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La sonnolenza delle cose
di Fortuna Della Porta
Pubblicato su SITO


Anno 2010- Lieto Colle
Prezzo € 13- 100pp.
ISBN 9788878485617

Una recensione di Marco Scalabrino
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La sonnolenza delle cose

Nata a Nocera Inferiore (SA) e romana di adozione, Fortuna Della Porta ama definirsi cittadina del mondo. Laureata in Lettere, con assidue incursioni nella filosofia, è stata per alcuni anni insegnante. Scrittore, poeta e critico letterario, crede fermamente nel riscatto dell’uomo attraverso l’arte e confida in un venturo Rinascimento. Infaticabile, suoi articoli e saggi compaiono con regolarità sui maggiori periodici sia cartacei che on line, presidente dell’Associazione Culturale “Le Mele-Grane” con sede a Roma, è alla sua quinta pubblicazione in poesia.

Ciò detto, attese la qualità del lavoro e l’amabilità della persona, la circostanza che ce la rende particolarmente cara e per la quale con immenso piacere oggi la presentiamo è che lei ha abitato, tra il 1987 e il 1990, nella nostra città, a Trapani, e che tuttora, per sua esplicita ammissione, continua a “portarsi dentro le indicibili bellezze dell’Isola.”

Rosso di sera del 2003, Diario di minima quiete del 2005, Io confesso del 2006, Mulinare di mare e di muri del 2008 sono nell’ordine le sue precedenti pubblicazioni. Ad essi bisogna aggiungere, per la prosa: Scacco al re del 2006, una pièce teatrale, nonché Ritratti del 2007, e Labirinti del 2008, racconti.

Rosso di sera, asserisce Monica Cito, è “un diario intimo scandito sul ritmo di un anno. Ci imbattiamo in un verso talora brusco, spesso inatteso, attento a scrutare la realtà nelle sue ingiustizie e disuguaglianze, partecipe degli esclusi e delle contraddizioni del mondo contemporaneo, ma anche curioso di ogni forma creata e tenace ascoltatore delle irrisolte domande dell’umanità”; in Diario di minima quiete, sostiene Giuliana Lucchini, “si azzardano parole insolite accanto a un ripescaggio di terminologia più antica. Non c’è elegia, niente passaggi risaputi; piuttosto, passaggi d’arte figurativa, visioni d’autore. Occhieggiano Dante, forse John Donne, Dylan Thomas. Si cerca qualcosa di forte e di diverso che esiste: la parola perfetta”; quanto a Io confesso, rileva Gino Rago, “la poesia di Fortuna Della Porta scava nei recessi oscuri dell’animo umano e rivela – in un’accettazione montaliana della fragilità del nostro destino – i nostri limiti, le nostre miserie, le piccole nostre morti quotidiane, spesso senza riscatti né resurrezioni. Riesce, così, a farsi unguento e resistenza contro la violenza universale, lo sgomento cosmico, la corruzione della coscienza”; “L’essere, il suo destino e in mezzo la metafora del mare come rappresentazione di una dimensione spazio temporale ineffabile, del troppo vasto per essere compreso ma che tuttavia vene intuito come destino ultimo che ci assorbe e in lui ci discioglie. In questo modo – assevera Gianmario Lucini a proposito di Mulinare di mare e di muri – il mare viene quasi antropomorfizzato e l’io poetico finisce col con-fondersi, anche fisicamente, con il mare stesso, in una sorta di continui rimandi, quasi una fusione che ruota intorno a domande anch’esse cangianti. Il risultato è una specie di altro mondo; un mondo vuoto, sguaiato … una sorta di bizzarra deformazione del reale, avvertita nella dimensione spirituale e anche in quella sensoriale.”

Tra le altre numerosissime testimonianze sull’opera di Fortuna Della Porta riportiamo: Luca Benassi: “Un linguaggio sovrabbondante, mai minimalista o quotidiano. Se da una parte la scrittura viene posta come elemento di necessità, dall’altra viene messa in dubbio la sua capacità di esplorare la realtà, di uscire da un relativismo determinato e da una crisi soggettiva dell’io lirico”; Maria Teresa Ciammaruconi: “Accostarsi all’universo di Fortuna Della Porta significa abbracciare la dismisura, significa salire su un treno veloce che ha fretta di raggiungere i limiti estremi della galassia per rientrare comunque a sferragliare nel cuore di lei eterna protagonista-testimone”; Ilaria Dazzi: “Non smette mai di privilegiare l’elemento creativo, di ordire uno stupore … in una ri-scoperta poetica costante”; Franco Salerno: “Una meta-poesia, cioè poesia sul ruolo e sul senso della poesia, un interrogare la poesia su come la poesia stessa a sua volta si interroghi sulle grandi questioni dell’esistenza.”

