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Il
formicaio: visioni del mondo futuro in Valery
e Montale
A cura di Claudia Feleppa (da PB12)
"Noi,
le civiltà, ora sappiamo che siamo mortali"
: è la celebre frase con cui Valéry
apre la Prima lettera de La crisi del pensiero
del 1919. Il dramma della Grande Guerra, "questa
sorta di Giudizio penultimo" , ha imposto
all'Europa l'esperienza traumatica della propria
finitezza e chi come Valéry vive a cavallo
tra le due guerre non può che valutare
gli eventi con lucido pessimismo. "Siamo
una generazione particolarmente sfortunata"
ammetterà il poeta già nel 1922
"alla quale è toccato veder coincidere
il proprio passaggio nella vita con l'arrivo
di questi grandi e spaventosi eventi la cui
risonanza riempirà tutta la nostra esistenza"
. Sebbene Valéry affermi più volte
di odiare le profezie, queste parole ne hanno
quasi il tono, soprattutto considerando che
la morte coglierà l'autore del Cimetière
marin nel pieno della seconda Guerra Mondiale.
Di fronte a questi avvenimenti epocali l'intellettuale
europeo, o l'"Amleto intellettuale"
affacciato su "un'immensa terrazza di Elsinore",
si ritrova a contemplare "milioni di spettri"
e a interrogarsi sul senso della transizione
dalla guerra alla pace e sulla direzione che
prenderà il mondo. Il passaggio verso
la pace agli occhi di Valéry appare ancora
"più oscuro e più pericoloso"
di quello inverso perché la pace "è
quello stato delle cose nel quale la naturale
ostilità degli uomini tra loro, si manifesta
attraverso delle creazioni, invece di tradursi
in distruzioni" . Egli ha ben compreso
come i conflitti alla base della prima Guerra
Mondiale siano tutt'altro che appianati e teme
che con la pace non si faccia altro che sviluppare
nuove tecnologie in grado di portare ancora
maggiore distruzione. Il pensiero di Valéry
è straordinariamente lucido e coerente.
Scorrendo i suoi vari saggi, lo si vede tornare
più volte sugli stessi temi, anche a
distanza di decenni, con la naturalezza di chi
riprende un discorso appena interrotto. Egli
sembra applicare anche alla prosa lo stesso
sistema di varianti e l'infinito labor limae
che caratterizzano i suoi lavori poetici.
Nel 1928 l'impressione della Grande Guerra è
ancora molto viva in Europa: "una guerra
lunga e generale sconvolge in ogni mente l'idea
che questa si era formata del mondo e del domani"
. Valéry nega che sia possibile formulare
qualsiasi previsione per il futuro: "oggi
non sappiamo che cosa ci aspetta, quali perturbazioni
generali e quali perturbazioni interne all'Europa
dovranno verificarsi, né verso quale
nuova forma di equilibrio graviterà il
genere umano nei tempi venturi" . Eppure,
scrive ancora nel 1929, anche la Grande Guerra
in fondo "non è stata altro che
una conseguenza molto funesta, ma diretta e
inevitabile, dello sviluppo dei nostri mezzi"
.
Per l'uomo occidentale (nell'ottica di Valéry
sempre homo europoeus) non c'è niente
di più difficile da concepire "della
limitazione posta alle velleità intellettuali
e della moderazione nell'uso della potenza materiale"
. Egli ha sviluppato ogni invenzione fino alle
sue "risultanze estreme" cercando
sempre di trarre "con il massimo tornaconto
e in ogni occasione, le conseguenze più
rigorose e più eccessive" , ma la
sua conoscenza si è dimostrata incapace
di "salvare qualsiasi cosa" e la scienza
(frutto dell'albero della conoscenza), è
stata disonorata "dalla crudeltà
delle proprie applicazioni" e colpita "mortalmente"
nelle sue "ambizioni morali" .
