Con gentilezza tutta femminile, Antonietta Gnerre conduce il lettore nella sua galleria di “danze” di ricordi, sentimenti, stati d’animo, emozioni, “nomadi pensieri”, in cui azzurre luci di “speranze/colme di desideri”, “aquiloni di preghiere” e chiaroscuri di tramonti che pungono fino alle lacrime si alternano con le ombre della solitudine, dell’inesorabile trascorrere del tempo, dello smarrimento e del vuoto esistenziale e si legano, in una felice continuità espressiva, che è nello stesso tempo continuità della storia dell’anima, a immagini che, prescindendo da normali rapporti logici, senza per questo generare artificiose giustapposizioni, sorprendono per l’originalità delle similitudini e delle associazioni di parole cariche di suoni, profumi, sapori. Il recupero memoriale, come ricerca del senso della vita, rende vago ed indefinito, addolcisce il passato triste, lo “felpa” nel sogno, riscalda di danze il rigore invernale, inebria lo spirito, diventa malinconia che si affida alle acque dell’Oceano, è voce, che ritorna, di un amore, Mario, che si fonde col sole, con Dio e, nello stesso tempo, genera la paura della morte, del non esserci per poterlo perpetuare in eterno. Se la vitrea fragilità della luce, dei cieli, della pioggia, degli esili steli, dei “friabili” “rami lunari” è, per la poetessa, dura, immutabile e dolorosa realtà dell’esistente, se l’inverno del vivere erige contro di noi “un muro normanno” e la morte ed il tempo ammutoliscono le “voci umane” e mute giacciono “le pietre sacre dei popoli” sotto la luna che le addormenta, di contro “l’arida steppa” torna a rifiorire “nell’affanno delle spine”, sulle quali avanza la salvezza della storia e l’anima s’annega nell’immensità rassicurante e consolatrice della fede, squarcia i cieli e trova il varco verso Dio. La sofferenza dell’esistere, dignitosamente accettata, non cede al vittimismo e ai toni melodrammatici e, pur nutrendosi di autunnali nostalgie e pianto, prende la sua giusta dimora nell’essenzialità di una poesia rivelatrice dell’interiorità, libera dal peso di strutture erudite e da inutili ed ingombranti ornamenti, soffusa di spiritualità, proiettata verso l’infinito e l’universale, in un’identità d’ispirazione ed espressione, in cui la ricerca della parola, la rinuncia alla punteggiatura e l’uso di particolari figure retoriche non sono puro esercizio formale, né ostentato esperimento tecnico fine a se stesso, ma fanno parte di un inevitabile, quanto naturale, travaglio creativo. Una poesia sorvegliata ed equilibrata, in cui un attento lettore se pur rinviene qualche eco leopardiana (“questa aria benigna”; la presenza della luna) o manzoniana (il dolce tormento amoroso, le preghiere e il chiostro; il nome assente alla mente che ritorna), si rende conto da subito della maturità di uno stile personale, moderno ed inconfondibile; una poesia in cui gli affetti familiari, fortemente vissuti, sono pudicamente accennati, in cui prende posto l’amore sofferto, “si spacca il mio cuore”, per la propria terra, “album di radici amare”, per il “Sud dei tormenti”, ora avvolto in un’atmosfera di sogno, ora terra dimenticata, immersa nel sonno di “lunghi meriggi”, di silenzi invernali, ora culla di un potere che nega i diritti alla povera gente, ora catturante col verde dell’Irpinia, abbagliante con le rive scolpite di luce della Puglia, infine ricordo capace di “ripulire le lacrime dell’inverno”. Ma la poesia si sostanzia di universali valenze etiche, diventa inappellabile condanna della guerra, della pedofilia, condanna e doloroso, silenzioso ricordo degli orrori nazisti, amara constatazione della sofferenza umana nel “fosso di questo secolo”; infine, consapevolezza che “sopravvive a se stesso il poeta” e che “Vigila l’eternità sulle ossa distillate/quando galoppano le parole/nella selva dei cipressi”. (Recensione tratta dal sito culturale www.labileabile-traccia.com)