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Alla maniera di Orfeo - Il passato e lo stile in Michele Mari
di Alberto Volpi
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E’ degli addii, fissare per sempre le posizioni Mari Michele Mari ha per un discreto tempo ingannato i suoi recensori, attirandoli come ovvio sull’abnorme dato linguistico e l’eccezionale perizia nella manipolazione di lingua, stile, generi e strutture romanzesche; di qui l’insistere sulla definizione di scrittore manierista . Via via le opere pubblicate hanno offerto però un’altra chiave d’accesso che, senza rimuovere l’elemento linguistico, non lo lascia campeggiare nel vuoto secondo un’estetica letteraria puramente formalista. Direi che il contenuto in affioramento sempre più prepotente ruota attorno al passato. Il primo sospetto mi venne leggendo I palloni del signor Kurz che comincia così: “Per Bragonzi l’unica cosa bella, nella triste vita del Collegio di Quarto dei Mille, erano le partite di pallone. Eppure, anche quella beltà era angosciata.” La cura dei ragazzi è evitare che il pallone finisca aldilà del muro di cinta dove comincia l’oscuro dominio di Kurz, il quale non restituisce mai nulla di quanto finisce nel suo cortile, nemmeno su sollecitazione delle istitutrici. La foga e la vita sono tuttavia incoercibili nei bimbi, che non badano troppo al pericolo, cosicché lo spazio nero insondabile attira irrimediabilmente come un buco nero una serie di palloni, facendo smorire il sorriso e il chiasso gioioso dei giocatori. Una notte Bragonzi, con ardimento di ragazzo della via Paal e velleità vendicativa dei soprusi collettivi, scavalca di nascosto il muro e penetra nella serra di Kurz: qui esterrefatto osserva alla luce della torcia elettrica i palloni posati nei vasi e catalogati con etichette temporali a partire dal 1933. Il ragazzo riflette allora che il destino dei palloni sembra proprio essere quello di perdersi “lacerati dai denti dei cani o bolliti dal sole […] ciulati nel parco” (p. 15) e allora il giorno seguente calcerà volontariamente il suo nuovissimo “Derby Star Deliciae Platearum” nel regno della conservazione. Tanto più che Kurz “aveva disposto ogni pallone nel vaso in modo da porne in vista la parte migliore, quella meno ammaccata o meno scucita, o quella con le facce o le firme, come se a quei palloni volesse bene” (p. 15). Il pallone allora è una sineddoche che sta per l’esperienza individuale o forse per l’infanzia e Kurz una personificazione del deus absconditus, dello scrittore che armonizza ed eterna la memoria di quella giornata, di quella partita e di quei bambini. Il passato va fissato per poterlo mantenere con sé e farlo rilampeggiare attraverso oggetti parziali, frammenti evocatori di un tutto assolutamente personale. Mari in questo senso è uno scrittore feticista, gelosissimo delle polverose schegge, quasi paranoico come il Michele Apicella dei film anni ottanta di Nanni Moretti. “Quando seppe che sarebbe diventato padre, il professor *** si chiuse a lungo nel suo studio per riordinare le idee. Nell’incertezza del futuro uscì da quella stanza con una certezza: i giornalini, i cari giornalini della sua infanzia dovevano essere in salvo” . L’atteggiamento iperprotettivo verso il passato, ostile a che si banalizzi nel futuro, mostra un ironico e rovesciato complesso di Edipo; per restare se stessi attraverso la memoria si soffoca il figlio in culla. Questa protezione maniacale attira, come ancora per Moretti, l’ironia del lettore sull’atteggiamento del narratore-protagonista ma non lo attenua in nulla: il “malloppino” dei giornalini è la fonte di tutte le altre letture serie ed infino accademiche secondo una tipica nevrosi cronologica e filogenetica. Il lettore si stupisce nel pensare questo narratore divenire padre, così come il pubblico di Moretti si è sentito a disagio nel vedere crescere Michele fino ad Aprile, come lo sarebbe, poniamo, nel proiettare Don Gonzalo Pirobutirro verso il matrimonio. “Solo io so che cosa sono”, dice con comico parossismo il professore a proposito delle sue reliquie cartacee che profumano del passato e che seppellirà ben imballate in cantina a fondamento della casa. Nei vagabondaggi descritti in Tutto il ferro della Tour Eiffel mi pare che a un certo punto Benjamin si imbatta in un museo proustiano nella cui sala centrale, sotto una gran teca, riposa una maestosa madeleine a precisa forma di grosso stronzo o uno stronzo a forma di madeleine. Ciò a dire che l’idoleggiamento del passato viene sempre sfregiato, deformato comicamente come un vizio, e implicato con la sofferenza. Per custodire il passato bisogna infatti sempre preliminarmente conoscerlo e definirlo e, come sostenne Nietzsche, in ogni volontà conoscitiva si nasconde una goccia di veleno. “Non potrebbe essere diversamente, perché il sapere è permeato d’angoscia, sempre” , dice il Capitano di La stiva e l’abisso, ma per sapere è indispensabile padroneggiare il passato. Così, quando in Verderame il vecchio famiglio perde progressivamente la memoria, Michelino, il nipote dei padroni che lo ama, cerca di contrastare la degenerazione coincidente con il perdersi della personalità; tuttavia riportandolo indietro gli fa scoprire anche dolorosi ricordi e rompe antiche autocensure. La spinta resta però invincibile: Tardegardo, il Leopardi mannaro, di Io venìa pien d’angoscia a rimirarti, cerca disperatamente una risposta alla propria natura occulta nella biblioteca paterna, scavando nella storia locale e scrutando tra i lupigni ritratti degli avi. Accanto sta la scrittura, sua e del