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ANTONIO ALTOMONTE «emblematico ricostruttore di perdute dimensioni».
di Giuseppe Antonio Martino
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ANTONIO ALTOMONTE «emblematico ricostruttore di perdute dimensioni».

Uno scrittore che sembra essere caduto nel dimenticatoio, come altri autori meridionali, è certamente il palmese Antonio Altomonte che, guidato nei suoi primi passi dal concittadino, giornalista e scrittore, Domenico Zappone, cominciò a scrivere, alla fine degli ani ’50 per il, quotidiano la “Gazzetta del Sud”. Divenuto collaboratore de “Il Tempo”, nel 1961, si trasferì definitivamente a Roma e, dopo un tirocinio di cronista, divenne responsabile del supplemento libri, distinguendosi per capacità e professionalità.

Negli anni Settanta capitava sovente di incontrarlo per i viali della Città Universitaria di Roma, sempre disponibile al dialogo con gli studenti suoi corregionali. La sua disponibilità quasi familiare non faceva trasparire la statura del giornalista e dello scrittore di successo che sarebbe stato.

Al suo primo romanzo, Il Feudo (1964), il cui manoscritto era stato rifiutato da diverse case editrici, come spesso è capitato in Italia alle opere di tanti autori, soprattutto meridionali (basti pensare al poeta Lorenzo Calogero), è stato attribuito il Premio Villa San Giovanni per la narrativa. In esso vi è la denuncia della cecità e della decadenza del vecchio patriziato rurale non rinunciando a cogliere, con fine psicologia, drammi interiori e comportamenti esistenziali.

In quegli anni i temi del latifondo e dell’usurpazione delle proprietà terriere che in tanta letteratura sembravano proporsi come espressione di denuncia sociale, e dei quali si era interessato anche il suo concittadino Répaci, in Altomonte, come afferma Giuliano Manacorda nella prefazione a Una stagione sull’altra, restano sullo sfondo perché lo scrittore puntava principalmente a mettere in luce «i connotati più profondi, il costume che si era costituito su comportamenti e su rapporti interpersonali e di classe plurisecolari, che già la parola “feudo” richiamava». Certamente questo primo romanzo, dopo le iniziali difficoltà, spinse Altomonte a procedere sulla strada della narrativa fino a guadagnarsi un posto di riguardo nella letteratura contemporanea, grazie anche ad uno stile tutto personale, derivatogli dall’assidua frequentazione dei migliori modelli narrativi italiani e stranieri, tanto che Leonida Répaci, in Calabria Grande e Amara (1964),  lo definisce «emblematico ricostruttore di perdute dimensioni». Alle iniziali difficoltà, forse, ha contribuito un carattere mite, non dotato di forte personalità: egli non apparteneva a quella categoria di gente capace di farsi largo sgomitando, ma ha ripercorso tappe fondamentali della coscienza critica del secolo scorso parlando quasi a bassa voce, tracciando un «itinerario nel costume della nostra cultura».

A Il Feudo seguì  L'Idea del corpo (1965). All’inizio di questo secondo volume si ha quasi l’impressione che lo scrittore voglia continuare nella ricostruzione, attraverso un linguaggio simbolico, della sua esperienza calabrese, ma la descrizione della piccola città che, all’inizio del libro, sembra richiamare alla memoria del lettore Palmi, la città natale di Altomonte, presto lascia il posto ad una narrazione che, anche se inserita nelle ataviche strutture meridionali della famiglia, va ad indagare la psicologia giovanile che si contrappone a quella di chi procede nella monotona vita di provincia nella convinzione che tutto il mondo ruoti intorno a quella ristretta dimensione in cui egli si trova a vivere.

Questo secondo romanzo segna un momento importante nella formazione dello scrittore Altomonte che, come Corrado Alvaro,  supera i limiti angusti del regionalismo, da cui forse prende spunto la sua ispirazione, per collocarsi in una dimensione molto più ampia, quella europea.

Con  La sostanza bruna (1972), lo scrittore di Palmi dà inizio ad una nuova fase della sua ispirazione: propone motivi e forme fantastiche ed essenziali nella ricerca di un nuovo modo espressivo, completando il processo di allontanamento dalla stagione del realismo.

 Questo romanzo pone il lettore davanti alla “malattia” dell’uomo contemporaneo che vive in un clima esistenziale pieno di angoscia in cui i personaggi sembrano fondersi e confondersi tra loro. Lo scrittore stesso afferma: « gli incontri, le immagini, gli avvenimenti bollono e s’incrostano in maniera indelebile, in un crogiolo di tinte, di umori e di situazioni da creare una vera e propria sostanza bruna». Eppure, questo apparente groviglio viene presentato al lettore in una prosa semplice e lineare, caratteristica definitivamente conquistata, dopo i primi due romanzi, dalla scrittore palmese.

