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Quando Monteforte Irpino diventò Strongmountain
di Vincenzo Manna
Pubblicato su PBSA2008
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Cari amici miei, considerato che ho quasi trent’anni, ormai dovrei avere nella vita un ruolo da protagonista. Invece, ogni volta che vado dallo strizzacervelli, ho la frustrante sensazione di essere la umile spalla di un grande attore. È un po come se le mie battute non fossero così importanti da essere trascritte, ma servissero solo all’altro, al gigione, per fare il suo ″grande numero″ (che a me, detto fra noi, sembra invece un discorso antipaticissimo).
Oggi, fra l’altro, il dottor Tispremo (si chiama così, non prendetevela con me) appare in grande forma e sta forse toccando uno dei picchi della sua carriera istrionica, pardon, volevo dire ″medica″.
L’argomento della seduta, neanche a dirlo, è il mio problema col sonno. Sono anni che dormo pochissimo, ma io mi sento bene. Ritengo, insomma, che ci sarebbero ben altre nevrosi e fallimenti vari che mi riguardano, e di cui sarebbe più importante parlare. Ma lo scienziato che ho di fronte è fatto così, ormai lo conosco. Vuole sempre averla vinta lui. Ormai questa non mi sembra più una terapia, ma un rituale fantozziano. Inutile specificare che il ragionier Ugo della situazione sono io, mentre lui, Tispremo, veste i panni del direttore tirannico e cazzuto.
«Tu sottovaluti il tuo problema col sonno, caro Limone», mi ha appena detto. A proposito, Limone sono io, o meglio questo è il mio cognome: non prendetevela con me, è il fato che a volte sa essere più stronzo di uno psichiatra, ossia, volevo dire ″di un istrione″...
Io cerco di rispondergli che non sottovaluto la questione, ma penso che non sia necessariamente un problema: Proust, per esempio, affermava che l’insonnia è una cosa positiva, perché induce chi ne è affetto a fare delle riflessioni sul sonno; mentre un uomo che si addormenta subito sa appena di dormire, e quindi rimane un essere più superficiale.
«Oh, ma che bella citazione colta, mio caro Limone!», se la ride lo strizzacervelli. Questa sua abitudine di chiamarmi col cognome la odio, mi riporta agli odiati tempi delle scuole medie, che io invece tento di rimuovere dalla mia memoria. Comunque il dottore continua:
«Lascia perdere Proust. Innanzitutto, tu scrivi, ma non sei come lui».
″Perché – avrei voglia di rispondergli – tu forse lo hai letto Proust? O ti sei mai degnato di leggere qualcosa di mio?″.
Nella realtà, invece, sto annuendo vigliaccamente, e sudo proprio come Fantozzi, ma anzi, che dico: come Bonolis!
«E poi questo Proust non è vissuto a lungo, dunque fossi in te non ne farei un modello di vita. Parliamo invece seriamente. Ieri stavo guardando i risultati delle analisi che ti ho consigliato di fare...».
″Forse volevi dire: che mi hai ordinato di fare!″.
«Non mi sono piaciuti affatto», continua intanto Tispremo, e, nel frattempo, tira fuori da una cartellina le analisi di cui sta parlando. «No, direi proprio che non sono buoni, anzi, hanno confermato il mio sospetto».
Ecco che è il mio turno di fare la ″battuta della spalla″: so già che, se non la pronuncio, lui non continua. Così gli chiedo quale sia il suo sospetto.
«Eh – risponde lui grattandosi il mento, come per darsi un’aria da genio – un gran brutto sospetto, Limone».
″E allora sputalo fuori, coglione″.
Nella realtà invece fingo interesse e preoccupazione: forse dovrei darmi alla politica, più che alla scrittura creativa.
«Insomma – decide finalmente di tagliar corto – ho idea che il tuo sia un vero e proprio fenomeno medico! Tu dormi meno di un’ora a notte, e questo malgrado gli psicofarmaci che prendi, e che, al contrario, dovrebbero farti dormire di più. C’è stato un caso come il tuo a Pechino, me lo ha confermato di persona un mio collega cinese. E sai cos’è successo al tuo simile dagli occhi a mandorla, dopo tanti anni che non dormiva?».
Faccio la domanda della spalla.
