“Ho ancora nel naso l'odore che faceva il grasso sul fucile mitragliatore arroventato. Ho ancora nelle orecchie e sin dentro il cervello il rumore della neve che crocchiava sotto le scarpe, gli starnuti e i colpi di tosse delle vedette russe, il suono delle erbe secche battute dal vento sulle rive del Don. Ho ancora negli occhi il quadrato di Cassiopea che mi stava sopra la testa tutte le notti e i pali di sostegno del bunker che mi stavano sopra la testa di giorno.”
Anche chi legge ha l’impressione di sentire questi odori o rumori. Rigoni Stern ha la capacità di portare il suo lettore dentro il caposaldo vicino al Don. Ti prende per mano, crea l’atmosfera intorno a te, ti fa conoscere i commilitoni e tu ti ritrovi in Russia, nel periodo della ritirata. Inizi ad affezionarti a Giuanin che continua a chiedere “ghe rivarem a baita?” e te lo domandi anche tu. Senti, tra gli altri odori, quello forte della paura che viene accuratamente nascosto, ma tutti sanno che è lì e che non è di uno in particolare. Ciascun soldato si domanda se tornerà a casa e intanto mescola la polenta cantando canzoni in dialetto per sentirsi sui monti italiani.
Rigoni Stern scrisse questo testo mentre era prigioniero in un campo di concentramento, quando il ricordo dei suoi commilitoni era ancora vivo. Li descrive senza manipolare il loro essere rozzi, senza enfatizzare i loro comportamenti, senza idealizzarli. È un racconto vero, che cattura il lettore e lo fa soffrire con lui. Si avverte il timore di uscire allo scoperto quando devono abbandonare il caposaldo, il freddo, il dolore alla schiena quando si portavano le armi o il male ai piedi per il lungo cammino. E ancora la fame, la voglia di mollare tutto, la velata speranza di essere uccisi per poter cessare ogni tortura e l’opposto desiderio di riabbracciare i cari.
Episodio significativo è quello in cui il giovane sergente maggiore Rigoni, entrato in una isba, trova dei soldati russi seduti a tavola. Questi lo guardano senza fare nulla, lo lasciano mangiare e loro stessi continuano a mangiare. È come se la guerra non ci fosse in quell’umile casa. Rigoni e i russi non sentono il bisogno né di difendere né di attaccare.
“In quell’isba si era creata tra i soldati russi e me, e le donne e i bambini un’armonia che non era un armistizio. Era qualcosa di più del rispetto che gli animali della foresta hanno l'uno per l'altro. Una volta tanto le circostanze avevano portato degli uomini a saper restare uomini. Chissà dove saranno ora quei soldati, quelle donne, quei bambini. Io spero che la guerra li abbia risparmiati tutti. Finché saremo vivi ci ricorderemo, tutti quanti eravamo, come ci siamo comportati. I bambini specialmente. Se questo è successo una volta potrà tornare a succedere.”
Ed ecco l’attualità di questo testo. Nonostante la guerra e i morti quegli alpini non hanno perso la propria umanità e tra le righe delle pagine de “Il Sergente nella neve” c’è la speranza che il rispetto tra gli uomini e il non sentire il bisogno ardente di prendere le armi per difendersi o attaccare diventi un’abitudine.