Eliminando dunque ogni considerazione di ordine
morale, politico o estetico, in che cosa consiste
il progresso? Per Valéry si riduce ad
un incremento "rapidissimo e molto tangibile"
di "potenza (meccanica)" e "precisione"
nelle previsioni. Considerando questi presupposti
è facile intuire come mai Valéry
fallisca "più volte" nel tentativo
di sviluppare "un'idea positiva di ciò
che si definisce progresso" . Una delle
domande che il poeta si pone più spesso
è se sia davvero possibile per l'uomo
moderno fare delle previsioni certe. L'umanità
per molto tempo ha continuato a "entrare
nell'avvenire indietreggiando" , ovvero
ha basato le proprie previsioni sull'esempio
fornito dalla Storia. Oggi, che i cambiamenti
della società dipendono "sempre
più dalle scienze positive" e "sempre
meno da ciò che è stato",
è il "fatto nuovo" ad assumere
tutta l'importanza che "la tradizione e
il fatto storico possedevano fino a questo momento"
. L'uomo moderno si trova quindi a dover fronteggiare
una "crisi dell'imprevisto" dovuta
alla mancanza di equilibrio tra capacità
di previsione, conoscenze e mezzi di azione
. Dove rintracciare le cause di questo "disordine"?
Per Valéry proprio nel Pensiero, perché
l'organizzazione del mondo moderno si plasma
a immagine dell'intelligenza umana soprattutto
in ciò che essa ha "di più
impersonale" : "l'uomo ha cercato
nella natura tutto quanto poteva servire come
strumento e come potere per rendere le cose
che lo circondavano scattanti, instabili e mobili
come lui, e mirabili, assurde, sconcertanti
e prodigiose come la sua intelligenza. Ora l'intelligenza
non può prevedersi, non può prevedere
se stessa. Noi non prevediamo né i nostri
sogni né i nostri progetti; raramente
prevediamo le nostre reazioni. Se dunque imprimiamo
al mondo umano le caratteristiche della nostra
intelligenza, esso diventa altrettanto imprevedibile;
ne fa il suo disordine" .
Per quanto riguarda invece l'incremento della
potenza meccanica, esso è innegabile,
ma è anche vero che "all'uomo moderno
capita talvolta di essere sopraffatto dal numero
e dalla grandezza dei suoi stessi mezzi"
. "Possiamo dire" scrive Valéry
"che tutto ciò che sappiamo, e cioè
tutto ciò che possiamo, ha finito per
opporsi a ciò che siamo" , inoltre
il nostro progresso "si paga" e la
moneta di scambio è la libertà:
"non vi è uno solo di questi ingegnosi
attentati contro la natura che per via diretta
o indiretta, non ci renda, al contrario, un
po' più sottomessi a quest'ultima, e
non faccia di noi gli schiavi della nostra potenza,
esseri tanto più incompleti quanto meglio
equipaggiati, e i cui desideri, i cui bisogni
e l'esistenza sono trastulli del loro medesimo
ingegno" .
Ciò che domina veramente la nostra epoca
è il "macchinismo": "La
macchina governa. La vita umana è da
lei rigorosamente incatenata, sottomessa ai
voleri terribilmente esatti dei meccanismi.
Queste creature dell'uomo sono esigenti. Adesso
reagiscono contro i loro creatori e modellano
questi ultimi sul loro stampo. Esse hanno bisogno
di umani ben addestrati, di cui, poco per volta,
cancellano le differenze, rendendoli conformi
al loro funzionamento regolare e all'uniformità
del loro regime. Queste macchine si costruiscono,
quindi, un'umanità su misura, quasi a
loro immagine" .
Questo processo di riduzione del Soggetto a
"cellula" di un ingranaggio (che Pasolini
designerà col termine di omologazione),
può essere raggiunto soltanto coinvolgendo
sia elementi biologici che psichici dell'uomo.