«È andato in coma. Sì, hai sentito bene: in coma. O meglio: una specie di coma, perché tecnicamente non lo si può definire un vero e proprio stato comatoso, quanto piuttosto un lungo, lunghissimo sonno... Insomma, il paziente cinese ha recuperato tutto il sonno perduto. E sai quanto ha dormito in tutto?».
Domanda della spalla.
«Un anno! Parola mia. E se tu non ti sforzi subito di dormire di più, sono che sicuro che lo stesso accadrà anche a te. Lo so, può sembrare una cosa incredibile, ma in medicina ogni tanto avvengono questi casi eccezionali. Esistono vari libri che ne parlano, anzi, ne sto scrivendo uno anch’io: "La realtà supera la medicina". Parla proprio del tuo caso, e ho anche trovato un editore: uno vero, non a pagamento. Naturalmente, sarebbe molto opportuno che tu ne leggessi una copia: posso inserire il tuo nome nell’elenco delle prenotazioni?».
″No, piuttosto preferirei leggere l’opera omnia di Emilio Fede!″.
Ho accettato, prenotato, e infine sborsato cinquanta euro perché la mia ora era finita. Mentre torno a casa a piedi (abito vicino) ricapitolo mentalmente la situazione. Non solo io scrivo e non trovo un editore, ma adesso devo accettare il fatto che ne abbia trovato uno il mio psichiatra, e sono stato anche costretto a prenotare una copia del suo libro. Beh, direi che anche oggi ho decisamente perso un’altra battaglia dell’eterno scontro Tispremo-Limone! Anche se io alla storia dell’anno di sonno che mi attende non ci credo neanche un po’: questi medici, per deformazione professionale, tendono sempre a delle grandi esagerazioni. No, per carità, Tispremo ha torto ed io ho ragione: ne sono sicuro.
Eccomi finalmente a casa. Sul campanello, scritto in piccolo, c’è anche il mio nome: Guglielmo. Questo è un altro motivo per cui sono incavolato col fato. Uno dopo un nome come Guglielmo, si aspetterebbe un cognome altisonante... Che ne so: Marconi, per esempio, oppure Shakespeare, William Shakespeare. Invece no: Limone. È un po’ come se un presentatore annunciasse con enfasi l’entrata di Naomi Campbell, e poi, da una sontuosa scala, scendesse Rosi Bindi! Ma non c’è da sorprendersi poi molto, se Limone è il mio cognome: qui a Monteforte è un cognome molto comune.
Già, perché è a Monteforte Irpino che io mi trovo, è qui che vivo. Un paese di poche migliaia di abitanti, in provincia di Avellino, detto comunemente solo "Monteforte″. Siamo la parte ovest della provincia di Avellino e, come in tutta l'Irpinia, siamo alti sul livello del mare. Il suolo da queste parti ha un’impennata, un’erezione. Insomma, alla faccia dei leghisti che dicono di ″avercelo duro″, noi siamo duri: siamo l’erezione in persona. Fra noi e le camicie verdi, quindi, ciò che cambia è l’ausiliare, oltre al numero dei neuroni. Tuttavia, a non molti chilometri di distanza da qui, si imbocca l’autostrada per Napoli, e soprattutto per Capodichino. In meno di un’ora possiamo dunque raggiungere l'aeroporto, e volare verso le città più incantevoli d’Europa e del mondo... Anche vivere qui, però, non è così male. Per uno come me, che ama scrivere, i personaggi bizzarri non mancano. Ce ne sono soprattutto due che hanno sempre colpito la mia immaginazione: uno si chiama Vito e l’altro Rosario, anche se tutti lo chiamano ″Baiano″.
Il primo, Vito, è un pastore. Non di anime, sia chiaro: proprio di pecore. Passa spesso col suo piccolo gregge anche per la strada dove abito io: via Molinelle. Pur essendo timido, alla fine ho trovato il coraggio di scambiarci due parole, e devo dire che è molto simpatico. Ti fa ridere specialmente quando parla del suo eterno rivale: Alfonso. Si tratta del secondo pastore più importante di Monteforte (ovviamente, se lo chiedeste ad Alfonso, sarebbe Vito ad occupare il secondo posto, in quanto la classifica si rovescerebbe). La rivalità, fra Vito e Alfonso, è nata circa cinque anni or sono. Il motivo della contesa si chiamava Patrizia: una culona dai capelli rossi che faceva gola ad entrambi. Tutti e due a quell’epoca la stavano corteggiando. Lei aveva trent’anni portati bene, ma era ancora single (anche se qualche mio paesano un po’ refrattario al progresso si ostinava a definirla
″zitella″). Inoltre, era una donna di casa molto brava, come non se ne trovano più. Per tutti questi motivi, sia Vito che Alfonso la consideravano un vero ″affare″, ed erano decisi a lottare senza esclusioni di colpi per sposarsela.
