Avevo ascoltato in varie circostanze frammenti del libro, letti dall’autrice, sempre colpita, dall’armonica scansione del verso, severa e costante, e ancor più dall’affascinante ricchezza lessicale, nella quale coglievo l’eleganza formale del costrutto e del termine della più nobile tradizione. Notavo, nel frattempo, la naturalezza e la pertinenza nell’uso di vocaboli poco comuni, l’assenza di retorica, l’empito dell’emozione sorvegliato.
L’impressione di una poesia di spessore è stata del tutto confermata dalla lettura personale dell’opera. È evidente che la formazione della Cruciani affonda in una solida cultura classica e nella conoscenza dichiarata e diretta, rivelata in un ringraziamento finale, dei maggiori autori di ogni tempo.
Come confessa l’autrice, in quest’opera fanno capolino molti nomi illustri da Dante, a Proust, a Yeats, per citarne qualcuno.
Una poesia, allora, che si dipana in ampiezza, in senso lato, sia per l’uso assiduo di ipermetri sia per l’abbondante flusso di immagini e metafore, come di rado se ne leggono nei giorni nostri, da quando si è preferito il verso contratto e singhiozzante.
Ogni tempo, di solito, sposa un suo canone più o meno condiviso, ed oggi è davvero insolito incontrare un’espressione così piacevolmente gonfia, ciò che costituisce la grazia originale e seduttiva della poesia della Cruciani.
A tutta prima si nota appunto il verso abbondante che occupa tutta la pagina, tanto esuberante per lunghezza da superare anche un doppio endecasillabo e accuratamente cadenzato in quel ritmo che non perde mai la sua solennità: ritmo adeguato a cantare un mestissimo dolore: la morte di un genitore.
L’intensità del sentimento espresso dai versi, ci tocca. L’autrice vorrebbe quasi inseguire il padre, inghiottito nell’aldilà, per non perderlo per sempre, per completare le cose interrotte, dire le parole non dette. Ma su tutto balugina il turbamento di fronte al mistero della morte, quasi un tentativo di svelarlo attraverso la rivelazione che il padre ha ricevuto nell’atto di chiudere gli occhi e intraprendere la via del confino.
Ma tu l’hai vista la morte, oppure l’ho vista solo io sul tuo volto?
La Cruciani è abilissima nell’analisi dei suoi stati d’animo e molte sono le sfumature del suo sentimento di cui bisogna dare conto: dolore per la perdita e la separazione, rabbia e impotenza di fronte all’evento, straniamento del cuore nei confronti di un fatto naturale, ma anche innaturalissimo nello stesso momento.
Tutto questo si concretizza in precise impossibili domande:
Perché attraverso lo specchio dei tuoi occhi non mi hai rivelato quell’attimo? / Non hai fatto sbirciare anche a me l’eterno? L’hai goduto da solo.
La raccolta, un monologo che si dilunga quasi a protrarre indefinitamente l’ultima stretta col padre e che fa assumere all’opera l’unitarietà del poemetto, si incentra, come si diceva, sul dolore della separazione, sullo sgomento della creatura di fronte all’inspiegabile sostanza del sonno eterno, per la quale un corteo di poeti in armi ha perso in guerra i vocaboli per scolpire l’apocalisse, ma è in primo luogo un atto d’amore, quello che si rivela questo libro.
Tu non invecchierai mai padre, non vedrò mai le tue tempie imbiancarsi, le / deformazioni mostruose della vecchiaia insultare il tuo corpo possente. Tu / rimarrai bello, hai portato la bellezza con te nell’eternità.
Taluni eventi traumatici rimettono in gioco le certezze esistenziali e ci inducono a meditare sul senso del passaggio terreno e sul ruolo delle gerarchie e delle priorità che regolano le scelte quotidiane. Accade anche alla nostra Flaminia che, attraverso gli impossibili quesiti che pone al muro di frontiera dietro il quale è finita l’esistenza del padre, ha bisogno di ridare un nuovo valore alla vita. In questo tentativo di ricollocare il mondo, non può evitare il dubbio, come accade di solito dopo dolori feroci.
Amata fede, io ho un dubbio.
E più avanti:
Ho percorsa tanta strada a rincorrere me stessa. Ho percorso tanta strada per / elidere il dubbio…la verità si è addormentata per sempre.
Alla fine, proprio attraverso questi versi, si comprende il messaggio del libro che è lamento funebre, dichiarazione d’amore postuma, stupefazione di trovarsi a contatto col più difficile problema della vita, ma è più di tutto una ricerca, uno sprofondamento in se stessa per rintracciare, dopo la personale tragedia, di nuovo un ancoraggio solido. Non a caso la parola eternità, col suo contiguo eterno, torna di tanto in tanto a proporre il limite verso il quale l’autrice vorrebbe spingersi, ma naturalmente ne resta al di fuori.
La Cruciani è cosciente del dramma dell’essere umano, spinto dalle sue qualità intellettive verso l’alto, ma destinato alla resa dell’inconoscibile, malgrado ciò si rende conto che deve apprendere il margine della saggezza o della follia che permettono di sopravvivere, se non vuole soccombere.
Quasi con distacco Flaminia analizza i suoi ruoli di compagna, di viaggiatrice… per carpirne il significato che poi deve trasferire in canoni più generali, per non perdersi, mantenersi salda nella rotta e ultimare i compiti che le toccano. La soluzione, tuttavia non sembra a portata di mano. La realtà si mostra squallida, la ragione incapace di trovare punti di vero. Dall’introspezione emerge nella nudità che è tipica di ogni creatura.
Infelice la ragione che vuole sollevare la veste.
Altrove:
Talora incontro qualcuno che vuole convincermi del giorno, ma io so che mente perché la luce è un’allucinazione, allora gli volto le spalle.
La conclusione di cupo pessimismo è malinconica. Nei limiti umani, non sono concepibili certezze, categorie e regole universali. Anche lo sforzo della Cruciani sembra, dunque, naufragare sui vincoli imposti dalla contingenza, che chiude gli individui in una notte perpetua, ma ci resta un testo avvincente come un romanzo, intimo come un diario, emozionante come sa esserlo la poesia.