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L'anziana donna mi offrì una bottiglietta d'acqua. "Prendete, prendete. È acqua naturale, di fonte. Non è stata aperta. Prendete," disse la donna, con molta gentilezza. Mi dava del voi, come si usava ancora nel Sud. Io aspettavo un treno, già in ritardo, e nell'attesa leggevo un racconto di Robert Sheckley. Mi ero rifugiato a sedere su una panchina all'ombra, nella piccola stazione quasi deserta, abbagliata dal sole cocente d'agosto. Nella stazione aspettavamo il treno invano in tre: io, l'anziana signora e un'altra donna accanto a lei, forse sua figlia. Rifiutai dapprima l'offerta dell'acqua, poi, cedetti alla cortese insistenza della donna e presi, ringraziando più volte, la bottiglietta di plastica scura. Guardai il mio orologio da polso: quasi le tredici. Venti minuti di ritardo, senza nemmeno un annuncio dall'altoparlante della stazione sul destino di quel treno. Bevvi un sorso dalla bottiglietta. Proprio buona quell'acqua. Guardai le due donne sedute sulla panchina a pochi metri da me e accennai un sorriso verso di loro. Mi addentrai di nuovo nelle vicende narrate da Sheckley. Ma poche righe dopo un gran frastuono portò d'un lampo la mia attenzione dalle pagine accoglienti del libro alla parte di cielo azzurro di fronte a me. Un enorme aereo era rimasto sospeso, immobile, a un centinaio di metri da terra, con grande sforzo e clamore di motori sbuffanti, e proiettava verso un quartiere della città, notoriamente popolato da gruppi di ribelli, la sua enorme e lunghissima protuberanza cava di metallo. Lessi, senza alcuna sorpresa, la scritta rossa sull'aereo: FREEDOM. Sapevo bene - e lo sapevano tutti - cosa stava accadendo. Le forze governative stavano intervenendo per portare la libertà anche in quella zona della città. Ma la libertà, dicevano quelli del governo, aveva un prezzo, e si comprendeva bene qual era questo prezzo dalle immagini più volte trasmesse in televisione. L'aeroplano ritirò nel suo corpo l'inquietante proboscide metallica, e in un paio di guizzi, nel fragore e nel fumo, scomparve d'un tratto, così come era apparso, portando in qualche luogo sconosciuto il suo carico di ribelli di fresca raccolta. Rimase ad aleggiare in cielo per pochi secondi qualche nuvoletta di vapore di scarico dei motori, e il puzzo di carburante bruciato fu portato nella mia direzione dalla brezza estiva. Ritornai alla lettura del racconto. Venni però interrotto questa volta dalle parole della donna, pronunciate ad alta voce, rivolte quasi a sé stessa - sembrava un antico e possente lamento. "Quanti uomini e quante donne avrà risucchiato la lunga bocca dell'aereo, della Belva... Avete visto in televisione quelle persone dopo?" La vecchia donna non attese la mia risposta. Continuò con voce drammatica. "Hanno gli occhi sbarrati e il viso pallidissimo. Sembrano creature dissanguate, e forse, secondo alcuni, lo sono davvero. Questa è la libertà che ci portano per il nostro bene, dicono. Mio figlio..." e la frase si ruppe in gola. Mi guardò che sembrava piangere, poi piegò il capo sul petto, come addormentata. La giovane al suo fianco manteneva una espressione lontana. Non volevo affrontare quello spiacevole e pericoloso argomento. C'erano spie ovunque. Avevo imparato a diffidare perfino d'una vecchia come quella. Ma talvolta pensavo che il veleno del sospetto, diffusosi profondamente, era un danno ancor maggiore, se paragonato alla violenza compiuta dai governativi. E dunque, forse, bisognava proteggere la fiducia - nell'uomo, nella vita intera - pur rischiando di incappare in qualche nemico ben mimetizzato. Tuttavia la cautela mi spinse in quel momento a cambiare discorso. Volevo attendere il rivelarsi di qualche indizio in più. Osservai l'ondeggiare lieve del ramo d'un salice, oltre la staccionata della stazione, oltre i binari, poi chiesi: "Aspettate anche voi il treno delle dodici e quaranta?" L'anziana donna sembrò non aver sentito la domanda, e proseguì il suo lamento. "Mio figlio è rinchiuso in una prigione ignota da più di due mesi. Ho chiesto sue notizie, moltissime volte, ai funzionari militari. Mi hanno detto di non preoccuparmi. Mio figlio, dicono, è un ribelle, e ha bisogno di cure. Tornerà un giorno a casa, guarito. Mi hanno rassicurato con queste parole... Ma io so, se riuscirò a rivedere mio figlio, in che condizioni tornerà a casa. Esangue, simile a un morto, simile a una persona a cui abbiano succhiato il sangue. E se è vero quel che scrivono alcuni ribelli sui loro fogli clandestini? Mio figlio è un ragazzo buono e generoso. Non può finire così..." Un singhiozzo spezzò l'ultima sua parola. Poi, vidi la lacrima che la donna non seppe o non volle nascondere. Scendeva lentamente sul suo viso, oltrepassando a fatica le profonde rughe. La lacrima era rossa, d'un rosso scuro. Una lacrima di sangue. La vecchia donna non era certo una spia. Era una aiutante. Chissà come, aveva riconosciuto in me, scoprendo la verità, un ribelle, e si era a me rivelata. Allora improvvisamente ricordai la bottiglietta d'acqua donatami dalla donna. E il mio gesto imprudente di berne un sorso, così, senza aver visto prima quel che avrei mandato giù, spinto forse da quella fiducia che ancora nutrivo verso gli uomini. La bottiglietta era di plastica scura, opaca, e dall'esterno non si poteva vederne il contenuto. La presi con urgenza. Era deposta al mio fianco sulla panchina. La aprii, e vidi il colore del liquido all'interno. L'acqua era leggermente rosata. Una goccia di sangue era stata disciolta in essa dalla vecchia, dall'aiutante. Bevvi un altro sorso, chiudendo gli occhi. Infine, rivolgendomi alla donna, dissi: "Grazie." Affondai di nuovo lo sguardo nelle righe del racconto di Robert Sheckley intitolato The New Horla, ispirato alla famosa novella di Maupassant, e lessi il seguente brano: "Mi aveva cicatrizzato la ferita. Che cos'era la sostanza appiccicosa che mi ci spruzzò sopra, se non un mezzo per fermare il flusso di sangue? Anche il dottore, quando finalmente riuscii a vederne uno il giorno dopo, mi chiese spiegazioni." La stazione era silenziosa e assolata e il treno aveva ormai un ritardo di quasi un'ora.
©
Subhaga Gaetano Failla
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