L’ultimo scritto pubblicato da Milan Kundera che ripropone due brevi brani scritti in anni precedenti ma ancora attualissimi.
Massimo Rizzante, traduttore e amico di Milan Kundera, afferma che lo scrittore boemo, dopo avergli consegnato il manoscritto di La festa dell’insignificanza per la traduzione italiana, gli aveva detto: «Ho chiuso bottega!». (M. Rizzante, Kundera: un altro testamento tradito?, 25 Giugno 2022).
Come spesso avviene, l’inevitabile incedere degli anni, infatti, porta molti artisti ed intellettuali a considerare terminata la loro opera non avendo altro di originale da aggiungere a quanto già fatto.
Affermava a tale proposito lo stesso Kundera: «Si pensa sempre che un romanziere abbia le proprie radici in un paese. Non è così. Come romanziere egli affonda le proprie radici in alcuni temi esistenziali che lo affascinano e sui quali ha qualcosa da dire. Al di fuori del cerchio magico dei suoi temi, perde tutta la sua forza» (M. Rizzante, Un dialogo infinito. Note in margine a un massacro, Effigie, Milano, 2015). Kundera aveva ritenuto di aver esaurito i suoi temi.
Tuttavia nel 2021 lo scrittore ha pubblicato in Francia e l’anno successivo in Italia un libello dal titolo: Un Occidente prigioniero (traduzione di Giorgio Pinotti, Adelphi, Milano, 2022) contravvenendo, in un certo senso, alle sue affermazioni.
“In un certo senso” in quanto non si tratta di un’opera originale.
Il breve scritto, infatti, composto da 85 pagine e corredato da note e da due prefazioni una di Jacques Rupnik, esperto di storia e politica dell’Europa centro-orientale e l’altra di Pierre Nora, storico francese e Accademico di Francia è composto da due testi: La letteratura e le piccole nazioni e Un Occidente prigioniero, rispettivamente una conferenza tenuta dall’autore davanti all’Unione degli scrittori cecoslovacchi nel 1967, uscita ne «Les Temps modernes» nell’aprile del 1968 con il titolo Culture et existence nationale, e un saggio uscito nella rivista francese «Le Débat» (n. 27) nel novembre del 1983 con il titolo Un Occident kidnappé ou la Tragédie dell’Europe centrale.
Probabilmente lo scritto avrebbe meritato una presentazione più approfondita sottolineando le diverse circostanze e i due diversi momenti storici nei quali i due brani furono concepiti e realizzati, tuttavia ritengo si tratti di un ottimo prodotto, molto attuale.
Il testo, infatti, mondato da alcune incrostazioni temporali legate soprattutto alla presenza dell’URSS e al suo dominio sui cosiddetti “paesi satelliti”, fa emergere alcune domande che appaiono, oggi come allora, decisive.
La cultura è importante per la creazione e la sopravvivenza di un popolo?
Fino a che punto un popolo (soprattutto se non di grandi dimensioni) deve lottare per difendere la propria cultura e quindi la propria identità e non invece confluire in una nazione – popolo più grande?
Quale valore ha la cultura per l’Europa? Può essere ancora considerata come centrale nella costruzione di una società comune?
Quanto conta il destino dei popoli della Europa centrale per quelli dell’Europa occidentale?
Soprattutto la riflessione sul ruolo della cultura mi sembra estremamente importante e attuale e non procrastinabile se si vuole costruire una società a misura d’uomo.
L’Europa a volte sembra, invece, aver dimenticato il ruolo centrale della cultura intesa non come valore e contenuto per pochi, ma come valore condiviso sul quale poggiare ogni costruzione sociale.
Questa dimenticanza mi pare ben esemplificata da queste parole dell’autore tratte dal suo secondo brano: «Quando in Cecoslovacchia liquidarono tutte le riviste, l’intera nazione ne era al corrente e avvertiva con angoscia l’immensa portata dell’evento. Se in Francia o in Inghilterra sparissero tutte le riviste, non se ne accorgerebbe nessuno, neppure il loro editore» (p.72).
Quale importanza e rilevanza ha la cultura nel nostro quotidiano?
«Nei Tempi moderni, quando il Dio medievale si trasformò in Deus absconditus, la religione cedette il posto alla cultura, che divenne la realizzazione dei valori supremi attraverso i quali l’Europa si concepiva, si definiva, trovava un’identità. Mi sembra che nel nostro secolo si delinei un altro mutamento...Così come Dio cedette un tempo il posto alla cultura, tocca oggi alla cultura cedere il suo. Ma a che cosa o a chi?...Non so, non lo so proprio» (p.66).
Un libretto, quello di Kundera, che ritengo nel complesso molto interessante, più che per le interpretazioni che fornisce (che come ogni interpretazione è dubitabile pur essendo, nel caso specifico, sempre storicamente ben sostenuta) per le intuizioni che suggerisce e le questioni che solleva che non possono, come uomini e come europei, non sollecitarci.