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Senza respiro
di Carla Montuschi
Pubblicato su PBSA2021


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«Ma tu hai una vaga idea di quanto io ti ami?»

Non sapevo ormai più quante volte, avevo sentito ripetere quella frase… avevo smesso di contarle…

Giorgio continuava a ripetere che mi amava e quella frase era, da anni, l’epilogo di ogni nostro litigio.

Non riuscivo proprio a comprendere il motivo per cui dichiarasse il suo amore per me, solo dopo avermi aggredita, mentre nei sempre più rari momenti di quiete di tutto quel grande amore non v’era più traccia, né manifestazione…

Stavamo insieme ormai da una decina di anni, un quadro impressionista era stato il tacito complice di una conoscenza predestinata.

Incontrai infatti Giorgio in occasione di una cena importante, organizzata in concomitanza con la presentazione di un libro.

La serata era quasi del tutto trascorsa senza emozioni degne di nota ma, ad un tratto, mentre stavo osservando un quadro appeso in un corridoio distante dal vociare della festa, esso cominciò a parlarmi.

È indubbio il fatto che normalmente un quadro non possegga voce, ma quel quadro verbalizzò esattamente ciò che provavo nell’osservarlo… in un sussurro al mio orecchio destro, l’orecchio che solitamente dedico alle buone notizie.

Sorrisi interiormente e mi voltai lentamente verso destra. Incontrai così lo sguardo dell’uomo che aveva dato una voce al quadro, l’uomo che aveva animato la mia momentanea estasi sensoriale…

Il fascino di Giorgio catturò irrimediabilmente i miei sensi dirottandoli dall’attenzione dedicata al quadro verso di sé, lusingò il mio sentire e fui sua sin dal primo istante.

Ricordo ancora oggi in modo vivo la felicità estrema che mi riaccompagnò a casa. e che mi tenne sveglia, occhi sgranati e sorriso ebete, per tutta la notte, nella convinzione che la mia vita avesse appena compiuto una svolta cruciale.

Giorgio si insediò con facilità nel mio cuore. Del resto, come si poteva non esser fieri di una tale conquista: era un uomo colto, raffinato, sagace…

Questi ingredienti erano sapientemente miscelati in un contenitore avvenente, la fisicità di un uomo che sapeva sfruttare i suoi punti forti valorizzandoli con un’eleganza composta, sempre adeguata all’occasione, mai eccessiva.

Dopo un solo mese di frequentazione fummo intimi al punto tale di decidere di andare a convivere.

Trasferii le mie cose a casa sua e quel trasloco coincise con l’inizio di un processo di separazione fra me ed i miei affetti di sempre, un processo che mi portò pian piano persino a rinnegare ciò che ero sempre stata.

All’inizio non feci caso al fatto che gli spazi che Giorgio aveva riservato alle mie cose fossero decisamente esigui, non interpretai come un segnale allarmante i due cassetti in cui erano stati confinati gli oggetti della mia quotidianità. Pensai piuttosto che si trattasse di un atteggiamento cautelativo. Dipendeva dal fatto che durante i suoi quarant’anni di vita Giorgio non aveva avuto esperienze affettive felici; dunque, stava cercando di minimizzare un legame che non desiderava essere eccessivamente vincolante.

Forse l’impazienza data dalla gioia nel poter condividere ogni istante delle nostre intimità, mi impedì di decodificare le dissonanze che ogni tanto coglievo, i timidi presagi di ciò che il futuro aveva in serbo per me…

Giorgio era un affermato critico d’arte ed io ero segretaria presso una casa editrice. Durante i primi anni di convivenza le nostre serate erano costellate da innumerevoli eventi mondani. Mi sentivo felice e potevo esprimere tutta l’esuberanza dei miei trent’anni. A poco a poco però l’occorrenza delle uscite scemò e fui sempre più confinata entro le mura di casa. Le rare volte in cui si usciva accadeva che Giorgio commentasse pubblicamente il mio modo di comportarmi con affermazioni spesso crudeli che venivano giustificate da un finto intento educativo.

I dieci anni che separavano la mia anagrafica dalla sua, erano il pretesto che lui utilizzava al fine di sminuirmi, tentava di confinarmi nella definizione di un atteggiamento infantile.

