Forse
nessun grande autore della nostra letteratura
è tanto conosciuto in Italia, anche per
effetto dei programmi scolastici, quanto palesemente
ignorato allestero, come Alessandro Manzoni.
In un libretto degli anni 60, delle letture
di italiano ad uso degli studenti britannici,
trovo scritto, con uningenuità
un po acidina, molto inglese, una frase
che posso tradurre così: Sebbene
in Italia Manzoni divida con Dante una fama
pari a quella di Shakespeare da noi, ed i suoi
caratteri sono familiari agli Italiani di tutte
le classi sociali, il romanzo è in pratica
sconosciuto in Gran Bretagna, allinfuori
della stretta cerchia degli studenti universitari
di italiano. Il gentile professore inglese
ha poi lonestà di consigliare una
traduzione inglese dei Promessi Sposi, anche
perché il romanzo, letto in lingua originale,
è francamente lengthy, lungo.
Su questo punto credo che anche parecchi studenti
di scuola superiore si possano essere trovati
daccordo: ma si sa che a scuola, non sempre
si riesce a godere appieno delle bellezze che
ci vengono elargite.
Come osserva argutamente Daniel Pennac in Come
un romanzo, qualunque testo faccia parte
dei programmi scolastici diventa subito una
palla per lo studente medio. E quel che
capita a Balzac, Flaubert e Zola in Francia,
avviene a Manzoni in Italia, anche perché
studiare un romanzo non vuol dire, ahimé,
sempre leggerlo nelle migliori condizioni di
spirito.
Tuttavia, losservazione dellillustre
professore britannico è giusta: in fondo
la storia, i caratteri e lambientazione
dei Promessi Sposi è ben nota alla maggior
parte di noi, tanto è vero che i vari
sceneggiati televisivi tratti dal romanzo manzoniano
sono stati grandi successi, a partire da quello,
girato ancora in bianco e nero proprio negli
anni 60, per la regia di Sandro Bolchi
e con la consulenza letteraria di Riccardo Bacchelli,
che aveva per interpreti gli allora giovanissimi
Paola Pitagora come Lucia Mondella e Nino Castelnuovo
come Renzo Tramaglino, mentre Lea Massari era
unintensa Gertrude, Monaca di Monza.
Conoscenza profonda e generalizzata dei caratteri
e delle situazioni: ecco, questa è la
tipica situazione in cui è possibile
una parodia del romanzo. E parodie non ne sono
mancate: ricordiamo per esempio in TV quella
del Trio Lopez-Marchesini-Solenghi una ventina
danni fa.
In letteratura, era un po difficile provarcisi:
prima di tutto perché Manzoni obiettivamente
intimidisce, anche per le sue frasi ad effetto,
che ogni studente di scuola superiore si è
trovato a rimuginare qua e là, iniziando
da Quel ramo del lago di Como
Orbene, questo matrimonio non sha
da fare, né domani né mai,
Come parli, frate?, Carneade,
chi era costui? e, perché no La
sventurata rispose, frasi che non si possono
riscrivere a parole proprie, come da tipico
esercizio di scuola media, in quanto sono il
risultato di un lungo lavoro che le ha portate
ad aderire perfettamente a quel che vogliono
esprimere. Sarebbe come pretendere di parafrasare
La donna è mobile/qual piuma al
vento: belli o brutti che siano, quei
versi, in quel contesto e sotto quella musica,
funzionano. E non è un caso che i librettisti
dopera per praticamente tutto lOttocento
giungano direttamente dallArcadia a Manzoni,
senza fermarsi per esempio su Foscolo né
tantomeno Leopardi. La musicalità degli
ultimi due è diversa, non meno poetica
certo, ma non adatta alle necessità dellopera,
come invece le ariette metastasiane o gli inni
manzoniani sono.
Insomma, perdonati (spero) gli accostamenti
un po irriverenti e resi i dovuti onori
a Manzoni, la sostanza del discorso è
che non si possono parodiare I promessi
sposi se non li si adottano in blocco,
e da essi si tiran fuori quelle che ci sembrano
incongruenze, cose sottaciute (per esempio i
famosi asterischi coi quali Manzoni scrive i
nomi di persone e di luoghi che, ancora a duecentanni
di distanza è meglio non conoscere) e
specialmente ciò che stona nellambientazione.
Un lavoro per cui non basta uno studente spiritoso
e volenteroso, perché richiede di conoscere
il romanzo manzoniano come le proprie tasche.