Il casus belli fu involontariamente provocato da Don Giovanni, il parroco. Questi, cinque anni fa per l’appunto, decise di rinnovare una tradizione che in paese, da un po’ di tempo, era andata persa: l’allestimento di un presepe vivente per il Natale. Naturalmente, ogni presepe vivente che si rispetti vede fra i suoi figuranti un pastore, e fra Vito ed Alfonso scoppiò subito un’accesa disputa su chi dei due dovesse avere l’onore di ricoprire quel ruolo. Patrizia, infatti, oltre ad essere una culona era anche una romantica, una sognatrice, e chi dei due avesse partecipato al presepe vivente avrebbe certamente fatto colpo su di lei. Mai e poi mai, la quarantenne single, si sarebbe fatta sfuggire l’occasione di sposare un
″attore″.
Ora, io non ho notizie sicure su come andarono precisamente le cose, ma alla fine la parte fu affidata a Vito. C’è chi sostiene che vinse perché aveva promesso a Don Giovanni una ″mazzetta″ a base di latte e giacconi di pecora, chi addirittura arriva a dire che ci fu l’intervento decisivo di un consigliere comunale, parente di Vito... Ciò che è certo, è che Alfonso la prese male, molto male, anche perché pochi mesi dopo Patrizia convolò a nozze con Vito, il suo Robert De Niro montefortese. Da allora, racconta Vito, non passa settimana che Alfonso non si vendichi con qualche dispetto.
«Anzi, ultimamente sta esagerando – ha recentemente dichiarato il pastore – Non vi dico cosa mi ha combinato la settimana scorsa... Mi aspetto di tutto, da quello!».
Fra l’altro, a causa di questi continui colpi bassi, i nervi di Vito a lungo andare ne hanno risentito, ed è finito pure lui sul lettino del dottor Tispremo. Il risultato è che adesso, quando Vito è nervoso, nelle sue imprecazioni si alternano bestemmie avellinesi e termini psicanalitici. Sarebbe uno spasso poterlo ascoltare.
Ma vi avevo detto che c’è anche un altro personaggio degno di nota a livello letterario: il cosiddetto ″Baiano″, al secolo Rosario Russo. Non so se definirlo lo scemo del paese o un indovino. E pensare che quindici anni fa era un normalissimo impiegato statale. Giocava spesso al totocalcio, e sognava come molti di fare un tredici miliardario (c’erano ancora le lire italiane) o almeno un bel dodici. Così avrebbe potuto comprarsi una casa più grande, una macchina più veloce, una moglie meno insopportabile... E una domenica d’inverno del 1986 , il grande giorno sembrava finalmente essere arrivato. Qui a Monteforte, parliamoci chiaro, la squadra del cuore per molti è comunque l’Avellino, che all’epoca giocava in serie A. Il campionato ‘86/87, poi, è stato il migliore in assoluto. L’Avellino fino ad allora si era sempre accontentato di non retrocedere, ma quell’anno le cose stavano andando magnificamente, oltre ogni più rosea (anzi, biancoverde) aspettativa. Grazie ad una buona squadra, e ai tanti gol su punizione del brasiliano Dirceu, la posizione era ormai quella di centro classifica. Si parlava di coppa Uefa o addirittura di scudetto. Così, quando ad Avellino arrivò l’Empoli, che invece era fra le ultime in classifica, Rosario non ebbe dubbi: mise sulla schedina ″uno fisso″. Stava quasi per andare a pagare, ma poi ci ripensò: ″Una cosa è il tifoso – si disse – e un’altra il giocatore″. Così, in una delle colonne, aggiunse un ″x″, tanto una doppia in più non lo avrebbe certo mandato in rovina.
