Ho freddo. Ho paura. Mi hanno imbavagliato, picchiato, tormentato e ora sono qui, in quest’antro piccolo e stretto. Soffoco. Non come quando mi hanno incappucciato con quel sacco di juta legato stretto al collo tanto da chiudermi le narici: qui c’è aria e riesco a respirare ma sento l’odore putrefatto della morte e di carne da macello attorno a me e addosso a me (non riesco a liberarmene). Mi hanno drogato e ora sento le voci confuse e agitate degli altri, vedo le pareti sciogliersi quasi fossero un colore a cera per poi ricomporsi come un puzzle.
Si dice che il prossimo sia io.
Ho gli zoccoli fradici della mia inquietudine e di ciò che non riesco più a contenere per la paura. Non voglio morire. Spero di non scivolare perché avrò bisogno di gambe agili per correre e zoccoli stabili per non cadere… e devo avere coraggio, perché la forza me l’hanno già rubata con la droga.
“Non c’è modo di fuggire. Siamo solo carne da macello”. Sento la voce di quello che chiamano “il filosofo”; è accovacciato al fondo della stalla, da solo, e rumina parole e fieno fresco quasi fosse il cenone di Capodanno. Non voglio ascoltare. “Non concedere loro il gusto dello spettacolo. Rassegnati e mangia questo fieno così fresco”. Si aprono le porte. L’arena è immensa tanto quanto la luce del sole che entra e mi acceca. Gli altri chinano il muso per salutarmi, quasi a concedermi quell’onore che cercherò di meritarmi. Muovo passi lenti e quasi non sento la terra sotto gli zoccoli.
Sono già carne da macello?
No. Non ancora. Ho solo tanta paura. Il sole caldo d’estate si appiccica sulla mia schiena come le urla festose ed eccitate della gente assetata di sangue e spettacolo. Quanta gente. Mi guardo attorno e dalla parte opposta da dove sono entrato, avanza un uomo seguito da due figure a cavallo. forse gli applausi sono per loro. Li aspetto nel mio silenzio.
Ecco il bipede - così direbbe mia mamma. Che ridere…
Non c’è tempo per ridere.
Corri!
Non faccio in tempo. Resto immobile, sorpreso, mentre mi infilzano con due lunghe aste appuntite e colorate, una gialla e una rossa. La gente rumoreggia ed io sento gli zoccoli ancora umidi e mi auguro che non sia di nuovo la mia paura a giocarmi un brutto scherzo davanti a tutti questi spettatori. Abbasso lo sguardo e con orrore mi accorgo che il mio sangue si mescola al terriccio. Ho paura. Sono confuso e debole. Lui ora è di fronte a me, rigido e immobile, con la sua camicia pulita ed i pantaloni al ginocchio e mi sventola davanti un drappo che dicono sia rosso. Nel suo sguardo leggo coraggio e determinazione. Mi spinge con la spada per irritarmi (e ci riesce) ma non ho fiato per correre. Mi accascio a terra fra gli occhi delusi della gente, ed esanime guardo il mio sfidante che mi urla: “alzati stupido animale e combatti”. Striscio lentamente la guancia per guardare l’arena e migliaia di mani col pollice verso mi indicano indignate (non può finire così, questo pubblico dovrà guardare il MIO spettacolo) mi dico… ed il mio coraggio prende a schiaffi la paura, ed il mio sudore diluisce il mio sangue, ed il sole fa bruciare le mie ferite. Cerco di rialzarmi, tremante, mentre il torero mi guarda con un sorriso fiero e beffardo. Non ho gambe per correre ma ho il coraggio alimentato dalla mia paura e dalla rabbia. Mentre Ramon si avvicina insistente (così ho sentito dire che si chiama) io sono pronto per sferrare il mio colpo: con agilità aggancio le mie corna alla sua cinta e corro contro la parete fino a spingerlo con tutta la forza che ancora possiedo. E spingo. E spingo. Vorrei urlare ma non ho più fiato e anche se ne avessi non basterebbe per superare le sue urla di dolore e di paura.
[…]
del poi … ho solo il ricordo di lui che smette di rantolare e di me, che allento la presa, striscio fino al centro dell’arena e alzo lo sguardo verso il sole (e verso mia madre) e penso…
Tra poco sarò carne da macello, ma questa sfida, mamma, l’ho vinta io.