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L’articolo Isaac Asimov e Stefano Benni di Marco Montanari pubblicato più di un anno fa sullo speciale SF Visioni da un futuro circolare ha spinto Fabio Calabrese a scrivere un interessante articolo che, pubblicato per la prima volta su 'Continuum' (rivista curata da R. Furlani), vi riproponiamo qui per gentile concessione dell’autore.
Immediata (ed altrettanto interessante) è stata la replica di Marco Montanari, che potrete leggere nella sezione ARTICOLI del sito.
La fantascienza italiana è finita, o si trova, invece, ad un punto di svolta dal quale uscirà profondamente rinvigorita e rinnovata?
La domanda non ha forse una facile risposta, quello che è certo è che il dibattito è vivace ed intelligente, segno questo dell’innegabile vitalità del genere! (Marco R. Capelli)
La fantascienza italiana è forse ad una svolta destinata a cambiarla profondamente. In futuro essa rischierà forse d’indebolire alcuni suoi specifici caratteri di genere, ma attingerà probabilmente ad un pubblico più vasto di quanto sia successo finora.
Alla fine degli anni ’70, una ricerca di mercato commissionata dalla casa editrice Mondadori fissò il numero degli appassionati che costituiscono il “nucleo duro” della fantascienza in Italia, quelli che supportano e sopportano tutto, a non più di tremila persone. Da allora ad oggi, è improbabile che questo numero sia cresciuto, ma con ogni verosimiglianza si è ridotto per mancanza di ricambio generazionale, con l’emergere di una generazione che, sempre più intossicata da mass – media dalla crescente invasività, si è praticamente disabituata alla lettura. Se oltre a ciò consideriamo il fatto che dei lettori di fantascienza italiani, solo una parte si interessa o semplicemente conosce la science fiction di autore italiano, ci rendiamo conto che la fantascienza italiana ha rischiato e rischia tuttora la morte per asfissia.
Bene, ora questa situazione non certo incoraggiante sta forse per cambiare.
Prima però è il caso di vedere quel che sta accadendo nella fantascienza in generale, di autore anglosassone (e di altra nazionalità), dove pare che le cose non siano per nulla entusiasmanti. Lo si percepisce bene in un’intervista che Luca Briasco, direttore editoriale della casa editrice Fanucci ha recentemente rilasciato a “Progetto Babele”, e che è stata pubblicata nel fascicolo Visioni da un futuro circolare (marzo - aprile 2005):
“La fantascienza è in crisi di lettori (e anche di idee) mentre impazza il genere giallo e anche il fantasy sembra godere di buona salute … La fantascienza ha perso molto del suo smalto perché non riesce più ad essere narrativa di anticipazione e di speculazione, perché tenta vanamente di reggere il confronto con il cinema, dove l’innovazione è tutta giocata sull’immagine, la fotografia, gli effetti speciali”.
I motivi di ciò non sono un mistero. In Italia la fantascienza è sempre stata un più o meno nobile dilettantismo; negli Stati Uniti, anche se sono pochissimi quelli che campano scrivendo esclusivamente fantascienza (si vocifera del compianto Poul Anderson e ben pochi altri), essa rappresenta comunque una fetta apprezzabile delle entrate di autori che scrivono anche altre cose, o magari alternano la professione dello scrittore di narrativa con quella del giornalista, del divulgatore scientifico, e via dicendo.
I vantaggi di una situazione di professionismo sono evidenti, ma vi sono anche degli svantaggi, a cominciare da quello di dover produrre per contratto tot pagine a scadenza fissa invece di scrivere con i propri tempi e ritmi, seguendo la propria ispirazione e quando si ritiene di aver qualcosa da dire, come invece il dilettante italiano può permettersi di fare. Il risultato è quello di riproporre per l’ennesima volta le medesime formule stereotipe, di interminabili cicli cosmici, di romanzi gonfiati come polli in batteria, di non poter innovare che entro limiti estremamente ristretti per non scontentare un pubblico abituato ad un certo tipo di prodotto, sempre quello, il tutto aggravato dalla spada di Damocle dell’insostenibile concorrenza della Sci Fi cinematografica.
In un recente articolo, Le nuove costellazioni, apparso sul n. 41 di “Futuro Europa”, Renato Pestriniero fa notare:
“Si dice che c’è crisi d’idee, ma basterebbe pescare nell’oceano di notizie per trovare spunti base adatti all’imbastitura di racconti e romanzi, e comunque adattissimi per impolpare idee già in progress con situazioni ed atmosfere”.