Bisogna insomma spingere l'umanità ad
aderire volontariamente al "meccanismo"
ed evitare che si fermi a riflettere sulla propria
condizione. La "macchina", ovvero
"il mondo occidentale" , riesce a
raggiungere questo risultato grazie ad un precipuo
controllo sui tempi e sui desideri dell'uomo.
Nello sviluppo dell'artificiale il tempo che
il Soggetto può dedicare alla propria
interiorità, ovvero alla calma e alla
riflessione, è neutralizzato. La realtà
temporale è ridotta al presente, al minuto
presente: "Ognuno si sente immediatamente
ridotto alla propria sfera immediata di percezione
e di azione. Il futuro e il passato di ciascuno
si stringono in maniera straordinaria; ci ritroviamo
ridotti al semplice campo dei nostri sensi e
delle nostre azioni immediate" . Il tempo
è macchinico: istituzionale e tecnologico.
"Il decimo, centesimo di secondo cominciano
a non essere più trascurabili in certi
campi pratici" . All'interno della coscienza
del Soggetto si instaura così una nuova
temporalità: quella dell'animale tecnologico.
Nel frattempo la "macchina economica"
si impegna a costruire dei bisogni inediti da
far assumere dagli uomini come fini. Il limite
della "macchina" però è
che può offrire soltanto "oggetti"
o "servizi" legati perlopiù
a "funzioni vitali", ma non è
assolutamente in grado di realizzare "bisogni
assoluti", perché questi rispondono
soltanto a "disposizioni individuali"
.
È evidente come questo sistema abbia
delle notevoli somiglianze con i regimi totalitari:
"Non si direbbe forse che l'organizzazione
politica, in più di un paese, tenda a
modellarsi su questo schema creato dalla grande
industria? Ciò che oggi si chiama dittatura
attiene a un tentativo di trattare l'edificazione
costante dell'"ordine sociale" secondo
il modello che si è imposto nelle grandi
aziende e società di produzione di cui
parlavo. Tutti questi meccanismi richiedono
una precisione estrema e una vigilanza permanente
sulle deviazioni individuali. Quali che siano
le loro differenze nominali e ideali, essi possono
esistere solo attraverso una semplificazione
degli individui che permetta di orientarli in
modo identico entro il campo di forze dello
Stato; ed è importante che tale modificazione
agisca fin nel profondo effettivo e intellettuale
di ciascuno di loro. È necessario quindi
che i sentimenti, le idee e gli impulsi siano
come prefabbricati, prima di essere consegnati
al consumo delle menti e al nutrimento delle
anime da un essere centrale".
Il brano è tratto dalla lettera-prefazione
di Valéry per Métier d'homme di
Raoul Dautry . È il 1937, ma i confini
di una simile visione il poeta li aveva già
tracciati fin dal 1919 quando, a conclusione
della Prima lettera de La crisi del pensiero,
aveva previsto la costituzione di quella futura
"société animale", ovvero
"une parfaite et définitive fourmilière"
, di cui l'uomo sarebbe presto divenuto "cellula":
"Addio spettri! Il mondo non ha più
bisogno di voi. Né di me. Il mondo, che
designa con il nome di progresso la propria
tendenza ad una precisione fatale, cerca di
unire ai benefici della vita i vantaggi della
morte. Una certa confusione regna ancora, ma
ancora un po' di pazienza e tutto si chiarirà:
vedremo infine apparire il miracolo di una società
animale, un perfetto e definitivo formicaio"
.
Al termine di questo "sguardo sul caos"
Valéry è il primo a chiedersi
se esista una qualche speranza per il futuro.