Anche se i suoi impegni di giornalista lo portavano ormai in giro per il mondo, dimostrò di essere rimasto attento osservatore della realtà italiana con la pubblicazione di due antologie: una, in collaborazione con Leonida Répaci, conterraneo e scrittore affermato, intitolata Narratori di Calabria (1969) l’altra sul Lazio, regione in cui viveva, dal titolo Roma: diario a più voci (1974).

Alla intensa attività di giornalista e saggista esercitata negli anni Settanta appartengono Viaggio nella cultura italiana (1975) che, per tappe, in un ideale dialogo con importati personalità che appaiono ondivaghe ed incapaci di ricercare un itinerario che porti ad un’azione di recupero culturale, procede partendo dai centri più prestigiosi del Sud, carichi di storia e di tradizioni, ormai quasi completamente relegati nel dimenticatoio, fino a giungere a Roma, centro di potere e di corruzione, e L'Intellettuale bifronte, vincitore del premio «Rhegium Julii» (1977), scritto all’indomani elle elezioni del 1976 in cui sembra interrogarsi davanti all’inaspettata apertura dei partiti politici alla cultura che provoca smarrimento e genera ambiguità e compromessi.

Il saldo legame con la terra d’origine appare nel saggio critico Répaci (1976), in cui manifesta l’affetto che nutriva per il concittadino Leonida Répaci che, in qualche modo considerava suo Maestro, e in Mafia, briganti, camorra e letteratura (1979).

Con la  pubblicazione di Dopo il presidente (1978 – Premio Viareggio) e Sua Eccellenza (1980 - Selezione Campiello), attraverso un linguaggio simbolico divenuto ormai a lui congeniale, indaga la crisi della seconda metà del secolo scorso e mostra il volto del potere sociale e politico.

In Dopo il presidente la giuria del Premio Viareggio colse, in particolare, l’atmosfera ambigua entro cui i personaggi si muovono quasi per un destino che la vischiosità del potere impone inesorabilmente, ma, come afferma nella prefazione Luigi Baldacci, quest’opera di Altomonte «è tutto il contrario di un romanzo politico» perché i romanzi politici propongono alternative alla realtà, mentre la forza e la verità di questo volume  «stanno nel non lasciar supporre un’alternativa» alla realtà in cui ci si trova a vivere: il protagonista sa che per lui non ci sarà domani, «domani sarà la volta degli altri», che continueranno nelle stesse ambiguità, schiavi loro stessi di ciò che gli altri pensano sia il loro potere: un’atmosfera da incubo in cui il “dopo” è indefinito e in cui non ci sarà conclusione perché la fine di un “potente” presuppone il trionfo di un altro “potente”. Come afferma M. Prisco ( in “Oggi”, otto luglio 1978) si ha l’impressione di assistere ad «singolare gioco a scacchi dove le mosse diventano ogni volta, prima che spia di interessi nella logica del potere, risvolti della profondità dell’animo umano quando è invasato (devastato) dalla brama del potere».

In Sua Eccellenza, come afferma D. Maffia (Antonio Altomonte Narratore, Edisud 1989),  lo scrittore va oltre il traguardo raggiunto in Dopo il Presidente e scava «dentro la realtà del sociale cercando di cogliere non tanto ciò che un qualsiasi sociologo meglio sa fare, ma mettendo l’uomo e anche se stesso a confronto di quelle ambiguità di cui la nostra società ormai si nutre». Altomonte evidenzia le delusioni e le amarezze di un uomo che, vissuto all’insegna della legalità e nella certezza dei valori, finisce con il ritrovarsi  di fronte ad una realtà, quella romana e politica, microcosmo di devastazioni. Non sappiamo se il protagonista riuscirà a risolvere la sua crisi: non lo sappiamo perché Altomonte, premeditatamente, non ha voluto svelarcelo. Ogni lettore, confrontandosi con la società in cui vive, trovi da sé la conclusione e rifletta sulle cause della crisi della società in cui viviamo. Certo è che, in entrambi i romanzi, Altomonte mostra all’italiano comune un mondo politico in cui i protagonisti, nell’esercizio delle loro funzioni, contorti nei loro ragionamenti, incuranti delle più elementari regole sociali di franchezza e lealtà, impantanati in situazioni che li privano della libertà, diventano schiavi dei loro stessi privilegi, ai quali non possono e non sanno rinunciare.