Incredibile a dirsi, cari amici miei, ma fu proprio quella la colonna vincente della schedina di Rosario, o almeno lo fu fino a cinque minuti dalla fine delle partite. Il tredici, a causa di una sconosciuta partita di serie C, era ormai saltato, ma il dodici ce lo aveva in pugno. E se ne stava lì, tutto eccitato, a godersi la partita in curva nord (la curva meno scatenata: quella dei pensionati o degli impiegati statali come lui). L’Avellino, quel giorno, malgrado le tante occasioni da gol non riusciva a segnare.
″Pazienza – si diceva Rosario – che mi importa della mia squadra? Tanto ormai sono ricco!″.
Si prevedeva, in effetti, che anche i dodici sarebbero stati, se non miliardari, comunque molto alti come premio. Lui lo aveva sentito dire dalla radiolina che aveva appresso. Sennonché, a cinque minuti dalla fine, ecco entrare tale Ciccio Baiano: un bassetto che, però, col pallone ci sapeva fare, e l’Empoli segna. L’Avellino perde la partita, Rosario perde il dodici, i soldi, la casa, la macchina, la nuova moglie meno rompiballe... Tutto. Come se non bastasse, perse anche il senno. Dovettero portarlo all’ospedale perché sembrava completamente impazzito, e lo era eccome.
Morale della storia: alla fine perse anche il posto di impiegato statale, e da allora fa il vagabondo ed è proprio matto da legare. Per deriderlo, tutti lo chiamano
″Baiano″, come il calciatore che gli ha rovinato la vita. Ciò non toglie che, secondo alcuni, il soggetto presenterebbe interessanti capacità di divinazione (il dottor Tispremo potrebbe scriverci un altro libro, e col culo che si ritrova diventerebbe un Oscar Mondadori!). Si dice che più di una volta abbia indovinato il futuro. Ultimamente, per esempio, continua a dire che qualcosa di brutto, di orrendo sta per accadere a Monteforte Irpino e tutti i suoi abitanti. Si è fissato. Ma io non gli credo, a questa Cassandra dei poveri: cosa diavolo potrebbe accadere ad un paesino mite come questo? Secondo me, Baiano ha torto marcio.
Poi ci sono tanti altri personaggi a Monteforte, più o meno originali. Ci sono io ad esempio, e, ora che ci penso, anche mia madre sarebbe un buon personaggio per una novella o un romanzo. È una santa donna, intendiamoci, ma da quando è morto mio padre è diventata piuttosto laconica. Parla soprattutto per proverbi, un po’ come Padron ‘Ntoni, il personaggio de
"I Malavoglia". Dalla bocca di mia madre si possono attingere vere perle di saggezza paesana, roba piuttosto rara in tempi di globalizzazione. Tanto per dirne una, c’è stato un periodo in cui il suo ritornello era ″’o cane mozzeca sempre ‘o stracciato″: ossia ″il cane morde sempre chi ha già degli strappi″, chi se la passa male, insomma.
Oppure, una volta che l’ho rimproverata per avermi messo al mondo col ridicolo nome di Guglielmo Limone (vedi sopra), lei mi ha avvisato dicendo: ″Nun chiagnere triste, ca’ peggio nun viene″. Questo proverbio, però, è più difficile da tradurre. In senso letterale significa una cosa, ma va inteso in senso ironico, come se mia madre avesse detto: ″Non ti lamentare, non essere triste, potrebbe anche andarti peggio″. Peggio di ″Guglielmo Limone″? Questa è bella!
Poi ci sono i clienti del bar qui all’angolo: il "Barocco". No, non è un bar di ambientazione seicentesca, ma il bar di un certo Rocco che, quando dovette comprare l’insegna, decise di risparmiare una lettera, giocando col suo nome. Quasi quasi, domani ci faccio un salto al bar: magari becco qualche spunto per un racconto da una conversazione o da un nuovo tipo. Mi è già capitato altre volte, e fra pochi mesi c’è un concorso letterario al quale voglio partecipare. Adesso però si è fatto tardi: è meglio che vada a dormire, o meglio a tentare di dormire...
Un tale diceva che, in un modo o nell’altro, ″deve passare la nottata″. Anche questa è passata, alla fine, ma io, tanto per non smentirmi, non ho chiuso neppure mezzo occhio. A mia discolpa, cari amici miei, devo dire che stanotte ho letto una notizia che ha dell’incredibile. Altro che letteratura, altro che fantapolitica: se usassi ciò che ho letto come soggetto per un racconto, non mi crederebbero mai!