Paola Lucarini preferisce soffermarsi sui racconti: “Si attende con ansia la fine, l’epilogo che giunge fulmineo e sorprendente. L’esistenza si gioca sul piano della assoluta precarietà. La nostra progettualità personale di vita, organizzata spesso con cura meticolosa, per un quid dell’imponderabile deraglia e assume un aspetto a volte drammatico o addirittura mostruoso da noi non più controllabile”; mentre sui Ritratti registriamo: sono “racconti in buona scrittura, coinvolgenti, ben definiti dove l’ironia, il reale e il surreale si tengono per mano in un unico grande affresco dell’umanità. Caso e razionalità sono sempre in primo piano e la fisionomia dei personaggi, spesso deformi di segreti e psicologie estreme, si perde in un girare a vuoto nel proprio mondo. Il finale conduce sempre a un altrove, paradossale, impensabile, mai atteso.”

Tratteggiatene, per sommi capi, la figura e le precedenti opere, affrontiamo, dunque, la sonnolenza delle cose.

La copertina, il peso della carta, il carattere, le sue stesse dimensioni sono il viatico di un libro. Quanto più ne condividiamo tali esteriori elementi, quanto più il volume ci piroetta agile tra le mani, quanto più gli occhi ne risultano appagati, tanto più ci accosteremo ad esso di buon grado. A pieni voti superati gli esami di facciata (seducente, in copertina, l’immagine del mitico Endimione in drappo rosso che, addormentato, attende la visita della Luna) e i filtri circa la gradevolezza fisica, accingiamoci a penetrare la sostanza del volume, che consta di circa centodieci pagine e di sedici testi.

Centodieci pagine per sedici titoli: Poemetto di colore scuro, Tra cielo e terra, Le vie dell’anima, Ad Ana Politkovskaja, Ad Assunta Finiguerra che mi chiamò amica, A Giuliana Lucchini, Dal mio scrittoio, Malferma, Tregua, Principio, Il mito (Icaro), Minotauro, Donne di meraviglie (Cassandra), Monologo, Disparità, Commiato … si comprende all’istante che i componimenti non sono, per così dire, di breve respiro. In verità bisogna considerare che quattro di essi sono preceduti da una iscrizione, di cui diremo nel prosieguo, quasi a volerne anticipare la materia e di fatto sono, come talvolta già nel titolo dichiarato, dei veri e propri poemetti: Poemetto di colore scuro, Tra cielo e terra, Le vie dell’anima, Disparità; per contro: Ad Ana Politkovskaja, Ad Assunta Finiguerra che mi chiamò amica, A Giuliana Lucchini, Tregua, hanno più contenuta estensione.

Lucio Zinna, con l’acutezza che gli riconosciamo, in prefazione scrive che la sonnolenza delle cose appare intesa a misurarsi con i grandi temi della poesia di ogni epoca e latitudine. E soggiunge: “Delle cose la poetessa mira a percepire le essenze. E mira soprattutto a cogliere il senso di noi stessi. Comprendere chi siamo è l’obiettivo. E la poesia, in cui il significante si pone ad substantiam acti, si fa sentiero a tale ricerca, secondo i parametri che la poetessa chiama “le vie dell’anima.” Colpisce, in Fortuna Della Porta, il modo di risolvere liricamente argomentazioni e narrazioni, in un variegato, spesso inconsueto gioco di metafore. Immagini della realtà di ogni giorno sono investite da bordate surreali trasfigurandole e facendole apparire come in sospensione. In un singolare capovolgimento dell’asse, non è il soggetto a vedere scorrere il tempo, ma è questo che, impietoso nella sua acredine, “guarda passare” quegli. Dalla contemporaneità giunge l’istanza di una attualizzazione di mitologie bibliche, greco-romane, orientali: l’Eden, Icaro, il Minotauro, Cassandra.”