Bene, sembra che sia proprio questo che la Science Fiction “made in USA” non riesce più a fare, vincolata ad un pubblico nel quale prevalgono sempre più umori conservatori ed a meccanismi editoriali che possono anche fruttare montagne di quattrini ma non sono certo fatti per premiare l’originalità.
Ma non è che neppure la SF cinematografica sia oggi nella sua forma più splendida. Si vedano in proposito le recenti dichiarazioni del regista John Landis, rilasciate al Torino Film Festival e raccolte dall’inviata di “Urania” Maria Visentin:
“Una volta negli studios c’erano uomini con delle idee, adesso i film sono fatti da grandi multinazionali interessate soltanto a produrre blockbuster in grado di dominare il mercato; l’unica logica è ormai diventata quella del marketing. La sola cosa che importi è avere una star, tutto il resto non conta: per questo la maggior parte dei film sono brutti o banali. In questo momento i registi della mia generazione, tranne forse Spielberg, Lucas e pochi altri, hanno difficoltà a lavorare. Io stesso sono stato praticamente messo in quarantena”.
(In Maria Visentin: Due maestri a confronto, John Landis e Tobe Hooper, “Urania” Mondadori n. 1500).
Ed i risultati di questa politica si vedono: tra remake, sequel e prequel, il cinema di fantascienza sembra incapace da anni di sfornare una sola idea originale.
La fantascienza italiana dovrebbe, nell’immediato futuro, godere di un maggior interesse da parte dell’editoria e del pubblico, poiché è in grado di esibire una maggiore freschezza, una maggiore creatività rispetto all’ipertrofico professionismo americano che si sta avvitando su se stesso (e sappiamo che ancora oggi la fantascienza di autore italiano è un segmento minoritario della fantascienza pubblicata in Italia), ma la novità non è soltanto questa, come vedremo. Tuttavia, e questa è una cosa veramente bizzarra, c’è chi la dà per tutta ancora da costruire, chi la dà per morta, e chi, ancora oggi la dà per mai esistita.
L’editoria elettronica, in Rete, nello spazio virtuale del Web, non è ormai una novità, la nostra fantascienza ha ormai una tradizione in questo senso, dalla defunta “Terminus” a “Delos”, alla nostra “Continuum”, a pubblicazioni “anfibie” dalla doppia vita telematica e cartacea, come “Intercom” e “Future Shock”, ad antologie singole come Futureline del nostro amico Enrico Di Stefano, fino ai numeri monografici dedicati alla fantascienza di pubblicazioni che si occupano – perdonatemi il bisticcio – di letteratura “di genere” in genere. Un esempio di questi è il fascicolo di marzo – aprile 2005 di “Progetto Babele”, Visioni da un futuro circolare.
Dopo essermelo scaricato, averlo stampato ed iniziato a leggerlo mi sono trovato letteralmente a trasecolare davanti alle castronerie contenute nell’articolo di tale Marco Montanari.
Montanari fa un confronto fra Isaac Asimov e Stefano Benni, ovvero fra il padre della fantascienza eroica (?) ed il suo dissacratore, poiché più o meno negli stessi anni in cui Asimov tornava a prendere in mano dopo un trentennio il ciclo della Fondazione aggiungendovi nuovi romanzi, Benni ne scriveva una caricatura nel romanzo Terra.
Fin qui tutto bene, ma poche righe sotto l’incipit dell’articolo si trova un’idiozia così lampante da far venire il dubbio se al signor Marco Montanari abbia dato di volta il cervello:
[La fantascienza] “è un genere che in Italia non è stato possibile trapiantare, malgrado il successo commerciale e le numerose persone che avrebbero voluto provarcisi. L’ostacolo principale sono sempre stati gli editori e soprattutto i lettori: mai nessuno avrebbe comprato un libro scritto da un italiano, anzi da un non americano. Il motivo di questo ostracismo è sempre stato culturale: l’incapacità di creare una lettura [Suppongo che qui ci sia un refuso, e si volesse dire “letteratura”] di svago con le stesse basi scientifiche o pseudo – scientifiche”.
Sono corso a controllare la data del fascicolo: è proprio marzo – aprile 2005, non 1955 come avevo supposto per un attimo. E’ incredibile che ancora adesso abbia circolazione una simile corbelleria che ci riporta indietro di mezzo secolo. Certo, la fantascienza italiana ha dovuto confrontarsi non meno di altri generi di letteratura “di svago” come il giallo, con un inveterato pregiudizio esterofilo creato dal fatto che gli editori, in una nazione in cui si legge poco, hanno preferito puntare sul nome noto, che è poi di solito il nome straniero, anglosassone il più delle volte, ma sia pure ritagliandosi a fatica una “nicchia” nella “nicchia” dei lettori di science fiction, la fantascienza italiana esiste da mezzo secolo.