Quando non riesco a prendere sonno, ossia quasi sempre, per seguire i consigli del dottor Tispremo, mi dedico a qualche attività piacevole. ″E cosa può esserci di più piacevole di una navigata notturna?″, mi sono chiesto stanotte. Così ho acceso il mio vecchio ma combattivo computer e mi sono connesso ad Internet. Non so perché, però malgrado l’orario insolito ho voluto dare un’occhiata allo spazio delle news. Orrore! Meraviglia! E, mi verrebbe da aggiungere: risate! Come ho detto, voi non ci crederete, eppure il capo della maggiore potenza mondiale sembra che sia intenzionato ad invadere Monteforte Irpino. Sì, proprio così, il nostro piccolo paese è finito sulla scacchiera dove si gioca la partita delle sorti del mondo. Per chi negli ultimi anni si fosse distratto, il signore di cui sto parlando è il cosiddetto ″uomo più potente del mondo″. Nel suo discorso, del quale il sito riportava solo degli stralci, ha affermato:
″È inutile far finta di non vedere ciò che tutti sanno: questi montefortesi stanno diventando una seria minaccia per il mondo civilizzato. Dalle nostre informazioni, sappiamo con certezza che posseggono ordigni micidiali, e, forse che sì forse che no, potrebbero uno di questi giorni metterli al servizio di attività terroristiche. Siamo di fronte ad una scelta delicata: o fidarci ciecamente di questa gente impazzita, oppure intervenire militarmente per abbattere un regime ed instaurare una democrazia. E, oggi come oggi, siamo costretti ad optare per la seconda, sofferta soluzione″.
Io non riuscivo a credere ai miei occhi, al mio monitor, al mio provider... a niente. Poi in me è nata una speranza: forse stavo sognando.
″Vuoi vedere – mi sono detto tutto contento – che una volta tanto sono riuscito a prendere sonno e questo è solo un incubo?″. Mi sono pizzicato le guance una, due, tre volte, ma ho solo ottenuto l’effetto di risvegliare un antico mal di denti, che da qualche giorno aveva avuto pietà di me. No, ero sveglio, ed era tutto vero! Dei terroristi a Monteforte? Dei terroristi mondiali, con tanto di progetti eversivi, a Monteforte Irpino? Ma com’era possibile? Adesso che è mattina, col senno di poi, mi sorge un dubbio: non è che qualche volta ho lasciato per sbaglio la webcam accesa sulla chat internazionale? In questo caso, magari, si spiegherebbe tutto: qualche subalterno dell’uomo più potente del mondo, forse, ha scambiato il mio nasone dantesco per una ″arma di distruzione di massa″...
«Ma tu ci credi a questa storia?», chiedo a Rocco appena entro nel suo bar.
«Che ti devo dire? Io no, ma i giornali ne parlano, caro mio: leggi qua», mi ha detto porgendomi un quotidiano. Mi metto a leggere e la notizia su Monteforte è in prima pagina. Tutti ne parlano. Ci sono stati perfino due interventi di segno opposto da parte di altrettanti autori italiani. Per la precisione, il più grande scrittore e la più grande scrittrice, ammesso che abbia un senso dividere gli autori in base al sesso. Il primo, grazie a Dio, tutto sommato si è schierato dalla nostra parte, o quantomeno ci ha difeso da certe accuse di ″inferiorità culturale″.
Sto parlando, ovviamente, di Umberto Rimbombo (lo scrittore italiano che ha maggior risonanza, come dice il nome). Tutti lo conosciamo, ed io da una parte l’invidio, ma dall’altra no. Mi spiego meglio: devo solo togliermi il cappello davanti ad un autore così colto e importante, però non invidio affatto il titolo di ″intelligente″ che ormai gli hanno affibbiato a vita. Infatti, non riesco a immaginare un destino più tragico di quello che spetta a chi dovrà essere intelligente per sempre: al confronto, il grande Pasolini ha finito i suoi giorni in una Jacuzzi.
