La foto di copertina, "I disastri della guerra" di Gottfried Helnwein, che affida la ripulsa per gli orrori della guerra alla tristezza infinita di un bambino chiuso in una incongrua divisa e allo smarrimento di uno sguardo, ci immette immediatamente nel clima di questo libro duro e disturbante a cui l'autrice imprime il segno della sua prosa personalissima, capace di esprimere crudezze e crudeltà inattese nella sua forma armoniosa ed elegante, di mescolare lucidità ed empatia creando personaggi di grande intensità psicologica.
"Il treno dell'ultima notte" affronta una tematica forte e tragica, raccontando storie di gente comune costretta nella trappola della Storia, e comprende tutti i temi portanti della scrittura di Dacia Maraini: figure femminili forti, (oltre alla figura di Amara, è difficile da dimenticare, per il forte impatto emotivo che suscita, il personaggio della madre di Emanuele, stravagante, zingaresca e coraggiosa), il tema della violenza, dell'ingiustizia, il tema dell'infanzia come Eden violato e perduto.
E' un libro nato nella sofferenza, avendo accompagnato un periodo doloroso della vita dell'autrice,- gli ultimi due anni della malattia e della morte del suo compagno-, e questa contiguità col dolore si respira accrescendo la drammaticità dell'opera. La vediamo spandersi fin dall'inizio come una nebbia inquietante che spegne il cuore, che strania le cose privandole del loro senso profondo; è già presente prima di addentrarci nel cuore della tragedia, come preludio, nella percezione angosciosa del Natale, nel senso di straniamento davanti alle luci della festa "insensate", ai festoni che assumono un'aria di lutto.
Il libro racconta la storia di Amara, una giovane donna venticinquenne che nel 1956 compie un viaggio oltre la cortina di ferro, per incarico del giornale per cui lavora, (e si troverà anche ad assistere all'invasione dell'Ungheria, disillusione storica che chiude amaramente un ciclo, trasformando in oppressori i liberatori di ieri, e che anticipa la disillusione umana di un'altra lacerante trasformazione), ma soprattutto per ritrovare un piccolo amico d'infanzia, Emanuele, -a cui è legata da un rapporto profondo di amore-, scomparso durante il periodo del nazismo e della persecuzione degli ebrei.
La narrazione procede con un percorso realistico ma al tempo stesso attraverso evocazioni e rimandi, che diventeranno più chiari alla fine del romanzo-v.ad esempio l'episodio di Mei-Mei, narrato proprio all'inizio da uno dei viaggiatori sul treno, che con la sua incompleta agnizione non riscattata dal lieto fine, contiene in sé in filigrana la cifra di tutto il racconto-.
Il viaggio di Amara è insieme viaggio di formazione e favola crudele ("sette paia di scarpe ho consumato..."), la sua ricerca è volontà caparbia di riportare indietro il tempo, di riappropriarsi di un passato edenico. Unilateralmente, Amara ha ordinato al tempo di fermarsi, e ora manca solo che sia la dimensione dello spazio a venirle incontro, ricollocando in un luogo accessibile ai sensi ciò che è già presente nella sua realtà interiore. Amara non è ancora pronta, come la moglie del console Shumacher, a capire che c'è un'altra dimensione, quella del cuore, dove custodire coloro "che sono morti/ o come i morti sono per noi perduti."
Sbalzata in una realtà spietata, in un mondo senza redenzione, con le disperate lettere di Emanuele come lasciapassare per il labirinto, incontra,-di pari passo col recupero psicologico del suo vissuto familiare-, il capovolgimento dei valori e la sospensione della coscienza per cui "una persona per bene" è chi ha saputo tenere in ordine l'appartamento, come l'ufficiale SS che ha abitato nella casa requisita alla famiglia ebrea mandata a morire, incontra la verità insopportabile dei campi di sterminio, l'indifferenza e il sonno della ragione.
E alla fine incontra Emanuele, che però non è più il "suo" Emanuele, è Peter, uno sconosciuto che rinnega ogni angolo del suo passato felice, che è al tempo stesso sommerso e salvato, che vive ancora nell'incubo a lei estraneo.
Emanuele-Peter per Amara sono due persone diverse; e per questo Emanuele non le appartiene più. Appartiene a Brunhilde, che lo ama anche così, incattivito e ferito, che lo ha conosciuto così ma sa che dentro di lui c'è ancora una traccia del bambino allegro e fragile di un tempo. Brunhilde li ha entrambi, li ama entrambi, mentre Amara li ha persi entrambi, perché non può accettare la mutazione feroce della persona amata, del bambino che rappresentava la gioia, il profumo pulito della campagna, dell'infanzia, del sogno, che le diceva di salire più su, più su, sull'albero di ciliege, e che ora, come nel finale del romanzo, può solo apparire nell'incubo per portarla giù, in profondità ctonie dove come la Leonora di Burger finirebbe con lo sprofondare, perdendosi.
Eppure da questo crudele viaggio iniziatico Amara riporta comunque con sé un elisir-per usare il termine del Vogler per il suo Viaggio dell'eroe-, un elisir appunto amaro come il suo nome e come ogni consapevolezza che trasforma, che avvia una metamorfosi. Impara che non basta tenere in mano il capo di un filo per salvare l'eroe dal mostro. Impara che non c'è niente che noi possiamo controllare, che il nostro percorso non si intreccia col gioco dell' "hazard". Impara che Orfeo non deve scendere a Euridice. Impara che la Morte è anche la trasformazione, la mutazione , la non riconoscibilità della persona amata.
Ma al tempo stesso impara a sopravvivere, impara che la vita prende, che forse anche una precoce primavera può far sbocciare il fiore. E il treno, il trenino giocattolo dell'infanzia che prima girava in tondo senza mai arrivare da nessuna parte ora diventa vivo, deraglia, tragicamente ma forse anche catarticamente. E- forse- deraglia verso l'alba.