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Morfeo
di Francesco Gitto
Pubblicato su SITO
Anno
2004-
Casa Editrice: Bastogi
Prezzo €
10-
167pp.
ISBN
8881856360
Una recensione di
Simonetta De Bartolo
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Votanti:
10590
Media
78.89%
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Francesco Gitto, con ammirevole competenza psicologica, ci ipnotizza, fin dall’inizio, con il ben costruito mistero che caratterizza il suo romanzo.
Entriamo insieme a Morfeo nel “Paradiso perduto”, non quello di Milton, ma un paese “dimenticato da Dio”, dove passioni d’amore s’intrecciano con morti misteriose e apparizioni di fantasmi, sullo sfondo di paesaggi tetri e di anime tormentate da incubi e da paure inconsce. Anche noi alla ricerca di un perché, di una spiegazione plausibile alle morti improvvise, alle apparizioni, ma, soprattutto, affascinati dalla dolce e bellissima fanciulla, dalla carrozza nera e dal suo cocchiere, anche noi incuriositi da oscure premonizioni, intrappolati nel vortice di un continuo crescendo di tensione. E’ un iter quello che lo scrittore, a nostra insaputa, presi come siamo dalla narrazione, ci fa seguire per far sì che diveniamo consapevoli, dulcis in fundo, delle paure e dei desideri, che giacciono nelle pieghe più riposte del nostro io, “assetati di felicità. Viaggiamo alla sua ricerca…, Non sempre si può vivere in superficie, qualche volta bisogna andare al fondo delle cose, per scoprire la verità”. Ci ritroviamo, così, impegnati a trovare l’uscita dal verde labirinto della villa degli antenati di Morfeo, avvolta nel mistero, oppure nella “sala degli specchi”.
Morfeo, l’io-molteplice, personaggio inquieto, spinto da un bisogno interiore di renovatio ad affrontare il regno delle tenebre, del disordine, del male, capace di trovare in esso una speranza, di penetrare con la mente il mistero di una spietata, tirannica, oscura forza, protagonista principale, ormai da tante generazioni, della storia del suo casato, quello dei Totig (ci fa pensare al cognome Gitto), desideroso di offrirsi come esempio, novello Prometeo, ad una umanità sofferente, decaduta da una originaria felicità . Lo assecondiamo nei suoi dubbi, nelle sue perplessità. Lo precediamo, a volte, per ipotesi, ma ecco, di nuovo, un altro punto interrogativo.
Morfeo, dio dei sogni, che gli antichi greci e romani credevano fossero messaggi inviati dagli Dei e dai defunti (premonizioni, inganni, ecc.). E’ un po’ difficile distinguere, in quest’opera, l’onirismo dal realismo, grazie all’allegoria, al simbolismo, alle immagini lugubri e alle descrizioni di agenti atmosferici (nebbia, pioggia, vento, ecc.), che immalinconiscono e anticipano, di volta in volta, eventi e stati d’animo del protagonista. Gitto ci confonde attraverso alcuni dei personaggi imprevedibili, indefiniti e cangianti sul piano comportamentale, oppure con il gioco speculare degli anagrammi, come Etnorak o Etrom, signore misterioso e che, nello stesso tempo, manifesta la sua identità attraverso il nero degli abiti e la luce sinistra degli occhi, ma provate a leggere questi nomi da destra verso sinistra… Chiaro, invece, è il riferimento a Venere, bianca come la spuma del mare da cui emerse, “…vidi lei uscire dall’acqua, …in tutto il suo splendore e in tutta la sua bellezza”; una Venere che piange e che sorride e che appare a Morfeo proprio nei momenti più difficili. Tra sogno e realtà, “conviviamo con gli incubi, viviamo mescolati nei sogni, affascinati da ogni loro miraggio”, tra Vita, “un lungo viaggio verso l’Infinito, che scorre come un torrente a volte limpido e chiaro, altre sporco e tortuoso”, e Morte, il “buio più profondo e tenebroso”, campeggia l’atavica lotta tra bene e male, Eros e Tanatos, amore e odio, interiorizzata, attraverso un continuo passaggio dalla fisicità all’io psichico e viceversa, offerta al lettore come rappresentazione di sè: una fabula irreale, dai colori cupi, per un mondo disincantato.
Quella voce profonda, ridondante e lontana, una e molteplice, che, all’inizio e, a volte, alla fine di ogni capitolo, ci mette a conoscenza dell’amara filosofia dello scrittore, che per il particolare editing assume l’aspetto di una voce fuori campo, è la voce di ognuno di noi: “Niente può essere più errato di quello che noi crediamo sia la realtà”.
Una recensione di Simonetta De Bartolo
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