L’altro intervento, al contrario, non getta una buona luce su noi montefortesi, perché ci indica come un mostro da combattere, un cancro che il mondo deve estirpare. L’articolo è firmato dalla celeberrima Oriana Fallosa. Fra le sue opere o articoli più importanti, se ne contano diverse decine, di cui quasi tutti hanno, nel titolo o nel testo, la parola ″sdegno″. Ad esempio, rivolgendosi ai nostri cugini mercoglianesi, quelli del paese confinante col nostro, la Fallosa ha detto:
″Mercoglianesi, facciamo sentire il nostro sdegno!″. Sdegno di qui, sdegno di là, sdegno fritto e baccalà... Mi sembra di sentire il grande Totò. Chissà chi è stato quel montefortese mostruoso, no global e terrorista che, una notte, si è introdotto nell’attico della grande scrittrice e ha cancellato dal suo dizionario la parola
″tolleranza″?
«Insomma, le cose per noi sembrano mettersi male», dico a Rocco dopo aver posato il giornale sul bancone. Il barista taccagno in fatto di insegne sta per rispondermi, ma ecco che arriva Baiano, tutto trafelato per la corsa. E comincia a snocciolare profezie apocalittiche: dice che l’attacco al nostro paese avverrà prima di quanto noi immaginiamo, questa sera stessa. Ci saranno elicotteri, bombe, rastrellamenti... Le parole del matto rassicurano me, Rocco e tutti gli altri clienti presenti nel bar. Il fatto è che, proprio come accadeva per Cassandra, noi sappiamo che Baiano è un fanatico, e quando lui prevede una cosa capiamo che sta sbagliando e ci mettiamo l’animo in pace.
Non a caso, alcuni adolescenti stanno immediatamente facendo cerchio intorno al sedicente profeta e cominciano a prenderlo in giro. Con la scusa delle ultime notizie, hanno marinato la scuola, e adesso se la spassano facendosi raccontare da Baiano tutti i particolari del presunto imminente attacco. Arrivano anche quei due o tre vecchietti mattinieri che nel "Barocco" non mancano mai, e si aggiungono all’allegra brigata. Io, però, mi sto annoiando: adesso mi sono tranquillizzato e credo sia meglio tornare a casa per mettermi a scrivere. Così, senza farla lunga, concludo facendo a Rocco una domanda di importanza fondamentale:
«Stasera c’è la partita dell’Avellino in televisione: qui al bar ve la guardate?».
«Certo Guglielmino – mi risponde Rocco – vieni pure tu, se vuoi, ma non a mani vuote: qualcosa la devi bere se vuoi goderti la partita».
«Affare fatto», gli dico. Subito dopo mi accorgo che Baiano si sta sentendo male. Appena ha udito il nome dell’Avellino calcio, ha cominciato a disperarsi, gemendo di dolore e dando testate contro il bancone: il ricordo è troppo angoscioso.
«Calmati Baiano – lo consola l’anziano e coriaceo cavalier Ruggiero – mica giochiamo con l’Empoli!». Ma sentendo il nome della squadra toscana, il dolore del ″profeta″ aumenta, e gli altri sono costretti a preparargli un cognac per farlo riprendere. Da parte mia, saluto Rocco e gli altri e me ne vado, lasciando Baiano solo col suo dolore e i suoi funesti presentimenti su ciò che, secondo lui, deve accadere stasera.
″Però – mi dico chiudendo la porta del bar – se le mie reminiscenze scolastiche non mi ingannano, Cassandra, sul cavallo di Troia, alla fine ebbe ragione...″.
Ho mangiato leggero stasera, e adesso sono pronto per andare al "Barocco", godermi la partita e fare il tifo. La novità della giornata è che sono rimasto solo a casa. Mia madre, dopo pranzo, con voce seria e senza usare proverbi, mi ha detto di voler andare a Salerno, dove ha dei parenti. Le ultime ed inquietanti notizie sulla ″guerra a Monteforte″ non le sono piaciute per niente, e, nel dubbio, mi ha confessato di voler portare in salvo almeno se stessa e mia sorella. Sapeva che io avrei detto di no: a questa storia ci credo sempre meno, soprattutto dopo che Baiano ne ha parlato col suo solito catastrofismo che poi, puntualmente, si rivela infondato.
Comunque, non posso negare che i baci della mamma e di Ilaria, mia sorella, mi abbiano commosso, perché me li hanno dati proprio come se io stessi partendo per una guerra: una bella soddisfazione, per uno che è stato riformato.
Decido di andare al bar a piedi, non solo perché non è molto distante, ma anche per assaporare quell’aria così profumata delle serate estive che sanno di pizza, birra ed eventi sportivi. Dopo un poco arrivo al bar di Rocco (lo scrivo per esteso, non essendo tirchio come lui). Appena entro, un cliente mi dice ″buonasera″ e il pappagallo mi manda a fare in culo: i sostenitori del bastone e della carota sono soddisfatti.
