Il presente contributo andrà ad indagare la misteriosa presenza di un ananas in un mosaico romano.
Sugli usi alimentari dei romani in generale molte pagine sono già state riempite e uno dei volumi meglio strutturati sul tema è sicuramente quello di Ugo Enrico Paoli, Vita romana: usi, costumi, istituzioni tradizioni, edito da Mondadori nel 1976. Come afferma anche il Paoli all’inizio del capitolo dedicato al cibo, i romani dell’epoca arcaica erano molto frugali, ma col passare del tempo si ingolosirono[2]. Ma in questa sede non si indagherà la frugalità o l’ingordigia dei romani, ma il gusto per l’esotico e i contatti culinari con le civiltà dell’epoca.
Nelle ultime settimane molto si è parlato del mosaico raffigurante un piatto, che sembrerebbe pizza, rinvenuto a Pompei, ma questo sicuramente non può essere considerato il rinvenimento di arte figurativa rappresentante oggettistica culinaria più affascinante. Il più misterioso, che apre un’ampia parentesi sulla storiografia antica è il mosaico, sito presso il Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo a Roma, che rappresenterebbe un ananas.
La presenza di “quest’innocuo” ananas, se accertata, metterebbe in dubbio tutta la concezione storiografica antica. Nell’opera musiva pavimentale, risalente al I secolo d.C, probabilmente all’età neroniana, è rappresentata una natura morta a base di pesci, volatili e frutta[3]. Proprio nel cesto della frutta spicca la presenza di quello che sembrerebbe un ananas. Nel caso dovesse trattarsi realmente di un ananas, sorgerebbe un immane problema legato alla sua presenza 1400 anni prima della scoperta delle Americhe. Attorno all’opera si sono spesi fiumi d’inchiostro andando a formulare le ipotesi più disparate: per alcuni si tratterebbe solo dell’immagine di una comune pigna ornata di foglie, per alcuni si tratterebbe di un riccio di mare, per altri di un ananas africano[4], ma l’ipotesi più interessante è certamente quella legata ad un antico legame commerciale tra Europa e Nuovo Mondo. A primo impatto, quest’ultima sembrerebbe l’ipotesi più azzardata, ma ragionando ed andando a visionare esempi chiarificatori, si dimostrerà la fattibilità di un rapporto commerciale tra l’impero romano e il Nuovo Mondo[5]. Tale ipotesi sarebbe suffragata da due evidenze: il caso della necropoli di Comalcalco nel golfo del Messico e del “Relitto del Pozzino”, nave romana affondata nel mare antistante le coste toscane nel II sec a.C. Nel primo caso a Comalcalco sono state rinvenute alcune sepolture di corpi all’interno di giare e una serie di costruzioni in mattoni di argilla, entrambe usanze tipiche delle civiltà mediterranee e non delle culture amerindie. Mentre nel “Relitto del Pozzino”, ritrovato nel 1982 al largo di Populonia[6], sono state rintracciate delle ampolle contenenti una serie di prodotti ad uso medico tra cui dei semi di girasole, pianta presente solo ed esclusivamente nelle Americhe. Tale ipotesi è sempre stata fortemente sostenuta da Elio Cadelo, giornalista RAI e divulgatore scientifico.
