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Dieci
di Andrej Longo
Pubblicato su SITO
Anno
2007-
Adelphi
Prezzo €
15-
144pp.
ISBN
9788845922275
Una recensione di
Mauro Gerardo Minervini
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Conosciamo le piccole sfere di vetro con dentro l'ambizione di una città: un piazza, uno scorcio noto, panorami. Magari la neve, se le capovolgi.
Napoli delle dieci vite scritte da Andrej Longo non è così: sembra tenuta insieme dalla calotta di vetro di parole-cose, un dialetto reso bastardo dalle voci straniere e tecnologiche con gli accenti sbagliati, dai testi improbabili dei cantanti neomelodici, dal colore scuro degli istinti, che affiorano se si parla obliquo nelle allusioni, se si sparano in faccia gli insulti. Ma qui ci sono fatti da vicolo, da quartiere dormitorio, da giro del mondo in punto solo (come per il ragazzo ingaggiato per l'Afganisthan e schiacciato sotto casa; per la moglie del pizzaiolo pendolare, lei che vive solo il martedì): le dieci storie trasformano il vetro souvenir in cristallo, dove le facce tagliano in pezzi le rifrazioni. Queste vanno da sole per i loro 'tagli' dimensionati, ma nello stesso momento si sovrappongono, diventano 'uno' e si deformano reciprocamente, diventano profezie del futuro, di come si scompare. Dire fatto - nei dialetti del Sud - è solo in parte nominare qualcosa di accaduto: vuol dire spiare come si legano le persone e le cose, un fatto trova un senso solo perché è finito -compiuto – nelle parole. É dare i nomi alle cose – come fa Adamo il primo giorno - in un racconto, il tentativo di un ordine di superficie, suggerito per non impazzire davanti alla vertigine di una ripetizione più feroce, una danza non detta da parole (Longo lo dice in un refrain da discoteca: “Nun parlà che parl'a fà?/Tu 'a penzà sul' a ballà./Allora abballa e nun penzà,/abballa senz' 'e te fermà. ), che non costruiamo, che all'inizio non ci viene rivelata, ma è nostra.
I dieci fatti accennano un intreccio dalle figure infinite, quando la carne, la morte, il diavolo ci fanno diventare noi.
L'impazienza del desiderio, la fame di vita, l'amore del figlio per la madre e la protezione del padre per il figlio (questi amori nati fragili con attese infinite, disperati sempre), il bisogno insieme alla bulimia delle cose, gli sweet dreams di cose di casa e l'incesto quotidiano: sono storie presentate 'da sole', ognuna come un centro, sfaccio del cristallo. Ma questa declinazione della carne - di come siamo deboli e, proprio per questo, deliriamo la forza (in una pistola, nello sguardo da 'guappo', negli stivaletti rosa col tacco dodici)- eccita e fallisce nelle nostre storie. Napoli è solo dove è più facile aspettare di morire: perché qui le vite si addensano, fino a schiacciarsi in uno spazio chiuso, senza un domani che non sia, talvolta, finire una giornata da visitor, la cavia degli spacciatori. Non è più facile solo perché si spara: la morte, qui, è il brulicare della carne che vuole vivere ad ogni costo, fino a mordersi a sangue. Diventa il disfarsi nelle chiese delle immagini barocche dei santi, che una ragazza in stivaletti rosa riconosce simili ai tossici sotto casa.
La consuetudine con la violenza, procurare la morte come un fatto, sembra promettere tutto 'nonostante tutto', sembra offrire il potere sulle cose e trasformare gli altri - quella durezza che non sai attraversare per prendere, che ti fa dolere il cuore troppo vicino a loro -in altre cose da spostare via. Poi dice 'nonostante te': anche quando non hai scelto la sua promessa, già prima che passi per caso su una linea di tiro o ti scippino la pensione, ti pesa sul cuore. Non ti servirà sperare, per salvarlo, tuo figlio come Maradona: il diavolo divide, la morte è solo il suo bisturi.
La Napoli di Longo non è una struttura chimico-fisica amorfa, come il vetro: assomiglia ad un cristallo anche perché 'diavolo'(la parola opposta a 'simbolo'-δια- βαλλω, 'separo'- che invece significa 'ciò che tiene insieme') qui è nelle linee di differenza che non decifriamo, è la regola della danza immobile, della 'distribuzione spaziale ordinata delle particelle'. La carne e il desiderio che divorano se stesse hanno la metodica dell'ordine, cercano l'apparenza della durata anche dove le loro piccole parti non trovano senso, ma in nome dell'insieme. È un ordine vivo, non solo materiale. Dicono i manuali: “l'ordine cristallino si rileva analogamente in polimeri sintetici e nei virus...”.
Ma gli umani si agitano e sperano, fissano lo sguardo verso un cielo di piombo - anche quando è azzurro sul Vomero – in cerca delle forze costanti nella regolarità irregolare, nella loro danza 'cristallina': il libro di Longo si chiama Dieci perché il titolo di ciascuna delle dieci storie corrisponde ad uno dei dieci Comandamenti della tradizione ebraico-cristiana. Gli accostamenti tra una storia e la 'sua' prescrizione biblica sono paradossali, precipitano sulla terra – sporcandola di fango e presente – la voce del santo: come quando il dio unico e geloso diventa il 'sistema', un altro modo cristallino per dire camorra. Qui i paradossi del comando biblico (messo di fronte alla vita quotidiana di un tempo non suo) non mostrano, come invece nel 'Decalogo' cinematografico di Krysztof Kieslowski, l'enigma nella rivelazione, i caratteri non espliciti di un comando che, invece di essere tale, è un destino. Dice solo che il bisturi del diavolo rende inutile un'etica che dica cosa fare: a Napoli, nel 2000, le due rigidità – il destino della carne mortale e tirannica contro il dovere- si intricano quasi ironicamente, deluse l'una dall'altra, fallite nei desideri sconfitti per colpa del desiderio, nel dovere abortito perché il cielo pesa, ma non si vede.
Rimane vivo solo chi è capace di amare in un colpo solo, mettendo tutta la vita in un'attesa (il martedì del pizzaiolo) o giocandosi la vita assennata in un sabato sera, oppure sfidando i killers con un giro di giostra per il figlio. Chi guarda una vittima possibile senza credere “...che piano piano stava diventando un animale, come a quei cani che tengono la pancia aperta, stanno morendo e non si decidono.” A volte i cristalli si infrangono.
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