qualche caso del destino, o perché abbia intuito una presenza o un silenzio interrotto, si voltasse prudentemente, il nemico potrebbe comunque essere così veloce da aggirarlo e ritrovarsi sempre fuori dal suo raggio di visione. Diventerebbe invisibile. Già, una bella questione per un guardiano.
“E le bugie? Vogliamo parlare delle bugie? Tu sei un bugiardo.”
Un tempo, noi ci fidavamo l’uno dell’altra, senza concessioni di dubbi. Non potrei dire che il tradimento non avvenisse solo per rispetto ed amore. A noi era piuttosto una questione di pigrizia che ci faceva scegliere per il noto, per la marca di cui il miope ha la fortuna di conoscere già l’etichetta. Il fatto è che chi dice di non tradire per amore, dice una bugia, è questa l’ipocrisia che non ci apparteneva, eravamo praticamente traditori per non finire con l’essere bugiardi.
Ma una sera è accaduto che Mia non ricordasse più la strada di casa e fu questo il suo primo tradimento, la sua prima verità da non tradire in nessun modo.
Una pioggia incessante.“Vieni a prendermi.”
Una voce oppressa sotto fili d’acqua duri come acciaio. E’ così che l’ho ritrovata, innaffiata sotto il temporale, a pochi metri da casa. Abbiamo camminato insieme sotto un ombrello largo, dritti verso l’ultima meta, come il ritorno senza pensieri di due prigionieri evasi.
Fu una serata strana, sotto un cielo vischioso, sotto un ombrello a riflessi rossi, mentre lei s’era persa o aveva fatto finta di farlo per comunicarmi, in qualche modo, e sempre senza parole, che quella non era più per lei la strada di casa. Che la verità del tradimento non è mai una bugia.
Sta arrivando la fine e questi restano ricordi. Saranno insignificanti, saranno tutti deformati dalle mie convinzioni, ma sono ricordi di settembre. Solo che adesso non c’è più tempo, non c’è più modo di farli gracchiare, dovranno tacere ed assistere all’impatto, come spettatori di un non ritorno. C’è l’assalto della fine, il nemico che giunge, quello che avrei dovuto bloccare all’entrata di tutte le soglie. Proprio come immaginavo: egli era alle mie spalle ed io, intento ad aspettarmi che i pirati giungessero dalla linea estrema del mare, ero pronto ad accoglierli solo perché, potendoli vedere, avevo scoperto il modo per vincerli: non averne paura. Ora capisco, ora mi sembra di capire, il perché non avessi cura di quel che guardavo: semplicemente perché lo stavo a guardare. Ma non avevo considerato il nemico alle spalle, quello che non si conosce e non si vede, quell’angoscia che sopraggiunge quanto più non sai com’è fatta la morte di cui morirai. Non conoscevo quello sguardo in cui forse mi sarei specchiato prima di morire, non avevo idea di che alito avesse, come ultimo odore da sentire, non sapevo se mi sarebbe piaciuto o no morire di quella morte. Ma una morte sconosciuta è proprio l’esito coerente di una di quelle vita che scoprono di non avere uscite possibili, è una morte non scelta.
Ha un grado di inclinazione allarmante la mia terrazza, intanto: sento l’umido dell’acqua che sale sulle pareti, spruzza i miei gerani con schizzi seducenti, ed io resto attaccato a quel telefono perché è l’unico modo per restare vicino a lei, la mia carnefice che adoro, averla ancora nel mio udito, nel mio fumo di sigaro.
“Aspetto una tua parola.”
E’ cosi che termina l’ultima sua voce. Sarà lei a conservare i sigilli delle soglie, sarà lei a guardare oltre l’etichetta della salsa. È guarita dalla sua miopia, non c’è che dire e lo ha fatto accecando il mondo che le era intorno, accecandolo con la pretesa di ridurre tutto ad un pensiero ordinato contro il mio pensiero viziato. E va bene, mi sento sconfitto, una suonata per requiem mi sarebbe accordata senza problemi da qualunque settembre che meriti questo nome e tutto sarebbe perfetto, rientrerei dalla stessa uscita, con estrema consapevolezza che non importa di che colore siano i prati, ma a chi appartengono gli occhi che li stanno a guardare.