E un lavoro, detto tra le righe, da scrittore
professionista. E quanto a professionismo, negli
anni 20 pochi lo erano di più di
quel Guido Verona, ebreo, che si era aggiunto
il Da tra nome e cognome per sembrare più
dannunziano, e che si piccava di essere un romanziere
osé, un po alla Pitigrilli insomma,
con la differenza però, ostentata da
Da Verona, che lui la vita che descriveva, bellissime
donne, locali notturni, lucenti automobili,
hotel di lusso, viaggi allestero e gioco
dazzardo, la faceva davvero, mentre su
Pitigrilli qualche dubbio è lecito nutrirlo
(per carità, non è che la vita
alla Da Verona facesse, a lungo
andare, eccessivamente bene alla salute né
al conto in banca
). Molto dannunziano
o meglio gastoniano, dalla celebre
macchietta di Petrolini, ma con la differenza
che Da Verona si era tenuto ben fuori da guerre
e scaramucce, ed aveva avuto il suo più
grande successo coi suoi romanzi scandalosi
proprio durante la I guerra mondiale. Il suo
primo romanzo fu Colei che non si deve
amare (1911), seguito dallo scandaloso
e tragico La donna che inventò
lamore (1915), considerato il suo
romanzo più riuscito.
Il più grande successo di Da Verona,
Mimì Bluette fiore del mio giardino
(1916), a parte il titolo un po alla Wertmüller
(ed in effetti divenne anche un film con Monica
Vitti nel 1976 per la regia di Carlo De Palma),
bene esprimeva quellansia di lussi, di
passioni sfrenate e dinternazionalità
un po paesana, proprio del pubblico dellepoca.
Mimì Bluette fu un trionfo,
qualcosa come centomila copie vendute. E siccome
in Italia lo scandalo si perdona, ma il successo
no, specie se a decretarlo sono le donne (buona
parte dei lettori di Da Verona erano lettrici),
dopo la Lettera damore alle Sartine
dItalia (1924), Da Verona entrò
in un periodo di difficoltà, oltre che
economiche, personali: malvisto dai critici,
aderì al fascismo, ma portandovi una
sgradita mentalità cosmopolita (un internazionalismo
più da tabarin che da Società
delle Nazioni, in verità), e ricevette
un duro colpo, lui ebreo, dai Patti Lateranensi.
Non è illogico pensare che la Conciliazione
dell11 febbraio 1929 diede una buona spinta
a Da Verona per attaccare lo scrittore cattolico
per eccellenza sul suo stesso terreno: il romanzo
di Renzo e Lucia. I Promessi Sposi
di Da Verona, scritti proprio in quellanno,
ma datati beffardamente Anno 1623- Anno 1929,
passarono sotto un autentico calvario di persecuzioni:
furono sequestrati per vilipendio alla religione,
alla morale ed allideologia fascista,
anche perché per completare la beffa
apparivano sul frontespizio come unopera
di Manzoni-Da Verona. Inoltre, lo scrittore
fu aggredito e malmenato da un gruppo di giovani
universitari fascisti mentre era in compagnia
delleditore DallOglio in Galleria
a Milano, che contestualmente bruciarono in
piazza copie del libro saccheggiate dalle librerie
in centro. Per Da Verona fu una specie di testamento
artistico, perché smise di scrivere poco
dopo, morendo poi nel 1939 di tumore, anche
se alcune fonti parlano di suicidio, si dice
anche per il dispiacere infertogli dalle leggi
razziali, che di fatto lo emarginavano.
Riprendendo il mano lopera daveroniana,
a tutta prima, viene in effetti il dubbio che
lodio per Da Verona fosse personale e
non collegato ad una sua particolare posizione
antifascista: il libro sembra ad una prima lettura
innocuo, spiritoso certo, ma non esageratamente
tagliente. E andando invece più
a fondo, in una lettura a piani sovrapposti
che non si sospetterebbe in un umorista, che
si capisce che il centro del racconto è
un altro, e vi sono delle trovate di satira
assolutamente corrosiva, che fanno passare in
secondo piano la (modesta, ma pur presente)
trasgressione sessuale, ed anche laspetto
della polemica anticattolica, che Da Verona
tiene su un livello piuttosto goliardico. Non
credo proprio che gli scalmanati in Galleria
avessero capito tutto questo, però che
lautore volesse fare della satira, ed
anche piuttosto pesante, mi pare evidente.
Ricordiamo che lanno era il 1929: la normalizzazione
che il fascismo aveva promesso, praticamente
dal delitto Matteotti in poi, doveva essere
completa; un plebiscito sancirà in quellanno
la creazione di una Camera completamente fascistizzata
(beh, almeno in apparenza: cerano fior
di cattolici e liberali, nonostante tutto).