La sua risposta è un'estrema difesa dei
valori europei e mediterranei che hanno permesso
lo sviluppo delle grandi civiltà del
passato. L'Europa, "la nostra Europa",
nata con un "mercato mediterraneo",
ha saputo trasformarsi in "una grande fabbrica",
non nel senso macchinico, ma "una fabbrica
in senso proprio", ovvero "una macchina
per trasformazioni" e soprattutto "una
fabbrica intellettuale senza paragoni"
. Oggi è necessario ritrovare quella
"sensibilità" che ha permesso
ai grandi artisti del passato di creare opere
straordinarie proprio perché concepite
con "l'intenzione di durare" .
La difesa di Valéry di "tutti i
valori superiori del pensiero" si concentra
in particolare sul linguaggio perché
esso non costituisce solo la base della comunicazione,
ma è anche il presupposto necessario
per ogni tipo di "rapporto fiduciario"
su cui si fonda l'etica dei singoli e delle
nazioni civili: "Credere alla parola umana,
che sia parlata o scritta, è per gli
uomini fondamentale quanto il fatto di fidarsi
della solidità del suolo" . In fondo
anche la pace non è che "un sistema
di convenzioni, un equilibrio di simboli, un
edificio essenzialmente fiduciario".
Ed è proprio con l'idea di erigere una
sorta di monumento alla lingua francese che
Valéry compone La Jeune Parque, redatta
"sub signo martis" negli anni della
Grande Guerra. A questo proposito in una lettera
del 1917 indirizzata ad Albert Mockel, egli
scrive: "Talvolta cercavo di convincermi
che bisognasse almeno lavorare per la nostra
lingua, non potendo combattere per la nostra
terra; che bisognasse erigere a questa lingua
un piccolo monumento funerario, fatto delle
parole più pure e delle sue forme più
nobili: un piccolo tombeau senza data".
Sullo stesso argomento, in una lettera del 1929
a Georges Duhamel: "Avevo finito per dirmi
che stavo compiendo un dovere, che rendevo un
culto a qualche cosa di perduto. E mi paragonavo
a quei monaci del primo medioevo che ascoltavano
crollare l'intero mondo civile intorno al loro
chiostro e credevano solo alla fine del mondo,
eppure scrivevano in esametri duri e oscuri,
degli immensi, ardui poemi destinati a nessuno.
Confesso che il francese mi sembrava una lingua
in punto di morte, e che mi sforzavo di considerarlo
sub specie aeternitatis" .
Lo slancio creativo di Valéry avviene
sempre pros charin, verso la grazia, come egli
stesso dichiara ad apertura del dialogo Eupalinos.
Non si tratta però di un sogno "progressivo",
di un'utopia vitalista o sociale alla ricerca
di "magnifiche sorti", ma del desiderio
di comporre uno charme, un incanto appunto,
capace di arginare almeno per un momento il
disordine del mondo. D'altra parte, come ammoniscono
le fate nelle ultime battute del Mon Faust,
la parola è potente, è addirittura
in grado di trasformare la realtà: "La
Parole a pouvoir sur la Métamorphose,/Tu
devrais le savoir, toi qui sais toute chose".
Grazie a questo potere di trasformazione anche
la morte può trasfigurarsi in una dimensione
mediterranea. Nel Cimitero marino infatti la
morte è sul mare, "e il mare",
scrive a questo proposito Elio Franzini, "è
il simbolo del ciclo classico in cui la morte
è rigenerazione, possibilità di
metamorfosi". Questa dimensione antropologica
e mitica per Valéry può nascere
solo nello sguardo sul mare perché qui
esistono le "condizioni naturali"
che costituiscono le qualità della conoscenza:
"chiarezza, profondità, vastità,
misura".