“Mia, facciamo come vuoi. Facciamo quello che credi sia giusto”. Siamo quasi in fondo al mare, toccando la cresta dell’onda inquieta, io sopra la fredda mattonella che tende già verso l’acqua, ancora a telefono, ma senza resistenze, ormai.
“Non ci sentiamo più allora, Mia.”
Suonano alla porta, improvvisamente. Un campanello? Chi è dietro la porta? Sarà la vecchia signora greca del mio pianerottolo con le pantofoline rosa ed i calzettoni ricciuti sulle caviglie ad avvertirmi che cadiamo tutti in acqua? Più o meno simile a tante altre volte in cui mi si è presentata così, davanti la porta a dirmi:
“Giovanotto, qua ci allaghiamo.”
Peccato portarmela dietro, la signora greca, questa volta non potrei evitare di farle bagnare i piedini, le sue gonne gitane inzuppate da un oceano meno mitico.. siamo ben oltre il taglio di una tubatura, è l’emergere di una vita acquitrinosa dal sottosuolo: qui è cesura d’ogni credo, è ferita del mondo accecato. Si ci allagheremo, mia cara signora. Vengo ad aprire con un certo sorriso, almeno per farle vedere come si può morire con dignità.
“Mi senti o no, allora, è questa la tua ultima risposta? Non ci sentiamo più? Mai più?”
Il filo del telefono è esteso, avanzando nel corridoio al buio, con i piedi nudi che s’incollano al pavimento, mi porto dietro anche lei, allungando le sue braccia e le sue gambe, estendendo il suo cuore rattrappito, nella speranza di un annodamento più facile, senza possibilità di strappi.
Eccomi alla maniglia della porta.
Chi diavolo è?
Il pirata ha deciso di entrare con meno invadenza? Oppure il violino di settembre vuole farmi ascoltare l’ultimo pezzo di un repertorio scontato? Conosco già quelle involuzioni del suono che fanno gomitolo su se stesse, solo per far vedere di quanto sappiano essere audaci. Ma non s’accorgono che diventano monotone, quando l’unica cosa da ascoltare sarebbe solo il meno banale dei silenzi.
“Si ti sento, ho dovuto aprire la porta ”
“E allora rispondi, dimmi qualcosa”
“Non mi sembra che tu mi stia dando altre possibilità ed io non te le chiederò”.
E Mia è sul pianerottolo.
Ritagliata nel buio, dentro la luce fioca di una lampada a muro, con uno sguardo basso e senza espressioni. Emerge a fatica nella coltre settembrina. Con un cappello largo. Io sto parlando a telefono con Mia che adesso è sul pianerottolo di casa mia! Se Mia è qui, e se io sto parlando a telefono con lei, è più che evidente che il mio sequestro è avvenuto senza complicazioni, in qualche modo l’ho acciuffata, o qui o lì, non importa…un contrattacco inaspettato, l’ultimo avvitamento dello sguardo di ogni buon guardiano.
Nel frattempo, le faccio segno di entrare. Solo il tempo di finire o non finire questa telefonata con lei che in qualche modo è rimasta intrappolata nel filo, in questo filo nel quale si racchiude la nostra vita, certi ricordi e certe illusioni di realtà. Solo il tempo di capire l’esatta sequenza delle mie prossime mosse e delle sue, e di quelle che farà la terrazza, per ora solo lambita, ma ancora in attesa. Mi sento sciogliere dentro l’ultimo respiro del sigaro, mi dileguerò nel mare come un decomposizione di frammenti e resterò così, sul fondo, per millenni, vedrò passare le stagioni, mutare i corsi degli eventi, vedrò nascere nuovi gerani e perderò l’unica donna che avrò mai amato in vita mia? Forse ora è il caso di compiere un ennesimo contrattacco. Fingere che alle spalle non ci sia nessuno per non impegnare i sensi verso luoghi inutili, concentrare le risorse verso ciò che è di fronte con un corpo, per ristabilire le giuste combinazioni.