Secondo Cadelo, come esposto in Quando i romani andavano in America, i romani sarebbero andati in America 1500 anni prima di Colombo. Egli afferma infatti che le testimonianze storiche non lasciano alcun dubbio: in età imperiale Roma era in possesso delle conoscenze scientifiche, nautiche e geografiche necessarie per attraversare l'Atlantico e giungere nel Nuovo Mondo. I testi latini parlano di nuove terre ad ovest e i numerosi manufatti ritrovati dimostrano che tra le due sponde dell'oceano Atlantico ci furono scambi. I romani furono anche grandi navigatori: ad est commerciavano con l'India, la Cina e l'Indonesia, e le loro esplorazioni andarono ben oltre la Nuova Zelanda; navigarono lungo le coste atlantiche dell'Europa raggiungendo le Orcadi, l'Islanda e, forse, si spinsero oltre. In Africa sono state trovate tracce della presenza romana lungo le coste occidentali e orientali. L'autore, attraverso gli scritti di Plinio, Tolomeo, Erodoto, Seneca, Cesare, Tolomeo, Tito Livio, Cicerone, Diodoro Siculo, Plutarco, Tacito, Virgilio, e altri autori greci e latini, ricostruisce le conoscenze astronomiche, geografiche e matematiche e, per la prima volta, spiega il metodo grazie al quale nell'antichità veniva calcolata la longitudine. Nel volume vengono esaminate non solo le capacità nautiche e le conoscenze scientifiche dei romani ma anche quelle di diverse culture che con il mare ebbero un rapporto importante come quella polinesiana, indiana e sumerica[7]. Il ragionamento di Cadelo dal punto di vista logico-tematico è molto resistente, però possiamo affermare che ancora mancano delle chiare prove archeologiche.
[1] Istruttore direttivo presso Biblioteca civica “Romolo Spezioli” di Fermo.
[2] S. Cingolani, Cose da mangiare e per mangiare, in Il picchio e la lupa, genti e luoghi tra l’Appennino e l’Adriatico (a cura di U. Moscatelli), Fermo, Andrea Livi editore, 2023.
[3] U. E. Paoli, Vita Romana: usi, costumi, istituzioni, tradizioni, Milano, Mondadori, 2017, pp. 89-100.
[4] L’Ananas raffigurato nel mosaico forse è stato importato dalle colonie romane stanziate nell’Africa Occidentale. Sembra infatti che i popoli di quel territorio coltivassero già l’ananas.
[5] J. André, L'alimentation et la cuisine à Rome, Parigi, Les Belles Lettres, 1981; N. Valerio, La tavola degli Antichi, Milano, Mondadori, 1989.
[6] Sono state necessarie tre campagne di recuperi (1982, 1989 e 1990) per far riaffiorare dal Golfo di Baratti, antistante Populonia – una delle più antiche e floride città etrusche – le centinaia di reperti che erano gelosamente custoditi in una nave romana del II sec. a.C. Si tratta di una fra le più importanti e sorprendenti scoperte archeologiche dell’ultimo decennio. Più che di una nave da trasporto, sembra si trattasse di una sorta di “emporio medico” viaggiante, con un inedito campionario di oggetti inconsueti e “prodotti” misteriosi: cosmesi e pharmka, vini e spezie. Le centinaia di reperti sono quanto mai diversi per tipologia e funzione: anfore vinarie e flaconi di essenza ancora sigillati, strumenti di medicina, rarissime coppe di vetro e preziose ampolle, lucerne di bronzo. Sono stati recuperati anche rami di vitis vinifera e noccioli di olive. Il tipo di anfore rinvenute viene oggi considerato come il prino genere di contenitore da trasporto propriamente romano: tali anfore, infatti, sostituirono fra il 145 e il 135 a.C. quelle del tipo “greco-italico”, che avevano dominato i mercato del Mediterraneo dalla fine del IV sec. a.C. Erano contenitori molto possenti e robusti, adatti ad affrontare non solo viaggi marittimi ma anche i più accidentali percorsi terrestri.
Si veda A. Romualdi, Populonia nella rete dei traffici del Mediterraneo nel 2. secolo a.C. : il relitto del Pozzino nel golfo di Baratti, in Coste e mari della Toscana : archeologia e storia di una regione nel Mediterraneo, atti del Convegno, Livorno 17 dicembre 2007, Pisa, Pacini, Livorno, Provincia, 2008.
[7] E. Cadelo, L'oceano degli antichi: i viaggi dei Romani in America, Gorizia, LEG, 2018; E. Cadelo, Quando i romani andavano in America: scoperte geografiche e conoscenze scientifiche degli antichi navigatori, Roma, Palombi, 2013.