Per lungo tempo pensai che avesse ragione. Pensai che la sua profonda sensibilità e la sua vasta conoscenza della vita lo autorizzassero a giudicarmi. Egli poteva vedere chiaramente quali fossero i miei limiti, quanto fossero gravosi… arrivai persino a convincermi che, tutto sommato, potevo ritenermi fortunata se un uomo del suo calibro continuasse a sopportarmi non cedendo alla tentazione di rimpiazzarmi…

Fu così che il mio vivere smorzò gradualmente i suoi colori cosicché tutto venne ricoperto da un velo lattiginoso di indolenza grazie alla quale gli eventi si trascinavano pressoché indolori, quasi per inerzia.

Dovetti rinunciare a divenire madre. Giorgio non era d’accordo.

Gli pareva un atto snaturato ed incosciente… mettere al mondo un povero infelice che sarebbe stato condannato a dibattersi in un mondo che non aveva più nulla da offrire…

Forse però la verità di queste affermazioni risiedeva nei complessi meccanismi mentali di Giorgio. La verità era stata soffocata da un ragionare talmente lucido da far apparire plausibili le motivazioni… ma la verità, sebbene occultata, continua a rimanere tale…

Giorgio era in capace di confrontarsi al pari di un altro, non avrebbe potuto sopportare di generare qualcuno che avrebbe dapprima potuto emularlo e poi superarlo.

Qualcuno gli sarebbe stato simile, qualcuno avrebbe potuto essere migliore di lui…

Talvolta lui mi sfidava, con un tono al limite del sarcastico, commentando la mia immagine nuda allo specchio. Sottolineava che uno dei tanti vantaggi del non essere divenuta madre era l’aver conservato un bel fisico. La mia figura esile sarebbe stata a poco a poco corrotta dallo scorrere del tempo, le ossa del bacino si sarebbero impietosamente allargate ma mai quanto sarebbe avvenuto a causa del peso di una gravidanza. Io dovevo quasi essergli grata per quella sua scelta, mi aveva in qualche modo preservata dallo scempio del degrado fisico…

Mi guardavo ma non trovavo nulla di bello in ciò che vedevo…

Lo specchio restituiva un insieme di linee troppo spigolose, tratti aridi che nulla avevano a che fare con la dolce rotondità dell’esser madre. Mi sentivo sempre più vuota, sempre più inconsistente.

Neppure la mia giornata apparentemente perfetta, organizzata sin nei più insignificanti dettagli, riusciva a dare un senso alla mia esistenza. Ero divenuta schiava dell’archetipo del modo in cui Giorgio voleva vivere, un mondo utopico in cui mi ero smarrita.

Il mio tempo era occupato dalle mille malattie immaginarie del mio carceriere. Era il suo modo di tenere me legata con una catena corta ed il resto del mondo distante da sé. Le sue frequenti emicranie erano da un lato l’alibi per rinchiudersi sempre più in una sorta di tana e dall’altro il crudele ricatto affettivo utilizzato per vincolarmi. Io dovevo occuparmi di lui, dovevo occuparmi della sua salute in quanto il non farlo equivaleva a dire…

«Non ti amo!»

All’esterno non traspariva pressoché nulla di questa nostra tragedia familiare. Soltanto gli amici più fidati riuscivano ad intuire dalla mia espressione sempre più vacua che qualcosa non andava… il resto del mondo catalogava il tutto come uno degli effetti collaterali della genialità di Giorgio… lui era strambo, come tutti i creativi…

 La mia vita si fece angusta, stretta come mani al collo. Cominciai a soffrire di attacchi di panico.

Mi capitava di sentirmi male ovunque, in modo del tutto imprevedibile. Le prime volte che ciò accadde mi spaventai molto ma, una volta compreso di che si trattava, imparai a conviverci.

La biblioteca di Giorgio, come quella di un qualunque ipocondriaco colto, era fornita di ogni sorta di trattato di psicologia clinica. Furono proprio quei libri a svelarmi i più intimi meccanismi dei miei repentini mancamenti, di quella irrefrenabile paura di morire che mi toglieva il respiro e mi faceva sentire piccola piccola.

La mancanza di fiato era divenuta una consuetudine quotidiana al punto tale che quasi gioivo nel sentirmi male, quella sensazione mi costringeva a ricordarmi che ero ancora viva!

Giorgio non sapeva nulla di questo mio malessere, glielo avevo tenuto nascosto. La mia malattia era uno spazio, uno dei pochi, che riuscivo ancora a mantenere privato.