Giorgio Linguaglossa, nella sua recensione del libro, osserva: “Il complesso discorso metaironico e conviviale di Fortuna Della Porta si snoda in un piacevole “parlato” che si dirama in un delta linguistico attraverso le frattaglie e le miniature, i risvolti della cronaca e i richiami al tempo mitico, il tutto emulsionato e agitato all’interno della clessidra della contemporaneità. La scrittura procede per contaminazione e commistione, immersione-emersione nelle (e dalle) faglie del “parlato”, adottando ed ereditando di questo il calco mimetico, con tutto ciò che di irregolare e di transitorio ne consegue.” E Ivano Mugnaini, dal canto suo, soppesa: “C’è il gusto serio e divertito, profondo senza mai risultare pedante o artificioso, dell’invenzione e della variazione sul tema. Alterna versi brevi e lunghi, metafore piane e accostamenti estremi, acrobatici, mai per il gusto della scena, ma piuttosto per dare forma di parole e di suono ad una esuberanza che è ricerca di quel significato ulteriore che si trova nella magia arcana delle cose, in quello spazio fra sonno e veglia, comprensione e meraviglia.”

Per darvi riscontro della bontà delle affermazioni degli illustri letterati appena evocati, andiamo a ricercare ed estrarre dal testo, invitandovi magari a scovarli in seno ad esso, taluni degli esiti maggiormente felici per formulazione, per estro inventivo, per suggestione: il tempo: / giorni / che stramazzano; la falce della notte … procede a ritroso, / col nero ai fianchi / che infittisce in continuazione; il sogno è l’interregno / che … tarda a calare sui gesti / che non vorrebbero concludersi mai; le stazioni … dividono il pianto, / separano dita intrecciate. / Talora rubano un soldato; l’autunno delle giunture / ha il medesimo passo ferroso / della luce che si accorcia; È l’ago / delle cose avute e date, / attimi o anni di cristallo o di sale, / a cucire l’abito da viaggio; Prima di morire, almeno capire … il significato di me così inutile e cieca / ostinata al respiro; Doppia: / come l’albero / culla e bara, / il fuoco, insieme, / rosso e nero; soprattutto il poeta / veglia sul mondo; la parola del poeta diffonde, talora commuove, / ma di rado è lega dura / da spezzare le catene e convertire; Icaro si libra negli aghi del sole che lo perderanno.

Fascinosi, altresì, certi passaggi onirici: scalza / su un deserto pulito come uno spillo / sto per raggiungere / in questa notte fatata / ogni accampamento, / col lungo viaggio del cammelliere ... la sera muore ignorandosi … e la mia ovatta … ha peripli cremisi, occhi di bistro / ove la conduce la fantasia.

Tra le architetture messe in campo, poi, da Fortuna Della Porta, fa capolino un argot italiano-francese, che sfoggia espressioni e termini quali: hors du temps, au cheval, rien!, déjeuneur, l’homme m’a vue, sous la rue étrangère, s’il vous plaît, je braille.

Ma la poesia di Fortuna Della Porta dispiega altri contenuti e corrispondenti altre soluzioni che vale la pena di vagliare, al fine di appurarne l’ampio spettro delle realizzazioni.

Ne segnaliamo, qui, alcuni su questioni di natura personale, sentimentale e sociale, sottolineando che non necessariamente l’io poetico e l’io autobiografico debbono coincidere: un amante segnò su di me / il suo piacere / ripetutamente / come una vittoria o un diritto. / Non domandò: io piansi. / Mi fece scorrere sulla nuca cera bollente; d’improvviso un frullo / nella mia testa avanza / che lascio a sgranare / il tempo acre che in solitudine / mi guarda passare; ancora oggi / sottomessa / al peso dell’incerto / al pessimismo della ragione / alla finitudine; di Cettina e Maria mi coglie un rimpianto tardivo / in punta di penna / ma non so immaginarle se non segnate da rovinose maternità / e mani consunte dalle asperità del dovere; l’umanità negletta o sfruttata / possiede solo quelle spine, / ha scarpe di cartone / per vedersela con gli scogli / e di solito si abbevera di acqua salata; che si dica / clochard, homeless, barbone / si parla di fughe; riprendere la strada / almeno / per portare in salvo / la fame di un bambino.

Accanto a tali avanzate esecuzioni sono parimenti presenti, nel segno viceversa della tradizione letteraria, filastrocche, cantilene, scioglilingua, con rimbalzi di rime, di assonanze, di omofonie, con le quali si cerca, giusto nella apparente lievità, di ottenere l’attenzione dell’altro, di veicolare il proprio messaggio, di attrarre il lettore sul terreno di argomenti nondimeno estremamente seri:

erba-caverna / caverna-magenta / magenta-lucente / magma e semente; dolcetti scherzetti fumetti … labia visi rifatti / bigotti nel pozzo dei matti / botox per rughe di ratti … e abiti per mondi di fiaba / in vendita un tot la pelle / nella terra delle cose belle … Pizie pizzi pazzi pizze / banchetta chi è sazio / digiuna chi ha fame / in terra a furor di reclame. / Nella Casa del Parapiglia / si ciarla a tutta briglia / dietro viene chi arranca / e ciurli chi me ne striglia.

