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I richiami del Vodù
di Diana Facile
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I richiami del Vodù

Tra passato e presente sulla spiaggia di Ouidah

Ouidah, dipartimento di Atlantique, costa del Benin: caldo torrido, umidità a mille. L’atmosfera mistica travolge tutti, come l’oceano che agita la spiaggia, perennemente arrabbiato. Sono giorni particolari questi. Giorni di misticismo, richiami ancestrali, divinità buone e terribili che fluttuano sopra le strade polverose, entrano nelle case, ritornano alla spiaggia, richiamate dai suoni ritmati dei tamburi e dalle danze frenetiche. Sono i giorni del Vodù, il risveglio delle divinità, ma anche il ricordo terribile di una delle pagine più sanguinose della storia africana: la tratta degli schiavi che, proprio da Ouidah, venivano spediti verso il Nuovo Mondo incatenati nelle stive delle navi negriere.

Gironzolando senza meta, mi ritrovo all’imbocco di un lungo viale in terra battuta, ai cui lati si alternano terreni incolti e piccole lagune. Cerco, invano, l’orizzonte. “C’est la route des esclaves… ”. Alle mie spalle si materializza un uomo alto, vestito con abiti eleganti. “Soyez la bienvenue”, dice porgendo la mano. Si presenta: è Anisette Tidjani Serpos, viene da Guézin, villaggio non distante da Ouidah. Vive in Brasile da molti anni, dove insegna Antropologia all’Universidade Federal di Salvador de Bahia. “Anche tu qui per il Festival?”, domanda. Annuisco e torno a scrutare l’orizzonte, indecisa se imboccare la lunga strada deserta di fronte a me o tornare sui miei passi verso il centro di Ouidah, dove sta sicuramente accadendo qualcosa di elettrizzante. “Fossi in te seguirei l’istinto”. Il suo sembra più un invito da non rifiutare che un consiglio spassionato. “Se ti fa piacere, posso accompagnarti in un viaggio nel passato. Torno qui ogni anno: ho un appuntamento fisso con la mia terra d’origine. Ripercorro questa stessa strada perché il 10 gennaio, in Benin, non si celebra soltanto la festa di tutti i vodù, ma si commemorano anche le migliaia di schiavi deportati durante il colonialismo”. Ouidah, la piccola perla affacciata sul Golfo di Guinea, custodisce un passato terribile che i beninesi non vogliono e non possono dimenticare.

Racconta Anisette: “Per la sua posizione strategica, questa cittadina era uno dei punti di partenza privilegiati per la tratta degli schiavi. Migliaia di persone, uomini e donne, attraversarono la Porte du non Retour, costretti ad affrontare l’oceano per raggiungere le coste brasiliane e caraibiche. Molte di loro non arrivarono mai dall’altra parte. Ma quelle che riuscirono a sopravvivere non dimenticarono le loro radici né rinnegarono la loro identità religiosa. Anzi, vi si aggrapparono con una tale forza da innestarla nelle terre d’oltreoceano. Obbligati a lasciare in patria i loro oggetti sacri, gli schiavi finirono con l’assimilare i santi cattolici alle divinità africane per poter esercitare il culto indisturbati”. Ed è così che dal Benin il vodù ha varcato l’oceano e si è propagato nelle Americhe, assumendo modalità e dimensioni differenti conservando, però, i valori di fondo, come dimostrano il Candomblé in Brasile, la Santería a Cuba, il Voodoo ad Haiti e l’Obeah in Giamaica.

Percorriamo silenziosi gli ultimi quattro chilometri, gli stessi che gli schiavi coprivano a piedi nudi prima di essere imbarcati per il grande viaggio senza ritorno. La strada è larga, deserta e polverosa. Il colore predominante è il rosso, quello della terra, che contrasta con l’azzurro terso e cristallino del cielo, in cui il sole sembra dover regnare eternamente sovrano e indisturbato. Di tanto in tanto, il silenzio quasi macabro viene interrotto dal passaggio di qualche zemjen (i mototaxi) che ci offre un passaggio, sempre declinato.