Tra i velleitari che “avrebbero voluto provarcisi”, mi vengono subito in mente i nomi di Lino Aldani, Renato Pestriniero, Vittorio Catani, e di molti altri piazzati solo un gradino più sotto, le cui opere li collocano senza alcun dubbio al livello della letteratura senza aggettivi ghettizzanti.
Quanto alla presunta incapacità di “scrivere con le stesse basi scientifiche o pseudo – scientifiche”, questo è l’hard core, lo “zoccolo duro” del pregiudizio esterofilo, ma è un’idiozia che si confuta da sola. Se togliamo pochi nomi come Isaac Asimov, Arthur C. Clarke, Fred Hoyle (gli ultimi due, tra l’altro, non sono americani ma inglesi), quanti autori anglosassoni possiedono e sono in grado di infondere nelle loro opere la stessa preparazione scientifica di Roberto Vacca?
Oltre a ciò, trovo francamente sospetto che Marco Montanari parli di Asimov come del “padre della fantascienza eroica”. Se non erro, circa trent’anni fa, presentando per la prima volta l’heroic fantasy ai lettori italiani nella collana “Arcano”, l’editrice Nord impiegò l’espressione “fantascienza eroica” come traduzione di heroic fantasy, perché “fantasia” sembrava poco adatto ad indicare un genere letterario, e fu una scelta sbagliata, perché elfi, draghi, hobbit e quant’altro, con la fantascienza nulla hanno a che vedere, poi “fantasia eroica” è entrato comunemente nell’uso, ma si tratta di un genere molto distante dalla produzione di Asimov.
Anche preso alla lettera, il termine “fantascienza eroica” potrebbe indicare un tipo di fantascienza epico e magniloquente, una cosa per intenderci, tipo Fanterie dello spazio di Robert Heinlein o L’ultimo vessillo di Ron Hubbard; una cosa, ad ogni modo, molto lontana dalla narrativa di Isaac Asimov cui semmai, all’opposto, è stato spesso rimproverato di essere un autore molto cerebrale, che dà poco o nessuno spazio alle componenti emozionali.
Insomma, il dubbio che viene, è se Marco Montanari (che mi auguro non abbia nulla a che spartire con Gianni Montanari che è invece un professionista serio della nostra fantascienza) abbia una conoscenza non approssimativa e rudimentale di quello di cui parla. E’ ovvio che una pubblicazione informata ad uno spirito democratico non può esercitare una censura sugli scritti dei collaboratori, ma possibile che all’interno di “Progetto Babele” nessuno fosse in grado di far notare al signor Montanari che le cose che ha scritto presuppongono una disinformazione totale?
A dispetto di tutte le cassandre, e Marco Montanari non è che l’ultima di una lunga serie, la fantascienza italiana prosegue, ed è forse sul punto di compiere una svolta di estrema importanza.
Ancora una volta, per capirlo, diamo un’occhiata a quello che è accaduto e sta accadendo oltre oceano.
Nel 1999, uno storico americano, Robert Cowley ha pubblicato un volume contenente contributi di diversi colleghi, What If, poi pubblicato in Italia nel 2001 da Rizzoli con il titolo La storia fatta con i se. L’edizione originale del libro era della American Historical Publications; un testo, quindi, che – consapevolmente o meno – si ricollega al filone fantascientifico della storia alternativa, dell’ucronia. La narrativa ucronica ha nella fantascienza una tradizione ben consolidata, basta ricordare per tutti, alcuni testi che sono divenuti dei classici del genere: La svastica sul sole di Philip K. Dick, Anniversario fatale di Ward Moore, Weinachtabend e Pavana di Keith Roberts, ma la novità era data dal fatto che ora erano gli storici professionisti, con il bagaglio di una cultura specifica, a compiere un’inedita incursione nella storia alternativa, nell’ucronia, nel fantastico, nella fantascienza.
Non sembra tutto sommato che la fantascienza americana sia riuscita a trarre da quest’infusione di sangue nuovo i benefici che in altre epoche sarebbe stato lecito aspettarsi, ma le cose pare siano andate e stiano andando in tutt’altro modo in Italia, dove il rilancio della narrativa ucronica è giunto ovviamente di rimbalzo dall’altra sponda dell’Atlantico, ma sta conoscendo, a quanto pare, un’esplosione senza precedenti. La ragione di ciò è facilmente intuibile.