Malavita, aumento dei prezzi, turbolenze politiche,
tutto doveva essere in teoria sparito, mentre
la burocrazia doveva esser divenuta efficiente
e lavorare con quello che allora si definiva,
con assoluta mancanza di ironia, ritmo fascista.
Da Verona, sperando sul supporto o forse sulla
disattenzione del partito, e specie su quello
del suo pubblico, fedele da un quindicennio,
a livelli da bestseller, vuotò il sacco
di quel che non andava.
Basta leggere che cosa sarebbe successo se il
povero Renzo, salito su un tram (!) strapieno
in via di Santa Radegonda, si fosse rotta una
gamba cadendo sul predellino: In un batter
docchio la Croce Verde lavrebbe
trasportato alla Guardia Medica di via Agnello;
questa lo avrebbe inviato allOspedale,
dicendogli che quando un uomo ha la gamba rotta,
è inutile venga a seccare il prossimo
in un luogo di pronto soccorso, dove non cè
mezzo di farsela aggiustare; tanto più
che il medico di guardia dorme saporitamente
dalle dieci di sera alle otto del mattino, e
non desidera essere disturbato. Lavrebbero
dunque trasportato allOspedale, probabilmente
per fargli ammirare il bellissimo effetto che
la facciata sforzesca produce sotto il chiaro
di luna; più bella ancora quando la luna
non cè. Ma, dato il regolamento
che regge gli stabilimenti ospitalieri, la sentinella
avrebbe chiamato il capoposto, questi linfermiere
di picchetto, e costui, molto cortesemente,
avrebbe pregato linfermo di volersi ripresentare
il giorno dopo; essendoché lOspedale
non è una casa pubblica, e di notte non
riceve clienti.
Presentatosi il giorno appresso, il povero lecchigiano,
leccardo, leccovingio o leccopolitano dalla
gamba rotta avrebbe atteso, in piedi, fino alle
ore quindici, per udirsi poi dire chessendosi
egli rotta la gamba in comune di Milano, ma
essendo egli di provincia limitrofa, poteva,
se ciò gli era di comodo, lasciare il
pezzo di gamba rotta allOspedale di Milano,
e portare il resto a quello di Lecco1
E un vero pezzo di cabaret ante-litteram,
con un crescendo aspro e sicuro quanto basta,
formidabile per esser stato scritto durante
il ventennio. E chiaro che la parodia
manzoniana, ed anche gli ammiccamenti sessuali,
servono un po da paravento: lo scopo era
un altro, molto più politico,
ma di una politica personale, un po anarchica
ed in fondo solipsistica. Tutto ciò,
posto che le ingenue trasgressioni, specie sessuali,
abbondano nel romanzo: Lucia ha una storia con
lInnominato, che ha 160 anni (sic), la
monaca di Monza è forse lesbica, Don
Abbondio non solo esclama Benedetto Croce!
Chi era costui? ma aspirerebbe a che Lucia
(che in segreto definisce spitinfia)
si facesse il bidè in sua presenza, mentre
Renzo si intrattiene con la moglie del cugino
Bortolo, oltre che con la Contessa Maffei, incontrata
in una strana osteria dove ci sono tra gli altri
Giuseppe Verdi, Verri e Beccaria, oltre che
Adelina Patti, nota cantante lirica ottocentesca.
La satira è consentita al Da Verona da
un anacronismo, ed una sovrapposizione di piani
temporali molto allegra, un po
da studente, ma voluta ed insistita: la Perpetua
si getta nel Resegone, come vedova
di Rodolfo Valentino, mentre Lucia aspira a
diventare una diva dellarte muta, come
Mary Pickford.
Sfortuna di Da Verona, in un certo senso, fu
quella di non piacere alla fine né al
governo né avere la tempra, ed in fondo
la volontà di opporvisi. Nel 1924 Giuseppe
Della Corte scriveva su La rivoluzione
liberale2, rivista diretta da Piero Gobetti
con durezza, parlando della borghesia meridionale:
Che i giovani leggano Da Verona o Zuccoli
o Pitigrilli, è fatto personale e di
mere preferenze letterarie. Ma che gli stessi,
e dopo siffatte letture, se ne vengano a sputar
sentenze che san di sadico vassallaggio, è
fatto repugnante e idiota. Non può non
contristare, specie quando si pensa che non
son poi pochi. Ma che per lo meno se ne vadano!
Che si avviino verso la farneticata terra del
loro sole artificiale, quale risulta dallideazione
maturata attraverso il contrasto insopprimibile
tra lessere e il voler sembrare.