Ci fermiamo all’arbre de l’oubli: si riteneva avesse un effetto amnesico sugli schiavi destinati alla deportazione, obbligati dai negrieri a girarvi attorno nove volte e depositarvi sotto gli oggetti religiosi. Quindi, raggiungiamo la spiaggia di Jacquot. Qui svetta l’imponente Porte du non Retour “eretta in memoria delle migliaia di schiavi partiti dal Benin”, spiega sempre il prezioso Anisette, lo sguardo carico di dolore e rabbia. Accanto, come una sorella minore, la Porte du Retour, costruita in seguito per incoraggiare i discendenti della diaspora africana a fare ritorno nella madre patria. Non solo. Simbolicamente, la Porte du Retour è una porta ancora aperta. Brasile e Africa, due profili di volto umano che si guardano: quello di una madre che si rivolge al figlio perduto o smarrito per richiamarlo a sé. Ed è un richiamo irresistibile. In occasione del Festival Internazionale del Vodù, infatti, sono migliaia gli adepti che, come Anisette, attraversano il grande mare per riscoprire la loro terra d’origine, ritrovare i loro fratelli e partecipare al processo di ri-africanizzazione del culto ancestrale.

Identificato nell’immaginario collettivo con le pratiche malefiche, oscure e brutali proprie della magia nera e della stregoneria, il Vodù è, in realtà, volto a portare pace, armonia, abbondanza, salute e rimane ancorato a tutti gli aspetti della vita culturale beninese. Dopo essere stato il bersaglio delle autorità marxiste negli anni ’70, il culto è stato riabilitato dal governo più liberale di Nicéphor Sogla ed elevato a religione di stato. Esercitato oggi dal 60% della popolazione, con una particolare devozione nelle zone rurali, il Vodù si fonde spesso con le pratiche delle religioni monoteiste del Paese: il Cristianesimo al sud e l’Islam al nord.

“Il Festival è stato istituito per rivalorizzare il culto ancestrale”, continua Anisette, “ma anche per creare un punto d’incontro con i discendenti degli schiavi africani. È un evento pubblico, aperto al mondo, si inserisce nel Festival des arts et de la culture du voudoun Gambada, che ha luogo qui a Ouidah e si propone di riaffermare i valori tradizionali beninesi per mantenere vivo il legame tra identità religiosa e identità nazionale. Non è un caso che la festa di commemorazione della schiavitù abbia luogo lo stesso giorno del Festival, espressamente dedicato alla celebrazione di tutti i Vodù”.

Nell’attesa del fatidico giorno, le strade brulicano di gente curiosa e ansiosa di imbattersi in uno Zangbéto o in un Egoun o di riuscire ad assistere ad almeno una cerimonia. Ogni angolo, anche il più remoto, è preso d’assalto con la speranza dei fedeli di poter rendere personalmente omaggio alle divinità e il desiderio dei turisti di partecipare a qualche rito per scoprirne gli arcani misteri. Qualche fortunato vi riesce.

Ciò che tutti aspettano impazienti, è la mattina del 10 gennaio. Al sorgere del sole, migliaia di persone di ogni razza e nazionalità si riversano sulla spiaggia Jacquot per accaparrarsi i posti migliori, possibilmente all’ombra. Perché ciò che ha luogo sulla spiaggia di Ouidah non è solo un evento nazionale. È uno spettacolo, privo di carattere mediatico, che vede i vodù esibirsi dinanzi a una platea. Normalmente le pratiche religiose si svolgono all’interno dei conventi, e il Festival costituisce uno dei rari momenti in cui la grandezza degli dei viene celebrata pubblicamente.

Quando in lontananza si ode il rullo dei tamburi, la folla va in delirio. La gente urla, si dimena. Le donne, avvolte nei loro vestiti sgargianti, si alzano in piedi e iniziano a cantare e danzare. Gli uomini restano seduti e battono le mani, accompagnando ritmicamente la danza delle compagne. Il rullo dei tamburi s’intensifica in un’alternanza di suoni e voci. È un dialogo incessante con cui si evocano la morte, la vita, l’aldilà e la forza dei vodù.

Poi, di colpo, il silenzio. I grandi sacerdoti invocano gli spiriti tutelari. All’improvviso fanno la loro apparizione Egoun e Zangbeto, le più famose divinità vodù venerate nel Golfo di Guinea, seguite dagli adepti del vudù Koku. Incuranti delle urla acclamanti della folla che ha ricominciato ad agitarsi, avanzano maestosi verso il centro della spiaggia per poi disperdersi ed iniziare la loro esibizione. A questo punto, saltano tutte le regole. La gente abbandona il posto faticosamente conquistato per accalcarsi attorno ai vodù. Tra uno spintone e l’altro, si cerca di raggiungere la prima fila per assistere da vicino allo spettacolo.