Senza con questo dare ragione a Marco Montanari, ammettiamo che nella fantascienza italiana i Roberto Vacca non sono frequentissimi (il che però non significa di certo che oltre oceano siano tutti Asimov, ce ne corre!) e la narrativa ucronica dà modo ai nostri autori di utilizzare la loro cultura umanistica, storica e storico – letteraria, in più – cosa in definitiva determinante per la nostra editoria – apre l’accesso a nuovi settori di pubblico che finora ci erano preclusi, perché non interessati alle tematiche scientifico – tecnologico – spaziali, che possono fare la differenza fra la grama sopravvivenza di cui la fantascienza italiana si è dovuta accontentare finora, ed una presenza stabile e dignitosa sul mercato editoriale.
Non è possibile dimenticare chi ha battuto questa strada con largo anticipo rispetto agli altri (ed ha raccolto i frutti della sua preveggenza), Valerio Evangelisti, con i suoi romanzi e racconti che hanno per protagonista un personaggio storico realmente esistito ma uucronicamente rivisitato, un tipo col quale non c’è proprio da scherzare, il terribile inquisitore Eymerich, ma forse il consolidamento di questa tendenza andrebbe fatto risalire a due antologie di fantascienza ucronica, Il sonno della ragione non genera mostri a cura di Errico Passaro e Se l’Italia di Gianfranco De Turris.
L’antologia curata da Errico Passaro ha la forma di un fascicolo che costituisce il n. 6/2002 (novembre/dicembre 2002) della rivista “Percorsi di cultura politica” dell’Editoriale Pantheon. Il titolo dell’antologia fa riferimento alla celeberrima frase di Goya, ed è dettato da una polemica anti – illuminista che è caratteristica dell’ideologia del curatore ma che in realtà ha poco a che fare con i racconti contenuti nell’antologia.
L’impressione che si ricava, è che il lavoro di Passaro abbia fatto da apripista a quello di De Turris. La cosa curiosa che si scopre confrontando i due testi, è che dei dieci autori presenti ne Il sonno della ragione, sette – compreso il sottoscritto – si ritrovano in Se l’Italia (ovviamente, con altri racconti), più uno, lo stesso De Turris che qui non è presente come autore ma come curatore del volume della Vallecchi, e credo sarebbe difficile citare una prova più evidente della continuità delle due iniziative.
Il volume della Vallecchi curato dal critico romano, ad ogni modo, è di tre anni posteriore, essendo stato pubblicato nel 2005, e si tratta di un tomo ragguardevole di quasi 500 pagine che presenta un florilegio di 18 autori, e si inserisce nell’importante e meritorio tentativo che sta compiendo De Turris per rilanciare e ridare prestigio alla casa editrice fiorentina, che una un passato fra i più ricchi di storia e di tradizioni nel panorama della nostra editoria nazionale. Anche visivamente, questo testo sembra voler rompere con la tradizione che vede la fantascienza come genere “di serie B”, marginale e ghettizzato, ha, infatti, un’impostazione grafica “classica” da volume di libreria, di quelli dedicati a pubblicazioni di spessore culturale.
Il fatto nuovo rappresentato da questa nuova ventata di FS uucronica nella quale i nomi degli autori “classici” di fantascienza si sovrappongono, si mescolano, si confrontano con quelli di estrazione storico – letteraria si vede bene in questo volume, dove gli autori della fantascienza italiana (Renato Pestriniero, Donato Altomare, Francesco Grasso, Luigi De Pascalis, Pierfrancesco Prosperi, Fabio Calabrese –si, anche Fabio Calabrese -) si fronteggiano con autori di taglio letterario più classico, appartenenti alla rinata tradizione del romanzo storico, come Franco Cuomo e Giulio Leoni. Per non parlare dell’apporto che veramente impreziosisce il volume, dello storico medievalista Franco Cardini in veste di autore della prefazione.
Su questa rinata tradizione del romanzo storico italiano, che è un fenomeno che precede la tenenza attuale alla letteratura ucronica, ci sarebbe tutto un discorso da fare, che si rivelerebbe molto ampio, ma che cercherò di fare qui per sommi capi, sebbene in forma probabilmente manchevole.
A ben guardare la rinascita del romanzo storico è nella letteratura italiana una tradizione vecchia ormai di un quarto di secolo che può far data dal 1980, anno in cui uscirono sia Il nome della rosa di Umberto Eco, sia La principessa e l’antiquario di Enzo Siciliano, opere in controtendenza rispetto al minimalismo imperante altrove. In seguito si aggiunsero Gunther di Amalfi, cavaliere templare, e soprattutto la lunga serie di romanzi storici andata incontro ad un notevole interesse di pubblico, di Valerio Massimo Manfredi. Sebbene non si trattasse di un’opera narrativa, ho l’impressione che abbia influito su questa riscoperta letteraria del nostro passato anche un volume di saggistica che andò incontro ad un insperato successo di pubblico, Quell’antica festa crudele di Franco Cardini, dedicato ai tornei ed alla concezione medievale del combattimento e della guerra.