Una delle immagini forse più suggestive
che Valéry dedica a questo argomento
si trova in un saggio del 1933 intitolato Inspirazioni
Mediterranee. Qui Valéry ricorda un episodio
della propria giovinezza trascorsa a Sète,
città portuale sorta ai piedi di una
collina stretta tra il canale del Midi e il
Mediterraneo:"Un mattino, all'indomani
di una pesca molto fruttuosa durante la quale
si erano pescate centinaia di grandi tonni,
stavo andando al mare per fare un bagno. Per
godere di quella luce meravigliosa, presi ad
inoltrarmi in una piccola gettata. Di colpo,
abbassando lo sguardo, intravidi, a pochi passi
di distanza, sotto l'acqua straordinariamente
calma e trasparente, un orribile e splendido
caos che mi fece fremere. Delle cose di un rosso
disgustoso, delle masse di un rosa delicato
o di una porpora profonda e sinistra, giacevano
là
Riconobbi con orrore lo spaventoso
mucchio di viscere e di interiora di tutto il
gregge di Nettuno che i pescatori avevano ributtato
in mare" . Combattuto tra "il disgusto
e l'interesse" il ragazzo non riesce ad
allontanarsi dall'acqua e stupito dalla "sensazione
di bellezza reale e insolita" che quei
"colori organici" suscitano in lui,
si ritrova ad immaginare ciò che un artista
avrebbe potuto trarre da quello spettacolo.
Intanto l'onda "infinitamente lenta"
che culla "tutta quella strage", la
riveste di un "impercettibile fremito d'oro".
Nasce così un paragone spontaneo tra
l'azione del mare e quella dell'arte: l'arte
è come "quel limpido e cristallino
spessore" attraverso il quale il giovane
Valéry osserva "quelle cose atroci":
"l'arte ci procura uno sguardo che può
contemplare ogni cosa".
Nel
1959, esattamente 40 anni dopo il grido d'allarme
lanciato da Valéry ne la crise de l'esprit,
Montale si trova ad affrontare l'epoca de les
effets des effets anticipati e previsti dal
poeta francese. Più che attardarsi sui
pericoli dell'"ubriacatura scientifica"
e il cattivo uso delle macchine, (denunciati
fin dai tempi di Goethe), Montale si interroga
sull'uso dei nuovi mezzi che l'umanità
ha a disposizione e sui loro effetti sull'uomo
stesso: "quale potrà essere il "buon
uso" dei mass media in un futuro formicaio
umano eventualmente scampato alla guerra atomica?
Quale buon uso potrà farsi dei viaggi,
dello sport, del cinema, della radio, della
televisione, [
] quando dovranno essere
pianificati e imposti in modo coattivo i loisirs
a miliardi di uomini ormai liberati dai lavori
più gravosi? Come potrà avvenire
che lo spirito di "massificazione"
rivolga contro sé stesso gli strumenti
che ha inventato?" .
In altre parole, l'uomo di oggi, "ingranato
in forze più grandi di lui, eterodiretto,
guidato non solo dai mass media ma da mille
motivi economici e sociali, sempre meno libero
e probabilmente sempre meno desideroso di esserlo"
, si trasformerà domani in un "uomo
formica" , biologicamente sviluppatissimo,
ma psichicamente depauperato di quei "moventi
oscuri" che hanno sempre alimentato le
grandi costruzioni del pensiero e dell'arte?
Le ipotesi più ottimistiche prevedono
che l'uomo resterà "estraneo alla
macchina" , che non solo non ne verrà
modificato, ma anzi sarà in grado di
"volgerla a migliori fini" ; l'osservazione
invece dimostra che "l'uomo-massa"
non solo accetta il proprio destino, ma lo favorisce
e incoraggia: "Le comunicazioni di massa
sono il fondamento della nuova industria culturale,
fatalmente portata ad allargarsi su un piano
sempre più basso, raggiunto il quale
sarà sempre possibile sperare in nuove
bassure, realizzando l'ipotesi di un futuro
uomo stereofonico, incapace di una visione analitica
del reale, refrattario ad ogni possibilità
di sintesi e di sintassi" .
Quella che Valéry chiamava "sensibilità"
per Montale è pietas: "Finché
durerà la società del consumo
(e quale altra è all'orizzonte?) ben
difficilmente potranno risorgere forme, schemi,
mezzi espressivi che richiedevano meditata attenzione
e il sentimento, la pietas di perpetuare modi
di sentire e di vivere del passato".