Una speciale menzione meritano due testi, entrambi assai belli: il primo dedicato ad Ana Politkovskaja (peraltro laureatasi con una tesi sulla poetessa Marina Cvetaeva), la giornalista russa assassinata nel 2006 nota per il suo impegno in favore dei diritti civili; il secondo ad Assunta Finiguerra, una tra le autrici dialettali italiane più amate dell’ultimo decennio, scomparsa nel 2009. I testi meriterebbero ambedue di essere riprodotti per intero; valgano tuttavia per essi, solo a mo’ di esempio, dei concisi rispettivi stralci: Anna dimostrò … che un cencio di denuncia / aiuta ad asciugare una piaga … ma neanche una volta / un fucile uccide la verità e l’onore; Certe bocche parlano col fuoco. / Hanno nella parola braci / nella penna lume di torcia / nel cuore / il giuramento indissolubile all’incendio dell’arte / asservito all’umiltà. / A tale fuoco si struggono i poeti.

Si è fatto cenno dianzi a delle iscrizioni. Ebbene eccone degli scampoli: “Per quanto tu possa andare, viaggiatore delle sette lune, delle sette tuniche, delle sette fiasche di lacrime … neanche … canuto e il piede carico d’anni … neanche allora giungerai ai confini della terra”. Campeggia il rimando al numero sette, cifra che ha una spiccata accezione simbolica; tra il sacro e il profano, alludiamo solo: ai peccati capitali, ai veli della danza di Salomè, alle meraviglie del mondo antico, ai giorni della settimana, alle vite di un gatto, agli anni di studio “matto e disperatissimo” di Giacomo Leopardi, ai nani di Biancaneve, alle note musicali, eccetera eccetera; “La morte, non è niente per noi, dal momento che, quando noi ci siamo, la morte non c’è e quando essa sopravviene noi non siamo più”. Epicuro libera così l’uomo dalla paura della morte; “Ti avverto, chiunque tu sia. Oh tu che desideri sondare gli Arcani della Natura, se non riuscirai a trovare dentro te stesso ciò che cerchi non potrai trovarlo nemmeno fuori. Se ignori le meraviglie della tua casa, come pretendi di trovare altre meraviglie? In te si trova occulto il Tesoro degli Dei. Oh! Uomo conosci te stesso e conoscerai l’Universo e gli Dei”. Questa iscrizione sovrasta il tempio dell’oracolo di Delfi, l’oracolo più importante di tutto il mondo greco, il cui santuario era chiamato “ombelico del mondo”; “I fatti non cessano di esistere solo perché noi li ignoriamo” è una asserzione di Aldous Leonard Huxley, scrittore britannico, 1894 – 1963 (il 22 Novembre, lo stesso giorno in cui morì John F. Kennedy), famoso per i suoi romanzi di fantascienza, da molti reputato “il padre spirituale” del movimento hippie.

Sembrerebbero adombrarsi, specie da queste ultime notazioni, degli intenti pedagogici nella produzione della Nostra. Probabilmente, sì, in parte essi vi sono. Ma lo spirito vero, profondo, non crediamo sia quello di prevaricare il lettore, di calare dall’alto un monito perché questi ne tragga pedissequamente una lezione, di far scivolare fra le righe la sua mission; prevale piuttosto il sano proposito di trasferire al lettore quelle esperienze, unicamente perché questi possa compiutamente e liberamente meditare su di esse.

Raffinata accumulazione di esiti, accurata scelta lessicale, ampio potenziale semantico, elevato spessore lirico: una sorta di rincorrersi di immagini, alla quale non è estranea la propensione filosofica dell’Autrice, che vanno a comporre il puzzle screziato della nostra esistenza.

Sonnolenza è, per definizione, lo “stato di torpore provocato da bisogno e voglia di dormire”; per estensione, lo “stato di inerzia, di torpore spirituale, di inattività.” E, cioè, la svogliatezza, la pigrizia, l’abbandono.

E allora, per quanto sopra esposto, il titolo, siamo convinti, è da intendersi quale una bella e buona provocazione, che mira giusto ad ottenere l’effetto contrario alla sonnolenza e si ricollega dunque direttamente alle fondamenta del suo pensiero, ovvero all’agognato “riscatto dell’arte”, al prossimo Rinascimento che lei agogna verrà.


Una recensione di Marco Scalabrino



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