Di questa produzione, i romanzi di Valerio Massimo Manfredi sono probabilmente quelli che sono andati incontro ad un maggiore successo di pubblico, a riprova del fatto che quando si ha qualcosa di realmente interessante da dire, il consenso dei lettori arriva, e sono romanzi che sfiorano spesso e talvolta superano il confine fra romanzo storico e storia alternativa, ucronia, quando non entrano decisamente nel fantastico, come accade nei due romanzi Palladion e La torre della solitudine, quest’ultimo dalle sfumature lovecraftiane. Sarebbe una bellissima notizia il giorno che vedessimo la firma di Manfredi presente su qualcuna delle nostre pubblicazioni, ma ho l’impressione che quel momento potrebbe non essere lontano. Per il momento accontentiamoci del fatto che egli ha concesso un’intervista alla fanzine “Fantastique”, che ne ha fatto il fulcro di un numero (il 3/2003) a lui dedicato.
Ma, in attesa della piena convergenza fra romanzo storico e narrativa fantastica, cerchiamo un po’ di vedere da vicino quali sono i romanzi nei quali si sostanzia, oltre che nelle due antologie sopra ricordate, la nuova ucronia italiana.
Si può notare che per la nostra fantascienza vale la pena perdere certi connotati di genere se questo significa, ad esempio, acquisire un autore come Giulio Leoni che difficilmente si sarebbe accostato ad una science fiction ortodossamente gersbackiana.
Giulio Leoni è autore di tre romanzi – antologie di racconti collegati: Dante Alighieri e i delitti della medusa, DA e i delitti del mosaico, DA e i delitti della luce, che riscrivono la vita del nostro maggiore poeta facendogli indossare i panni del detective, pubblicati nella collana “Il giallo Mondadori” rispettivamente nel 2002, 2004 e 2005. Il primo di essi nel 2000 aveva vinto il premio Tedeschi per il miglior giallo inedito. Leoni è uno stilista di primissimo ordine, dalle cui pagine traspare una profonda conoscenza della vita di Dante, della cultura italiana del duecento, dei moduli di pensiero dell’aristotelismo medievale, sagacemente applicati alle indagini poliziesche del Divino Poeta, e soprattutto una grande dedizione per la figura di quest’ultimo. Decisamente, non sono sempre necessari l’astronave e l’omino verde per affascinare.
Tuttavia, è abbastanza prevedibile che altri autori siano maggiormente incantati da ucronie nelle quali la biforcazione rispetto alla serie di eventi che costituiscono la nostra storia reale sia avvenuta in un’epoca più vicina a noi, mondo alternativi la cui esplorazione si lega a passioni ancora presenti; ed è ovvio, soprattutto al periodo della seconda guerra mondiale. Parlare di quegli anni bui della nostra storia significa toccare nervi ancora scoperti, una contraddizione non risolta. Riguardo ad essi non vi è tuttora un “comune sentire” ma una coscienza divisa. Per alcuni, il pensiero corre immediatamente alle malghe di Porzus, alle foibe, alle vendette spesso insensate e dirette contro innocenti che si scatenarono alla conclusione del conflitto; per altri, esso corre invece alle Fosse Ardeatine, a Marzabotto, alle deportazioni compiute dai Tedeschi e via dicendo. C’è la speranza, una speranza ancora vaga, che anche la riflessione stimolata dalla particolare ottica uucronica, possa servire a ricomporre questa frattura della nostra coscienza nazionale.
I nomi degli autori che si sono cimentati di recente su questo terreno, che vengono subito in mente, sono quelli di Giampietro Stocco e di Massimo Mongai.
Giampietro Stocco ha pubblicato nel 2003 presso una piccola casa editrice, di quelle che sembrerebbero una di quelle case per APS (autori a proprie spese) su cui ha ironizzato Umberto Eco nel Pendolo di Foucault, la Fratelli Frilli di Genova, un romanzo, Nero italiano, che è andato incontro ad un successo probabilmente imprevisto, così nel 2005 è arrivato il seguito, La dea del caos.
In Nero italiano, Stocco ci parla di un regime fascista sopravvissuto alla seconda guerra mondiale per essere rimasto neutrale, nel quale Galeazzo Ciano, il genero di Mussolini che nella realtà fu fucilato dai fascisti di Salò, è subentrato come duce al suocero, e nel quale diventa sempre più potente una misteriosa figura femminile, quella di Maria De Carli. La dea del caos ci promette di svelare finalmente il mistero che ruota attorno a questa figura di inedito duce in gonnella.