«Ah, il nostro grande scrittore è arrivato – mi saluta il vecchio Rocco, prendendomi in giro – La vuoi una Strega, Guglielmino? Tanto se aspetti di vincere l’omonimo premio letterario stai fresco!».
Udendo la battuta ridono e mi deridono un po’ tutti: vecchi e giovani, belli e brutti, ma alla fine mi vogliono bene, e mi fanno accomodare. Siamo tutti già disposti a cerchio intorno allo schermo gigante, che poi, per essere sinceri, è solo un trentadue pollici che Rocco ha comprato in quarantotto rate. Le ultime quaranta, fra l’altro, non le ha mai pagate (oltre che sulle insegne, è un po’ tirato anche sugli acquisti degli elettrodomestici). Fra il pubblico della partita ci sono tutti i soliti noti, non mancano neppure Baiano e Vito il pastore. Quest’ultimo, si è portato appresso la sua pecora del cuore, e l’ha
″parcheggiata″ fuori come se fosse un motorino. È un vecchio rito scaramantico che risale a quando, alla fine degli anni Settanta, l’Avellino fu promosso in serie A. Nel corso degli anni, ovviamente, la pecora di turno è cambiata, ma il rito no, anche se non sempre ha dato ottimi risultati.
Baiano nel frattempo si lamenta un po’ con tutti, dicendo che, da quando è stato interdetto, nelle ricevitorie non gli fanno nemmeno giocare la schedina.
«Ma quando mai si è vista una cosa del genere?», esclama. Il fatto è che in paese lo conoscono bene, quindi, anche se la legge non prevede questa limitazione, la gente comunque non si fida di lui, né vuole essere la causa di un altro colpo, che stavolta, c’è da giurarlo, ammazzerebbe definitivamente ″il fu Rosario Russo″.
Tanto per rispettare il patto stretto con Rocco, e non guardare la partita a sbafo, ordino una birra ghiacciata. La pizza la mangerò più tardi, quando mi si apre lo stomaco. I giocatori scendono in campo, manca davvero poco, e nel bar c’è già chi fa delle scommesse o litiga sulla scelta delle formazioni (che sono appena state lette dal telecronista).
Ma appena l’arbitro fischia l’inizio della partita, il suono del fischietto viene coperto dal rombo di uno sparo che ci assorda tutti. Abbiamo l’impressione che provenga da fuori, anche perché per un attimo ci è tremata la terra sotto i piedi. Corriamo tutti a vedere, e sotto una nube di fumo i più scaltri indicano la pecora morta. Vito, per il dolore, le si avvicina gridando il nome che le ha romanticamente dato: «Patriziaaa!».
Nel frattempo dei carrarmati avanzano via terra, ed alcuni elicotteri, da cui spuntano delle mitragliatrici, stanno arrivando dal cielo. Ci manca solo "La cavalcata delle valchirie" di Wagner e poi sembrerebbe in tutto e per tutto quella famosa scena di "Apocalypse now".
«Che vi avevo detto? Che vi avevo detto?», grida Baiano saltellando entusiasta. Vito, invece, piange ancora Patrizia e corre via verso la salvezza, mantenendosi il cappello ed imprecando a voce alta:
«Alfonso, maledetto, questa me la paghi! Capisco il rancore, ma fino a un certo punto. Tu hai un problema di aggressività repressa, mannaggia ‘a miseria zoccola! Ci sta modo e modo di vendicarsi – continua guardando gli elicotteri – ma tu, figlio mio, hai dei fottutissimi disturbi della sfera affettiva, all’anima ‘e chi t’è vivo!».
Inoltre, da un megafono che Dio solo sa chi tiene in mano, si sente gridare: «Non ci siate ostili, montefortesi. Siamo qui per il vostro bene: vogliamo regalarvi la democrazia! Arrendetevi e non abbiate paura, ripeto: siamo in missione di pace, siamo vostri amici!».
«Alla faccia mia – sento esclamare il cavalier Ruggiero – e meno male che siete amici! Spero di non conoscerli mai, i nemici», conclude guardando con gli occhi sbarrati l’invasione che sta avvenendo per cielo e per terra (e per fortuna, aggiungo io, che qui in Irpinia non c’è il mare ma solo montagne).