La costruzione di un possibile futuro deve passare
attraverso la difesa di quegli stessi valori
fondamentali già citati da Valéry:
"sarà la cultura, la cultura umanistica
che potrà salvare l'uomo" ; la tecnica
è necessaria, ma "una tecnica che
prescinda dal senso dell'uomo, dalle verità
della religione e della filosofia morale non
può portare che a una paurosa involuzione".
In questo clima sociale di tetro vitalismo,
di rassegnata fiducia o di cupa sfiducia nelle
sorti di una scienza che ignora i suoi stessi
fini e colloca i destini dell'uomo nell'ordine
delle probabilità e non delle certezze
, la perdita di armonia tra uomo e ambiente
è il primo e più tangibile risultato
ottenuto: "La innaturalità, dicono,
è appunto il destino dell'uomo, uscito
dallo stato di natura per entrare nella sua
fase artificiale. Nell'uomo sapiente c'è
ancora qualcosa di naturale, di scimmiesco,
che ora deve estinguersi in vista di un'altra
epifania. Avremo un giorno l'uomo totalmente
selfmade, costruito da sé, fabbro dei
suoi destini, padrone, se non dell'universo,
del suo mondo" .
Come si presenterà questo "nuovo
mondo"? L'immagine che Montale traccia
è a dir poco inquietante: si tratta del
dilagare della cosiddetta "fonduta psichica"
, "una sfera di psichismo in continuo aumento
di spessore", una "cappa sempre più
fitta di informazioni e di visibilità
proiettate a distanza", una sorta di "crema
o crosta psichica" , forse un greffe di
valeriana memoria che anticipa e prepara la
futura "crosta dell'arte" destinata
ad avvolgere il mondo e gli uomini tutti. Tale
incrostazione è composta dei materiali
più eterogenei: "Di carta igienica,
di giornali e libri, di dépliants e annunzi
pubblicitarî, di sternuti e ruggiti, di
visioni accampate su una tela o su un vetro,
di suoni messi insieme, per darci un'impressione
fisica motrice, dinamica, di notizie e nozioni
buttate là da appositi venditori di fumo,
e in sostanza di tutto un vociferante abracadabra
che dovrebbe dire all'uomo solo: Ci siamo anche
noi, non sei tanto solo".
Eppure anche nella moderna società standardizzata
in cui l'espressione artistica è considerata
merce di consumo -soggetta quindi alle mode
e alle regole di mercato- l'autentica creazione
artistica resta, ed è destinata a rimanere,
"opera rara di isolati, senza popolo, purtroppo"
. La posizione critica di condanna che Montale
assume nei confronti della massificazione sociale
è ben espressa dalle parole dell'"insolito
conservatore" del racconto Amico del popolo
del 1949: "Oggi l'arte non può avere
soste, angoli morti, fasi di riposo. Il tempo
si è fatto celere, la brillante trovata
di un giorno è l'accademia, la barba,
del giorno successivo. Esperienze che una volta
avrebbero occupato intere generazioni sono consumate
nel giro di poche settimane. Paul Klee, il pittore
che ha scritto: "Ci vuole un popolo per
l'artista" si è rifugiato, per conto
suo, in una squisita arte stenografica, fatta
di ideogrammi e di allusioni. Non trovò
il popolo, che effettivamente oggi manca; ma
non gli sarebbe importato nulla della massa
che volete sostituire al popolo. E poiché
la massa probabilmente prevarrà sul popolo
(la democrazia americana ha rubato la parola
alla pubblicistica del marxismo e l'ha fatta
sua) è verosimile che un'arte di popolo
anche in avvenire mancherà di qualsiasi
fondamento. Dico una arte, nel vecchio senso
umanistico o semplicemente umano; naturalmente
avremo espressioni, comunicazioni di massa,
mode decorative, letterarie, ecc. Fatti pratici,
non arte".