A Giampietro Stocco fa eco Massimo Mongai con Il fascio sulle stelle. Immaginatevi la storia: Benito Mussolini è un italiano emigrato negli Stati Uniti, dove diventa scrittore ed immagina che in Italia sia andato al potere un immaginario regime dittatoriale, il fascismo, che in effetti non esiste nella realtà. Ferma! – dirà qualcuno – questa storia l’abbiamo già sentita! Infatti, e Mongai l’ammette senza imbarazzo, la storia è un ricalco de Il signore della svastica di Norman Spinrad con Mussolini al posto di Hitler, mentre anche il titolo del romanzo è una parafrasi della dickiana Svastica sul sole.
Ancora si possono ricordare i romanzi Occidente (2002) Attacco all’Occidente (2003) e Nuovo impero d’Occidente (2006), tutti e tre pubblicati dall’Editrice Nord, di Mario Farneti, autore presente anche nell’antologia Se l’Italia con uno dei racconti più intensi e coinvolgenti.
Anche in questa trilogia s’ipotizza un fascismo sopravvissuto alla seconda guerra mondiale che, dopo aver sventato un attacco islamico contro l’Europa, sotto la guida di Romano Tebaldi, erede di Mussolini, si trasforma nel Nuovo Impero d’Occidente e quindi in impero planetario.
Bisogna dire che questo risveglio d’interesse per l’ucronia partito dagli Stati Uniti in seguito alla pubblicazione del libro di Cowley e che, da noi molto più che negli USA, sembra essersi trasformato in un’esplosione di creatività letteraria, non si può ridurre ad una moda, ma è piuttosto stato uno stimolo, un incentivo a far emergere con maggiore enfasi una tendenza che nella nostra fantascienza esisteva già quanto meno dagli anni ’90. Una riprova di ciò è data dal fatto che degli autori presenti nelle due antologie Il sonno della ragione e Se l’Italia, diversi hanno alle spalle romanzi ucronici risalenti appunto a questo periodo. Citiamo fra tutti Gli anni dell’aquila di Errico Passaro (Settimo Sigillo 1996), Il volo dell’aquila di Tullio Bologna (Il Cerchio 1999), Garibaldi a Gettysburg di Pierfrancesco Prosperi (Editrice Nord 1993).
Senza voler togliere nulla a due bravi autori – e due cari amici – come Errico Passaro e Tullio Bologna, né agli altri che sicuramente mi sfuggono, mi soffermerei un attimo sul romanzo di Prosperi. L’autore aretino ha avuto un’intuizione felice e – oserei dire – geniale. Giuseppe Garibaldi è un personaggio in un certo senso sovradimensionato rispetto alla storia italiana. Nonostante il Risorgimento, noi siamo un popolo che ha sempre cercato e mietuto le sue glorie piuttosto nelle arti, nella cultura, nelle lettere che in vicende militari. La storia degli Stati Uniti è invece percorsa da una forte tensione epica, ma se andiamo a vedere da vicino i personaggi che l’immaginario collettivo americano ha cercato di elevare ad eroi, non ce n’è uno che si salvi, che sia un personaggio almeno presentabile: di certo non Gorge Armstrong Custer, paranoico e tutto preso da un delirio razzista e genocida nei confronti dei nativi americani; né tanto meno “Buffalo” Bill Cody, la cui maggiore impresa fu lo sterminio sistematico dei bisonti delle praterie al preciso scopo di ridurre le tribù native americane alla fame, violento, uBriascone ed a quanto pare omosessuale; per non parlare di Billy The Kid, volgare bandito e rapinatore.
Cosa meglio, allora, che inserire un eroe autentico, quale Garibaldi fu, nel tessuto della storia degli Stati Uniti?
Non c’è soltanto l’ucronia. Di questi tempi la fantascienza italiana sembra stia attraversando un momento di grazia. Mentre nella fantascienza che ci arriva dagli States sembra che l’avventura spaziale e la Space Opera stiano annegando in un mare di ripetitività e nel tentativo, fallito in partenza, di riprodurre sulla carta gli stessi stimoli che la Sci Fi cinematografica riesce a dare grazie agli effetti speciali (anche se sembra che il cinema di fantascienza si stia riducendo semplicemente a questi ultimi), ecco che all’improvviso una parte almeno della fantascienza italiana riscopre l’avventura spaziale e riesce a darle la stessa freschezza, la stessa naiveté dei tempi d’oro, segno di un’ispirazione spontanea, che non pretende di sgorgare a comando.
