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Vergogna
di John Maxwell Coetzee (trad.G.Bona)
Pubblicato su SITO


Anno 2005- Editore Einaudi
Prezzo € 11- 234pp.

Una recensione di Carlo Giuseppe Diana
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 Vergogna

Il racconto scivola intrigante sin dalle prime righe, con la semplicità d’una scrittura che rimanda la sensazione di essere seduti su di una slitta, al polo. Sembra prendere per mano il lettore e condurlo nella prima fila delle grandi occasioni. E’ schietto, sin da subito diretto e mordace, tanto che in una manciata di pagine si ha già la percezione del gusto corposo, del boccone pieno. Un appetito che accompagna la lettura sempre in bilico tra languore e sazietà.

John Maxwell Coetzee, premio Nobel per la letteratura nel 2003, ha sempre raccontato il realismo e “vergogna” non manca l’appuntamento. Disillusione narrata per mezzo del protagonista prof. David Lurie, cinquantenne, pelle bianca, insegnante alla università di Cape Tawn. L’opera si snoda dentro spazi fisici e temporali relativamente limitati, stretti entrambi nella morsa degli accadimenti ineluttabili. Ridotti a nulla quando il racconto volge alla fine.

Tutto è disegnato sullo sfondo post-Apartheid del Sudafrica. Quel realismo che fende impertinente le opere di Coetzee, scava anche qui sentieri impietosi, tanto nel rappresentare lo squallore medio di un uomo medio, mediamente occidentale, di pelle bianca; quanto nel tratteggio della gratuita violenza dell’uomo nero, proposta come diritto acquisito dal nuovo corso della storia sudafricana. L’esito perverso del riscatto.

Coetzee dipinge la desolazione di una esistenza costruita sui punti saldi della razionalità occidentale, definiti tali anche da sociologi dello spessore di Zygmunt Bauman: benessere economico e culturale, fuga da responsabilità affettive, relazioni brevi e fugaci, costruzione razionale di una comoda ed asettica solitudine (cfr. di Z. Bauman “voglia di comunità” ed. Laterza 2003; “Amore liquido” – ed Laterza 2005).
Questo accade subito, sin nelle prime pagine, non come semplice provocazione ma alla stregua di uno schiaffo violento e inatteso.

Il protagonista ha architettato la propria esistenza tenendo al guinzaglio sentimenti e passioni. Si dedica all’insegnamento con scrupolo ma senza troppi entusiasmi, ricambiato con la stessa moneta leggera dai propri studenti. L’interesse professionale – David è studioso di poesia inglese – si adagia sin dentro la sua vita privata ma senza una vera convinzione. Esso appare insignificante e piatto, in sintonia con l’esistenza del protagonista. David lavora ad un’opera che in realtà non ha in realtà né capo né coda, né pregio alcuno, se non nella velleità disegnata dalle fantasie dell’autore. Ma è l’unico territorio emotivo che il protagonista frequenta. Arreso a due divorzi, con una figlia a centinaia di chilometri, nessuna voglia di tentare un altro legame affettivo, il prof Lurie appare ormai privo di vita emotiva. Anche le passioni sembrano razionalmente organizzate, dalla prostituta del giovedì, al tentativo di produrre un’opera sul poeta inglese Byron. Porte disegnate sul muro.

Tutto incomincia, la vita del prof. Lurie viene scossa, quando gli eventi cancellano dal muro anche quella idea fantastica di accesso, costruita così accuratamente, tanto che David s’era persuaso che una finzione potesse davvero sostituire la realtà. Serrata anche quella porta, il protagonista sembra rigettato nella vita vera dalla sua incontenibile e mai sopita passione verso le donne.

E le ritrova, le donne, vive, nella loro carne, nei loro sentimenti, in quella femminilità complessa che il protagonista sembra aver vissuto finora in modo confuso, approssimato ma soprattutto dentro una semplificazione comoda ed egoista.

Dopo la breve e sconvolgente relazione con la sua studentessa Melanie, causa dello scandalo traumatico e pretesto narrativo per i successivi eventi, sulla scena il femminino matura e si compie gradualmente. In sequenza, compaiono la preside della sua facoltà, l’ex moglie, la figlia, una contadina nera, l’animalista convinta. La versione classica del materno femminino è appena accennata nella figura di donna matura, madre di Melanie, sullo sfondo. Mentre l’occhio indugia più insistentemente su di una maternità all’esordio, nel ventre della propria figlia Lucy ed in quello della contadina nera sua vicina.

Il femminino si fa man mano protagonista del racconto per il tramite della risolutezza della figlia, giovane donna fedele alla sue scelte di vita anche quando diventano scomode, pericolose, ai limiti del possibile. Il femminino è tracciato nel suo attaccamento alla terra, ad una piccola fattoria, tormentato da violenza e sottomissione, ma vivo, fecondo. In quella terra nascono ancora figli, emozioni forti, sentimenti pervasivi, rabbia . Contraltare all’apatia del protagonista che incarna un’esistenza pressoché anonima, conchiusa dentro regole d’una moralità tanto normale quanto oppressiva, che riesce ad inibire ogni forma di creatività, da quella artistica e letteraria ( l’opera del prof. Lurie ristagna ) a quella erotica e sentimentale, ridotta a mera funzione sessuale, nonostante il sincero desiderio del protagonista d’accedere a forme più sublimi di entrambe.

E’ un racconto in cui si confrontano e si contrappongono generi, culture, generazioni. Persino gli animali, i cani, assumono a tratti una funzione centrale. L’ingenuità naturale della bestia la destina inesorabilmente a vittima e diventa sede di compassione ma anche rinascita di quella solidarietà che fra gli uomini sembra scomparsa. Lontano da inclinazioni retoriche, Coetzee disegna il sentimento della pietà, in prossimità dell’ultimo congedo, nel rapporto tra il protagonista ed i cani. Le relazioni fra gli uomini appaiono ormai segnate dalla estraneità. E’ necessario introdurre animali sofferenti, corpi straziati di bestie, per destare un segno di pietà. L’insistenza di Coetzee sulle procedure per la uccisione di animali affetti da malattie inguaribili, fino alla meticolosa descrizione del trasporto e dell’incenerimento delle carcasse, non è deriva maniacale né del racconto né del protagonista. David è ormai solo, isolato dal mondo degli uomini trova conforto nel fiato d’un cane azzoppato, nella fisicità di quella lingua che gli insaliva la mano mentre egli intona due note demenziali ad un vecchio mandolino, simbolo d’una creatività che non cresce, d’una vita che non palpita più, della sua vecchiaia che sente incombente, ineluttabile. Ma l’animale non valuta, non apprezza, non giudica. Il cane sente, semplicemente sente e semplicemente gli ricambia pietà. Il cane zoppo è il ventiquattresimo a morire fra le sue braccia quella domenica mattina. Muore alla fine del ventiquattresimo capitolo.


Una recensione di Carlo Giuseppe Diana



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