Della Corte coglie una realtà di fatto:
il mondo di Da Verona è in fondo astratto,
artificiale, Mimì Bluette non è
più realistica di Renzo che prende il
tram; realistico fino alla sensualità
è il contorno, però è anche
vera la boutade di Cesare Pavese secondo il
quale, Da Verona è un buon scrittore
che scrive male. Male non tecnicamente (ce ne
fossero di scrittori così oggi), ma specialmente
perché vive e si nutre di quel contrasto
insopprimibile, tipico di certa borghesia italiana,
il famoso darsi un tono delle signorine di buona
famiglia. Lucia ed Agnese non fanno altro per
tutto il romanzo: darsi importanza, agghindarsi,
fingere essere delle gran signore. Il che sarà
senzaltro artificiale, ma esiste ancora
tuttoggi, eccome. E spesso funziona anche.
E cosa vogliono le famiglie borghesi ed operaie?
Ogni famiglia di borghesi o doperai
spende allanno somme notevoli per vedere
Charlie Chaplin e Pola Negri, mentre non versa,
nemmeno a torcerla con le tenaglie, un soldo
al libraio. Ragione? Molto semplice. Il cinematografo
diverte, il libro annoia3 Non si può
dire che Da Verona non avesse le idee chiare,
al punto da osarle esporre al Manzoni, cui il
dialogo precedente si immagina rivolto. E non
si può nemmeno dire che questaffermazione,
fatta alla fine degli anni 20, non sia
attuale anche oggi, sempre che aggiorniamo i
nomi degli attori, o forse sostituiamo il cinema
con la televisione ed i videogiochi. Da queste
parole è ovvio come il Da Verona si proponesse
innanzitutto di non annoiare, e credo in sostanza
che ci sia riuscito: daltro canto, è
uno che dichiara a chiare lettere come venne
in contatto con I promessi sposi
(voglio dire quelli veri), il che me lo rende
piuttosto simpatico, perché, se non altro,
onesto molto più di tanti intellettuali:
[
] ero giunto sopra il varco dei trentanni
senza aver letto, in quel modo che leggere si
deve un libro, questi celeberrimi Promessi Sposi.
Per fortuna durante linverno 1923, mi
venne linfluenza. Quando il chinino e
laspirina mi ebbero fugata la febbre,
un giorno, Dio sa perché, risolsi di
compiere questo gran salto nel buio. Mandai
la mia donna di servizio a comperare il capolavoro
manzoniano, che non possedevo nella mia biblioteca
di libri quasi tutti forestieri, ed ella, udendo
il mio proposito, mi guardò tramortita.
Ma non disse parola. Forse comprese che non
stavo ancor bene di salute. Andò e tornò.
Spese L. 9,90 per recarmi, in una edizione di
733 pagine, questa grande storia milanese del
secolo XVII, scoperta e rifatta da Alessandro
Manzoni.
Cera di che leggere per tutta una convalescenza
del tifo, anziché di una semplice influenza.
Pure mi accinsi coraggiosamente alla grande
impresa, con quella dolce confidenza in ogni
cosa del mondo che luomo convalescente
prova nel ritorno alla gioia di vivere4.
Un ultimo spunto lo vorrei fornire per concludere,
e riguarda lumorismo di matrice ebraica
che è tipico e riconoscibile anche in
Da Verona, specie nel gusto per lesagerazione,
il gioco parodistico verbale: anche Pitigrilli
era di origine ebraica, come dallaltra
parte dellOceano lo sono nel cinema Woody
Allen ed i fratelli Cohen, e lo erano i fratelli
Marx. In un recentissimo saggio, Contro lidolatria,
uscito presso Einaudi, Moni Ovadia ci ricorda
il ruolo importante dellumorismo ebraico,
come un deterrente che sbarra la strada a fondamentalismi
ed integralismi di ogni sorta e, non a caso,
anche alle dittature. Una rilettura di Da Verona
in questo senso richiederebbe un numero di PB
a parte, però mi sembra importante notare
questo aspetto, che colloca questa parodia manzoniana
nel suo ambito culturale più vasto.
(1)"I promessi sposi" p. 127 -
(2) Rivoluzione Liberale, Anno 3, n. 16 (15-4-1924),
p. 62
(3) "I promessi sposi" p.39 - (4)
"I promessi sposi" p.21-22
(c)Carlo Santulli
L'ultima edizione de "I promessi sposi"
di Guido Da Verona è uscita nel 1998
per la Vita Felice, Milano, 330 pagine, ISBN
88-7799-074-0: da essa sono prese le citazioni.
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