fratello diarista, quale strumento necessario d’analisi. Il significato più puro della filologia applicata al sé riguarda il ripristino dell’originale dopo aver tolto errori e lezioni fuorvianti o di comodo come insegna Lorenzo Valla: fissare la verità del passato, fissarla negli occhi. Rondini sul filo rappresenta il più cospicuo esempio dell’ossessione memoriale lacerante. Il narratore, in preda alla gelosia retrospettiva, dall’amante amatissima ha voluto subito “saper tutto di tutti, senza vaghezze, una vertigine cognitiva una cognizione assassina.” Mai pago della situazione privilegiata del presente, l’indagatore va frugando in ogni recesso dell’altrui passato: ciò che crede gli venga tenuto nascosto è causa di sofferenze quanto ciò che scopre (“mi strazia tutto, quel che so e quel che ignoro” ib.). In tale posizione chiusa di scacco una volta si gira da una parte una volta dall’altra al modo dell’ammalato dantesco, ma continua l’indagine fino alla scarnificazione. Si arriva inevitabilmente allo scheletro, il “fossile irreversibile” (p. 10) di un passato raggelato in formalina che, sebbene lontano, resta, incancellabile, c’è stato. Gli antichi amanti sono cadaveri ancora putrescenti che vanno ricoperti di carne attraverso il racconto dell’amata, attraverso inesauste inquisizioni. Eppure quando rivivono, o addirittura si rincontrano in giro come zombie, possono essere anche peggio: gettano una luce mortificante sulla donna idoleggiata e comunque restano nell’area d’ombra “dell’impartecipabile” (ib). Il passato differente divide per sempre gli amanti che dovrebbero esserlo quindi dal primo bacio verginale fino all’ultimo sull’orlo del sepolcro. Non potendo fermare lo scorrere del tempo o farlo coincidere con l’altrui, il fine allora è di portare tutto il passato con sé: oggetti, ambienti ed esperienze, persone. Per prelevare il passato bisogna, seguendo la legge di reversibilità, addentrarsi nei suoi territori; ecco dunque che il mito centrale della scrittura di Mari si rivela quello di Euridice. Nel racconto che da il nome alla raccolta Euridice aveva un cane il finale, elegiaco e struggente, vede il giovane Michele attendere di notte, in riva al fiume, la vecchia Flora ed il suo cane Tabù, tanto amati nelle vacanze estive passate a Scalna con i nonni: “basta che io non mi volti, che rimanga così ancora un po’, a carezzare quel bel sasso piatto che riflette la luna. Al primo fruscìo alle mie spalle saprò che sono arrivati” (p. 83). Il senso di questa scrittura sta quindi nello sprofondare nell’Ade per far rivivere i morti. Il passato deve essere restituito nella piena integrità secondo un’acribia filologica nevroticamente e comicamente resa: “Il paese è cambiato. Anche se rimango chiuso in biblioteca sento tutti i cambiamenti, li sento uno sopra l’altro come cicatrici di frustate sopra la mia schiena, i più remoti scandalosamente attuali come i più freschi” (p. 61). Se lo scribacchino “deve tenere di conto con la testa all’indietro” , ne consegue il recupero di alcune forma temporali quali il diario di Io venìa pien d’angoscia a rimirarti o della sincronia tra passato e presente nella coscienza allucinata di Rondini sul filo, compiuta grazie allo slittamento dei tre puntini. Anche le forme letterarie rientrano nella logica del recupero memoriale, spesso legato a generi praticati nell’infanzia: il romanzo gotico (Di bestia in bestia), quello d’avventure marinaresche (La stiva e l’abisso) o il biografico-storico-giallo edipico (Io venìa pien d’angoscia a rimirarti). Si incontrano poi singoli personaggi come il già citato Kurz o autori quali gli Otto scrittori di mare di cui si cerca, in una gara per esclusione condotta con il “rigore fanatico” dell’infanzia, quello che meglio incarna l’essenza del genere. Gli ambienti stessi riecheggiano spazi letterari a partire dalla casa di campagna, dalla biblioteca dove Michele si rinchiude per escludere il presente rumore, che pare la biblioteca leopardiana contenuta, come per scatole cinesi, nell’umbratile magione landorfiana. I protagonisti dei primi romanzi di Mari sono figure esterne, quindi si fa avanti sempre più scopertamente l’autobiografia; per entrambi i gruppi di voci vale una battuta del testo d’esordio: “sembrava che quell’uomo non sapesse esprimersi senza retorica e senza insieme irriderla nell’atto stesso di farne impiego.” Però ci pare di aver dimostrato quanto la letterarietà non sia fine a se stessa, ma si compenetri a un nucleo esistenziale fortissimo e dolente. Chiudiamo dunque accostando la Giustificazione posta all’inizio di Filologia dell’anfibio, con una risentita rivendicazione di stile: Ci sono persone per le quali il passato è la sola dimensione reale. Per queste persone vivere significa essenzialmente aggiornare il proprio passato; di tale aggiornamento esse hanno coscienza discontinua, apparendo loro talvolta come conservazione, talvolta invece come perdita. E’ in simili momenti di lutto che queste persone, inorridite dal dilapidante cangiare della vita, chiedono soccorso alla letteratura. Ma la letteratura è dea intollerante, e gelosa della vita esige da loro il sacrificio di ciò che più le ricorda la rivale: va così che quelle persone debbano rinunciare a ciò che più premeva loro, riprodurre la continuità della vita fra il suo accendersi nella nascita e il suo spegnersi nella morte. […] la letteratura è tanto più forte quanto più essa è tautologicamente letteraria (come la pietra più petrosa, la scimmia più scimmiesca, il gas più gassoso).
A cura di Alberto Volpi
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