Mi riferisco in particolare a due romanzi che hanno certamente costituito una piacevole sorpresa per gli appassionati, Oltre il pianeta del vento di Paolo Aresi (Mondadori “Urania” n. 1492, novembre 2004) e Il fuoco e il silenzio di Donato Altomare (Perseo Libri 2005).
Di Donato Altomare, onestamente, vi ho già parlato tanto che non so più quel che mi resta da dire. Certamente, è un autore dotato di una straordinaria versatilità che gli consente di passare agevolmente ad uno spettro sorprendentemente ampio di tematiche, che spaziano dall’horror, all’avventura, all’umorismo con la più grande naturalezza, e forse il punto unificatore, la ratio della sua narrativa è data dal fatto che si situa all’opposto di quegli autori introversi ed egocentrici che cercano di travasare nei lettori le loro angosce e paranoie; al contrario, Donato cerca sempre di intrattenere in maniera piacevole chi legge, con un profondo rispetto nei confronti del lettore, che è una delle doti più importanti e più rare di un autore vero.
Il nome di Paolo Aresi ricordo di averlo incontrato per la prima volta nel 1978, su di un fascicolo pubblicato dalla Editrice Nord che conteneva i racconti finalisti di un concorso indetto fra i lettori della casa editrice milanese; il racconto di Aresi, Vecchie strade mi colpì sia per la sua apprezzabile qualità stilistica, sia per l’intensità incantata che riusciva ad esprimere. Non c’erano dubbi, si trattava di un autore da tenere d’occhio. E non mi sono sbagliato: negli anni successivi Aresi ha pubblicato tre romanzi, Oberon, l’avamposto tra i ghiacci, (Editrice Nord, 1987), Toshi si sveglia nel cuore della notte (Granata Press 1995) e Il giorno della sfida (di nuovo Editrice Nord 1998); ragion per cui questo romanzo che ha vinto – a mio parere in modo pienamente meritato – il Premio Urania 2004, è il quarto. Anche per Aresi si potrebbe fare un discorso molto simile a quello su Donato Altomare: gli ingredienti della narrazione sono simili, forse un po’ più essenziali, avventura, suspense, il misurarsi con l’ignoto di un gruppo di esseri umani sperduti su di un pianeta ostile. Il Premio Urania è stato finora il coronamento della carriera letteraria di Aresi, ma spero vivamente che non ne rappresenti la conclusione, mi auguro di poter leggere molte altre cose ancora di questo autore.
Contrariamente alla …zzata proferita da Marco Montanari che ho ricordato in apertura di questo articolo, gli autori italiani sono perfettamente in grado di scrivere in maniera scientifica, di fare di una solida preparazione scientifica la base di un buon “pezzo” di narrativa. Ne è una dimostrazione un bellissimo romanzo breve pubblicato dalla Perseo Libri sul n. 39 (luglio 2004) di “Futuro Europa”, Il ponte di Aurora di Giovanni Canzio, un romanzo basato sulle sconcertanti prospettive offerte oggi dall’ingegneria genetica, e che presenta in una felice sintesi estrapolazione scientifica, suspense, avventura, tematiche sociali, e l’autore che è un medico e conosce queste tematiche assai bene, è un esordiente nel campo della narrativa, e chissà cosa ci riserverà in futuro. Il bello di questa nostra fantascienza di autore italiano, è che più si scava, più si trova.
Nel luglio 2005, “Urania” è giunta ad un ben invidiabile primato, raggiungendo il millecinquecentesimo numero, un risultato certamente inarrivabile per una pubblicazione che non abbia alle spalle un colosso dell’editoria italiana come Mondadori. Il dato davvero interessante, però, probabilmente non è questo, ma la composizione di Tutta un’altra cosa, l’antologia con la quale “Urania” ha “festeggiato” il suo primato, antologia che su oltre 300 pagine, contiene un romanzo breve di John Kessel, Storie da uomini che ne occupa giusto un centinaio, e per oltre due terzi è invece occupata da autori italiani (ed anche da una vasta sezione saggistica, sempre italiana).
Si tratta di un’antologia celebrativa, o se vogliamo auto – celebrativa nella quale gli autori rappresentati sono i diversi curatori che si sono avvicendati alla direzione di “Urania” dalle origini ad oggi, da Giorgio Monicelli a Giuseppe Lippi, passando per Fruttero e Lucentini e Gianni Montanari, ma questo non toglie che un’antologia composta per 2/3 di autori italiani della pubblicazione di Mondadori rimane comunque un fatto rimarchevole.