Nel "grande formicaio dei surrogati e delle
avventure individuali" la sovrabbondanza
di arte e di nuovi artisti potrebbe condurre
alla morte dell'arte stessa: "time is money
e il nostro tempo cerca un'arte che faccia a
meno del processo formativo dell'arte stessa;
cerca il frutto ignorando l'albero. È
una ricerca che durerà, si può
presumere, ancora molti anni se le condizioni
di vita dell'uomo occidentale non muteranno
radicalmente; ma il suo risultato è già
prevedibile; e se non ci sarà propriamente
la morte dell'arte (troppi aruspici sono già
stati smentiti in questa profezia) sarà
l'aprirsi di un limbo dal quale l'arte dovrà
risorgere coi suoi vecchi attributi: frutto
dell'uomo intero e non di una sua attitudine
particolare che cammini per conto suo, per vie
sue".
Montale ipotizza anche che la cultura di massa,
proprio per il suo "carattere effimero
e fatiscente", potrebbe produrre, "per
necessario contraccolpo", una cultura d'"argine
e riflessione". Ma la prospettiva sui tempi
di tale processo non è delle più
incoraggianti: "la vita dell'uomo è
breve", mentre "la vita del mondo
può essere quasi infinitamente lunga".
Nel frattempo le nuove condizioni in cui si
svolge la vita umana continuano ad essere "pochissimo
favorevoli alla creazione artistica, ma infinitamente
aperte ad ogni sorta di surrogati". In
questo senso è in atto una grande trasformazione
e gli intellettuali (molti dei quali engagés)
sono pronti ad accoglierla con entusiasmo: "non
nego ch'essi debbano accettarla" ammonisce
Montale "nego solo ch'essi pretendano d'essere
uomini liberi".
Per il poeta non è necessario un engagement
politico, quello morale invece sì, è
un obbligo perché rappresenta "una
presa di posizione verso l'umanità intera,
verso il mondo. È la ricerca della ragione
di vivere. Ma il poeta non se la propone nemmeno,
altrimenti non è neppure un poeta".
La capacità di raziocinio, di rivolta,
di pensiero autonomo dell'individuo costituisce
sempre una prospettiva di salvezza di fronte
al prodotto più immediato scaturito dalla
società, il robot, l'uomo-macchina totalmente
subordinato ad una tecnologia imperante. La
solitudine dell'artista diviene, nel mondo montaliano
del futuro, una sorta di privilegio da difendere
contro la massa dilagante, un punto fermo del
suo ruolo di "conservatore insolito":
"Mi interessa solo di conservare alcune
dimensioni dell'anima umana. Non sono certo
che se esse andassero perdute potrebbero risorgere
un giorno, in altro modo. Solo difendendole,
potremo trasformarle. La storia non ricupera
più ciò ch'è andato irremissibilmente
perduto". Queste "dimensioni dell'anima
umana" da conservare e tramandare fanno
parte di quella tradizione europea e mediterranea
della misura umana in rapporto al reale, sintetizzata
dalla sentenza di Protagora tanto cara a Valéry:
l'uomo misura di tutte le cose.
Quello di Montale non è un invito a mettersi
"al di sopra della mischia", ma a
"restare ad occhi aperti" sottointendendo
probabilmente l'estremo monito di Valéry
di "tenersi pronti a tutto, o a quasi tutto"
, nella speranza che se non proprio "magnifiche",
le "umane sorti" siano almeno "tollerabili".
D'altra parte "vivere il proprio tempo
restando sull'allarme è tutto quello
che può fare oggi chi si fregi e insieme
si vergogni - com'è giusto - della screditata
e controversa qualifica di intellettuale. Altre
soluzioni a breve scadenza non sapremmo immaginarne".
© Claudia Feleppa - kaya007@libero.it
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