Sulla spiaggia c’è posto per tutti. E, accanto a uno Zangbeto che danza o a un adepto Koku che si flagella, non è raro imbattersi in un sacrificio rituale o stupirsi nel vedere un uomo o una donna, a terra, con gli occhi ribaltati, la bava alla bocca, in preda alle convulsioni. È la trance: lo spirito di un vodù sta cavalcando un iniziato. Il tono che la scena assume può apparire drammatico e spaventoso a chi ignora che i posseduti sono in realtà dei prescelti, dei privilegiati. Durante la trance i cavalcati diventano ricettacolo e strumento degli spiriti, destinatari indiscussi del dono della grazia che li trasformerà negli sposi degli dei.

Il caos regna sovrano. Sotto il sole accecante e l’afa opprimente l’unico a restare seduto nella tribuna ufficiale è il re Towakon Guédéhoungué II, presidente dei culti vodù. Dalla sua postazione assiste alle celebrazioni e accoglie benevolo le comunità di fedeli che sfilano per ossequiarlo.

È una sinergia di colori, odori e rumori che avvolge l’atmosfera, conferendole un alone di austera religiosità. Tutti sembrano in preda all’ansia spasmodica di non perdersi nulla e passano come invasati da un’esibizione all’altra, incuranti del caldo che sta toccando i 45 gradi.

Il Festival è anche l’occasione per i commercianti locali di fare affari. Dietro gli spalti, ogni angolo è buono per installarsi col proprio chiosco e soddisfare esigenze e gusti dei presenti. Il corpo reclama liquidi? Magicamente piccoli frigoriferi portatili si materializzano dal nulla per dare da bere agli assetati. Non mancano le petites sucreries, ma preponderano i succhi naturali, dissetanti e reidratanti al tempo stesso. Spinto dai morsi della fame, lo stomaco inizia a lamentarsi? Ed ecco apparire improvvisamente una bancarella variopinta che offre frutta esotica, succosa e zuccherina, ignam pilé fritto e alloko (pietanze locali) o dolcetti al cocco e arachidi. Per i più fanatici, è allestito anche un vero e proprio bazar di feticci da portare a casa come trofeo di guerra. Il tutto senza perdere troppo tempo! Ogni minuto è prezioso perché rubato alla magia del Festival, che sta per concludersi. Bisogna ributtarsi nella mischia: a breve, i vodù rientreranno nei loro “templi” e bisognerà attendere un altro anno per poterli rivedere e onorarli pubblicamente.

Nel tardo pomeriggio, Jacquot cambia volto. Laddove prima regnava il caos, ora governa il silenzio. L’arcobaleno di colori che animava la spiaggia ha lasciato il posto a un’unica tonalità, quella ocra della sabbia. Il rullo dei tamburi, sempre più lontano, ha portato con sé anche la gioia e l’entusiasmo per la festa. Oltre le due porte, che isolate appaiono ancora più imponenti, si intravede il bianco schiumoso delle onde che si infrangono a riva. Zangbéto, lo spirito guardiano della notte, fra poco prenderà possesso del grande mare, di Ouidah, dei suoi abitanti. Tutto tornerà come prima, là nel golfo di Guinea, nella pacifica attesa di un nuovo incontro con gli dei.

1. Olympe Bhêly-Quenum, la voce letteraria beninese più autorevole sul vodù, lo definisce come “l’essenza e il senso del sacro, il significato del sacrificio, l’essenza del sacrificio realizzato conformemente al rituale”. Il termine vodù deriva dal fon ed è costituito da vo, il sacrificio, e du, l’essenza nell’accezione spirituale. Il sacrificio rappresenta una parte essenziale della liturgia religiosa. Il fine dei rituali è quello di prendere contatto con gli spiriti per guadagnarsi i loro favori, in cambio dei quali viene sacrificato un animale. Prima di compiere il sacrificio, che normalmente si svolge davanti ad un altare popolato di feticci, il Bokonon – sacerdote vodù – interroga le divinità: attraverso il lancio dei cauris interpreta Fa, il destino. Segue il sacrificio dell’animale. Il sangue versato nutre le divinità simboleggiate dai feticci. La cerimonia, accompagnata dal rullo incessante dei tamburi, si conclude con le danze e i canti degli adepti.

2. Zangbéto, il vodù guardiano della notte, è una sorta di sentinella che vigila sul villaggio. Sotto le sembianze di un covone di rafia colorata, Zangbéto esegue la sua danza rituale: ruotando vorticosamente su se stesso, allontana le forze malevole e purifica il villaggio. Dopo la danza, il vodù manifesta la sua presenza attraverso i nujle-jle, i miracoli. Se questi si avverano, anche l’opera di protezione del villaggio avrà buon esito. A conclusione della cerimonia, Zangbéto rivela la sua identità non umana dinanzi all’intero villaggio, confermandosi per ciò che è: il medium che mette in contatto sovrannaturale e umano.

© Diana Facile





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