Nervosamente si stringe le mani, si siede sul divano con le gambe unite, resta sotto un cappello largo che le nasconde il viso arrossito dal pianto. Ha una gonna di lanetta rosa ed un golfino bianco, lei e non un’altra. Lei qui, sul mio divano, è semplicemente dolce. In attesa di tante cose, ma troppo timida per chiedermele, eppure so cosa vuole, che finisca questa interminabile telefonata con lei, che raddrizzi la terrazza, che innaffi i gerani con acqua meno salata e che cominci a dirle delle cose, a parlare come un uomo che ama, e non come un amante che non sa essere uomo. E forse potrebbe accettare tutta la polvere che c’è in questa casa, giocare insieme come farebbero bambini che ancora non hanno imparato il mestiere della distinzione, andare a scuola come un’insegnante impreparata solo per scoprire il gusto dell’improvvisazione.
Questa sera era solo all’inizio simile ad una di quelle vite distratte ma adesso è una sera che vuole riprender fiato, in cui gonne greche si sono adagiate come manti a coprire tutte le ferite.
“Questa conversazione è diventata ridicola. Mi chiedi di dirti cosa? Che sono un uomo disperato? Vuoi sentirtelo dire? Vuoi avere la certezza di aver mirato al cuore e aver fatto colpo?”
“Quello che voglio è un’espressione!”
E’ strozzato nel telefono il suo strillo. Mia è inviperita, ferita nell’orgoglio insoddisfatta della mia reazione indifferente, innamorata ancora, ora lo comprendo da certi suoni morbidi, assetata di un atto di resistenza.
Me, me che vuole, non le mie parole, non le mie rese di fronte ai pirati.
Mi siedo accanto a Mia, stando attento a non farle vibrare il filo del telefono sul golfino bianco, di poco le scosto una falda del cappello e con un dito le traccio il profilo delle sue labbra. Ci amiamo da sempre, da quando eravamo incapaci di comprendere il significato della parola amore, da prima ancora che le venisse la passione per le matite laccate ed i pensieri incomprensibili. Da prima che si perdesse a pochi metri da casa. Da prima che lei decidesse che il mio amore fosse un semplice ed ordinario abbandono.
“Io ti amo.”
Era questa l’espressione che voleva? L’ho detto a Mia a telefono e l’ho detto a Mia sul divano, si gliel’ho detto, finalmente, che l’amo.
Il telefono mi rimanda indietro, adesso, un vuoto silenzio. Il mio divano è rimasto vuoto. Sono rimasto solo. Non c’è filo che imprigioni le confessioni, non c’è foto che nasconda segreti, non c’è terrazza che voglia precipitare.
Suonano alla porta. Di nuovo. Ora immagino chi possa essere. E’ di nuovo lei, ancora e per la prima volta, per sempre, lei.
In realtà gli arrivi sono sempre di chi non c’è. E Mia non c’è mai stata, né al telefono, né qui sul mio divano. Non ha mai indossato golfini bianchi, lei ama le camicie dai colli maschili ed il suo accento francese in realtà è l’intonazione che sembra abbiano tutti quelli che per nostra incapacità non ci fermiamo ad ascoltare: è un’inflessione ripiegata a riccio sul proprio disagio. Forse Mia è colei che non è mai venuta, che ha sognato di veleggiare sulla linea dell’orizzonte di questo mare ed essere temuta e rispettata, ed io dovrei farle ostacolo per quel poco che serve a fare di una storia d’amore una storia da pirati. Non ci sono particolari momenti importanti nella vita di un uomo, se non certe serate come questa, in cui si pensa a quel che si perde e certe volte si perde quel che si pensa, in cui un resoconto diventa un cortometraggio che confeziona i movimenti, in cui un desiderio o una paura diventano i mostri che fanno crollare una terrazza.
Per un poco credo che lei sia qui, ma la lezione è sempre quella e non muta: gli arrivi sono di chi non c’è, e resta un cappello sullo spigolo di quella foto, come indossato su un capo.
Un cappello venuto dal mare, nero ed improvviso come la bandiera dei pirati che vengono in pace.
E sta suonando la mia sveglia, dopo una serata che sono stato a pensarci, a certe vite di settembre.
©
Valeria Francese
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