Io non so come comportarmi: intorno a me il fuggi fuggi, come si dice per convenzione, è generale. Assisto a scene incredibili, e vorrei descrivervi tutto, cari amici miei, ma mi sta accadendo qualcosa di strano. Può sembrare paradossale, ma ho sonno, tanto sonno, troppo sonno...
″Che cosa è stato? Cos’è stato a cambiare così? Mi son svegliato ed era... tutto qui″.
Questi versi, cari amici miei, sono di una canzone di Vasco Rossi, "Liberi Liberi", eppure potrei averli scritti io in questo momento. Mi sono svegliato da pochi minuti, esattamente sullo stesso marciapiede dove mi addormentai. Ho la sensazione di aver dormito per un secolo. È notte, e guardando la notte mi sono ricordato di quello che è successo. Ma com’è andata a finire? E soprattutto: è davvero finita? Se c’è stata una guerra, perché mi hanno lasciato vivo su questo marciapiede?
″Ah, ho capito – mi dico alla fine – siccome ero disteso per terra tutti pensavano che fossi già morto″. Dunque, senza volerlo, ho applicato lo stesso trucco de "Il pianista" di Roman Polanski: stendersi a terra per apparire un cadavere, evitando così di essere ucciso. Incredibile.
Non riesco a capire cosa abbia prodotto questa guerra, questa ″invasione pacifica″, perché tutto è nascosto dalla nebbia, una nebbia fittissima, come se Monteforte si fosse nascosto sotto uno spesso lenzuolo da fantasma. Cammino a tentoni, e mi dico che sono proprio uno stupido: come ho fatto a non credere a Baiano? Aveva ragione lui! I pazzi dicono sempre la verità.
Cammino ancora, e poi ancora, e poi ancora, ma a causa della nebbia vado più lento di una vecchia 126 in salita. Finalmente una luce, in alto, una luce rossa... Ma che cos’è? Un attimo dopo capisco: è il grande orologio del vecchio centro commerciale. Leggo la data con doppio stupore. In primo luogo, perché è scritta in inglese, e al posto di ″giovedì″ c’è scritto ″Thursday″; e poi, come secondo colpo di scena, scopro che è passato tanto tempo, addirittura un anno!
″Ma com’è possibile dormire per un anno intero?″, mi chiedo sbalordito. Alla fine ci arrivo, perché mi ricordo delle parole del dottor Tispremo sul caso di quel paziente cinese. Così sono costretto ad ammettere che anche lui, l’istrione, aveva ragione. Tispremo-Limone: due a zero e palla al centro.
Già, sia il dottore che Baiano avevano ragione: sono io che ho sempre avuto torto, su entrambe le cose, e doverlo riconoscere mi fa un po’ rabbia. Fortunatamente (si fa per dire) per colpa della foschia ho appena battuto la testa contro un cartello stradale. Mi faccio luce con l’accendino per tentare di leggerlo. C’è scritto
″Welcome to Strongmountain″, laddove una volta si leggeva solo ″benvenuti a Monteforte″. Siamo stati colonizzati... Cioè, volevo dire: adesso siamo una democrazia.
Sapete cosa vi dico, cari amici miei? Che è stato un bene questo lungo sonno. Non solo perché mi ha impedito di vedere una guerra, ma per via del fatto che quella guerra, giusta o sbagliata che fosse, non avrei potuto raccontarvela in modo comico. Certo, la comicità non va sottovalutata, per me è quasi una scelta di vita, ma cose come la guerra, il terrorismo, e tutto ciò che accade nel mondo, sono estremamente serie. È troppo facile superficializzare su questi argomenti, o addirittura scherzarci sopra, e grazie a questa specie di ″coma″ non ho dovuto farlo.
Adesso non mi resta che aspettare l’alba, sperando che con l’arrivo del sole la nebbia cominci a diradarsi, e che i miei cari stiano bene. Mentre formulo questo pensiero, per associazione di idee me ne viene un altro orrendo. Se Monteforte adesso si chiama Strongmountain, io come mi chiamo: William Lemon? O mio Dio, è ancora peggio di Guglielmo Limone! Come dire: ″Nun chiagnere triste, ca’ peggio nun viene″... E che cazzo: aveva ragione pure mammà!
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Vincenzo Manna
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