Su “Urania” e gli autori italiani andrebbe fatto un discorso preciso. Questa collana, pubblicata dalla più grande casa editrice italiana, è di gran lunga la più importante pubblicazione fantascientifica per longevità, diffusione, frequenza delle uscite, quantità di materiale pubblicato, potremmo dire che “ha fatto” e “fa” la fantascienza in Italia. Nel 1990 Giuseppe Lippi è stato chiamato alla guida della pubblicazione, ed ha iniziato con indubbio coraggio e generosità una politica di apertura agli autori italiani verso i quali “Urania” era rimasta fino a quel momento “blindata”.
Nel 1991 c’è stata la prima edizione del premio Urania, vinto da Vittorio Catani con il romanzo Gli universi di Moras, poi un progressivo allargamento verso gli autori nazionali anche extra – premio Urania, che ha probabilmente toccato il culmine nel 1998 con la pubblicazione di Strani giorni, un’antologia “panoramica” della fantascienza italiana curata, oltre che da Lippi, da Franco Forte, e probabilmente paragonabile solo ad Universo e dintorni, pubblicata da Garzanti esattamente vent’anni prima. Da quel momento, però, c’è stato un rallentamento della presenza degli italiani su “Urania”, che si è ridotta al solo romanzo vincitore del premio Urania, cioè un volume all’anno.
La causa di ciò? Gli italiani vendono meno; in pratica Urania sconta la persistenza del pregiudizio esterofilo che i predecessori di Lippi hanno creato, e di cui la sparata di Marco Montanari citata in apertura è un chiaro esempio.
Si tratta di un serpente che si morde la coda; o meglio, abituare il lettore agli autori nazionali richiede tempo, anche se è probabile che la nuova ventata di letteratura ucronica finirà per avere “ricadute” positive per quanto riguarda l’accettazione non pregiudiziale da parte dei lettori dell’autore nazionale anche per quanto riguarda le forme di science fiction più “classiche”.
Una nota a parte va fatta per Giuseppe Lippi come autore, che è presente in quest’antologia con un racconto, Il lago d’inferno, che sarà di certo una sorpresa per molti lettori: si tratta di un bel racconto lungo che unisce con fantasia magmatica i topoi della narrativa di spionaggio, l’esoterismo, il “colore” partenopeo per raccontarci una storia prettamente fantascientifica che sbocca in un universo parallelo, e può senz’altro stupire considerando che finora le prove letterarie edite di Lippi sono state il racconto Antropologia fantastica nell’antologia garzantiana Universo e dintorni, la collaborazione al racconto Non ho bocca e voglio bere nel volume La sindrome lunare , antologia personale di Vittorio Cartoni pubblicata da “Robot”, e non una di più.
Al riguardo, io posso dire di avere una conoscenza personale di Giuseppe Lippi che data da una vita, di averlo avuto compagno di studi prima al liceo, poi all’università, di avere curato assieme a lui negli anni ’70 la “mitica” fanzine “Il re in giallo”, e di aver avuto occasione di leggere diverse prove narrative di Lippi risalenti a quel periodo e sconosciute ai più, e posso testimoniare che si tratta di un autore di grande qualità, dotato di una fantasia vulcanica e della capacità davvero straordinaria, che si rivela pienamente anche in questo racconto, di creare sintesi organiche “trasversali” ai diversi generi del fantastico a partire dagli spunti e dagli stilemi più disparati, dando luogo ad una scrittura personalissima.
A partire dall’epoca del “Re in giallo”, Giuseppe Lippi ha iniziato nella fantascienza italiana una carriera prestigiosa e prodigiosa, come critico, come traduttore, come collaboratore e poi come curatore delle Edizioni Armenia, assumendo la direzione di “Robot”, per approdare infine alla posizione più prestigiosa come direttore di “Urania”. In questo percorso che ha dell’incredibile, Lippi, con indubbia generosità, ha accantonato la sua produzione narrativa per lasciare spazio ad altri, anche quando avrebbe potuto essere al riparo dall’accusa di auto – pubblicazione (che tutto sommato, se un curatore è anche un buon autore, è un peccato più che veniale). Sicuramente, ciò testimonia dell’indubbia generosità dell’uomo, ma in tutti questi anni mi sono sempre rammaricato che alla fantascienza italiana sia mancato l’apporto di Giuseppe Lippi come narratore, perché se critici, traduttori, curatori di riviste e di collane sono importanti, in definitiva chi “fa” davvero un genere letterario sono gli autori. Adesso un grande autore della fantascienza italiana è venuto finalmente allo scoperto.
La fantascienza italiana è oggi forse ad una svolta storica, abbiamo davanti a noi un’occasione che non dobbiamo lasciarci sfuggire, lavorando ciascuno nel proprio ruolo, di autore, di critico, di saggista, di curatore, con passione, umiltà ed impegno.
A cura di Fabio Calabrese
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