Una mattina qualcosa dentro di me cambiò.

Stavo rifacendo il letto quando mi soffermai ad osservare dall’esterno ciò che solitamente i miei occhi vedevano dall’interno.

Fu così, con uno sguardo lucidamente oggettivo, che notai qualcosa. Mentre guardavo il luogo che ormai parlava solo più di un’affettività negata, rilevai un particolare che mi sconvolse.

Il letto ancora da rassettare era disfatto solo in parte. Infatti, mentre il lato ove dormiva Giorgio testimoniava con stazzonature ed avvolgimenti di lenzuola il suo passaggio, il mio era pressoché intatto. L’unico dettaglio da cui si poteva desumere la presenza di qualcun altro in quel letto era l’impronta lievissima, come una fotografia sbiadita, che aveva lasciato il mio capo sul cuscino.

Immediato mi colse il ricordo di quanto fossi stata diversa in gioventù. Amavo muovermi in qualunque direzione ed il mio letto assomigliava ad una zattera di salvataggio del tutto avulsa dalla quotidianità. Era un posto limitato da confini infiniti in cui potevo esprimere tutto di me, spingendomi persino oltre la spudoratezza.

Stentai a riconoscermi.

Osservai gli oggetti sparsi nella stanza e cominciai a stare male. L’ordine eccessivo delle cose di Giorgio fu il motivo esplicito per cui cominciai a sentirmi male.

Afferrai il mio cuscino e lo strinsi forte al viso. Volevo morire, divenire coerente con l’immobilità della persona che vedevo occupare quel letto eccessivamente composto.

Annusai il mio odore, un dolore lancinante trafisse i miei occhi. Stavo piangendo e le lacrime che scendevano erano state trattenute per così tanto tempo che bruciavano come fuoco.

Giorgio arrivò in quel momento alle mie spalle. Era furente. Stava per arrivare una troupe televisiva che doveva intervistarlo e la casa non era sufficientemente ordinata. Urlava come un pazzo ma le mie orecchie ronzavano così forte che non riuscivo a comprendere cosa dicesse. La governante era stata licenziata durante uno dei suoi accessi d’ira ed io mi sarei dovuta occupare di tutto…

Stavo sempre peggio, il suono del cuore che mi palpitava come impazzito nel petto sovrastava ogni altro rumore della stanza. Il respiro era sempre più affannoso ed a malapena riuscivo a vedere il volto di Giorgio. Era di fronte a me e stava continuando ad inveirmi contro.

Ad un tratto il nulla. Un buio caritatevole ebbe pietà di me e mi accolse fra le sue braccia.

Quando mi risvegliai impiegai parecchio tempo per riaprire gli occhi. Ebbi così modo di rivedere mentalmente la scena, come a rallentatore. Rammentai le ultime immagini prima di perdere i sensi. Vidi il viso di Giorgio. Avevo staccato il cuscino dalla mia faccia e vedevo i suoi occhi iniettati di rabbia conficcarsi nei miei. Le sue parole, ormai prive di senso, come mani gelide mi afferravano il collo rendendo impossibile anche l’ultimo rigagnolo di respiro. Poi… più nulla!

Realizzai che mi trovavo distesa su di un letto, ma questa volta non si trattava del mio. Quando finalmente riuscii ad aprire gli occhi capii che mi trovavo in ospedale. Dedussi ciò dalle lenzuola cifrate, dalla luce fredda del neon, da una flebo che tentava a piccole gocce di dissetare l’aridità della mia fragile vita.

Raccolsi le forze e spostai lo sguardo più lontano, verso una finestra. Le ombre della sera esaltavano il profilo di un qualcosa che confinava il mio sguardo a quella stanza.

Sbarre. Non una semplice inferriata, proprio gelide e solide sbarre.

Mi stupii nel constatare che non riuscivo ad essere né spaventata né sorpresa.

Richiusi gli occhi e frammenti di ricordi si ricomposero svelando il resto di ciò che era accaduto.

Vidi nuovamente Giorgio. Questa volta il suo volto era interamente coperto dal mio cuscino. Il mio odore stava soffocando il suo respiro sino a renderlo meno di un rigagnolo.

A quel punto aprii nuovamente gli occhi. Voltai il viso verso la finestra e guardai con gratitudine le sbarre…

Ora, finalmente potevo davvero riprendere a respirare. Ora, ero finalmente libera!

© Carla Montuschi





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