Dopo Il presidente e Sua Eccellenza imposero lo scrittore all’attenzione della critica, facendo quasi dimenticare i precedenti romanzi, al punto che qualcuno indicò come opera prima di Altomonte proprio Dopo il presidente, ma nel 1982 Altomonte decise di ripubblicare, in un unico volume intitolato Una stagione sull'altra, con il quale  ottenne il “Premio Nazionale Letterario Pisa” per la narrativa, i suoi primi tre romanzi: Il Feudo con il titolo originario,  L'idea del corpo  e La sostanza bruna (con i nuovi titoli Adolescenza e Una storia in frantumi). Tale decisione è stata maturata dallo scrittore proprio per riportare all’attenzione dei critici la sua fatica letteraria nella sua interezza, come egli stesso ha affermato per compiere «un atto di giustizia verso quell’altro me stesso che in qualche modo, quali che siano stati i risultati e l’eco, aveva aperto la strada, tra i venti e i venticinque anni, all’autore di Dopo Il presidente e Sua Eccellenza ». Questa nuova edizione propone i tre romanzi riveduti perché l’autore non ha voluto soltanto «indicare i precedenti di un percorso, quanto, semmai, sottolineare alcune caratteristiche» che fossero utili a coloro che sarebbero stati chiamati ad esprimere un giudizio critico sulla sua opera.

Nella prefazione al volume Una stagione sull'altra, Giuliano Manacorda ripercorre l’itinerario di Altomonte ed afferma che la letteratura metropolitana a cui è pervenuto con i suoi ultimi due romanzi «appare come una conquista dell’autore … Altomonte era partito da lontano; era partito, come forse era inevitabile, dalla sua Calabria, dove né grandi centri urbani né grandi motivazioni politiche potevano alimentargli la fantasia, ma, al contrario, la “vita dei campi” e il complesso della rete dei rapporti familiari (matrimoni, morti, eredità) erano gli argomenti più invitanti e più a portata di mano» per giungere, nella fase più recente della sua produzione, alla narrazione dell’ambiguità della città e della politica.

Nel 1982  lo scrittore palmese pubblicò anche  Il Magnifico, biografia di Lorenzo dei Medici, considerata libro dell’anno dal Premio Castiglioncello e nel 1984 la pubblicazione del romanzo Il fratello orientale gli procurò la selezione al “Campiello" ed il premio "Basilicata". Altomonte, in questo romanzo, sorprende per l'abilità con cui conduce il lettore in un intrigo internazionale che via via diventa intrigo di un'anima e, rovesciando i tradizionali moduli narrativi, propone il problema di un uomo alla ricerca della sua identità, confuso in una realtà esistenziale che vive in un mondo pieno di contraddizioni. Il protagonista di Fratello Orientale, autore di romanzi gialli, vive tragicamente la sua esistenza, mutando spesso atteggiamento, nella continua ricerca di se stesso, quasi volesse sperimentare le vicende dei personaggi dei suoi romanzi, ma resta profondamente insoddisfatto del suo essere, fino a diventare un novello Fu Mattia Pascal: perseguitato da un sosia, vorrebbe essere una persona diversa, con altre sembianze ed esperienze diverse da quelle che ha vissuto. Come il pirandelliano Mattia Pascal, Valera, il protagonista di Fratello orientale uccide se stesso nella speranza che da questo ultimo gesto possa rinascere nuovamente, ma questa volta gestore assoluto della sua esistenza. Anche in questo romanzo la storia di un singolo diventa storia di tanti, con risvolti politici e sociali.

Con la  commedia La parete di vetro lo scrittore palmese si è cimentato nel campo del teatro e, pur non essendo un genere a lui congeniale, gli venne assegnato, ex aequo, il premio nazionale “Fondi - La Pastora”.

Nel 1985, con Dante una vita per l'imperatore, ottenne "Il Valentino d'oro" e poi il premio "Fiuggi" per la saggistica.

Tra gli scritti di Altomonte rivestono un certo interesse anche alcune introduzioni ai libri di Benvenuto Cellini, (sui due trattati intorno all'oreficeria ed alle sue principali arti e sull'arte della scrittura), a Senza Bussola di Guido Nobile (1979)  e a Inverno in palude di Raul M. De Angelis (1984).

La sua breve ma intensa vita si concluse, in una clinica romana, nella notte tra il 31 dicembre 1986 e il 1° gennaio 1987 e le sue spoglie furono subito trasferite a Palmi.

La sua ultima opera I cari tiranni, terminata in clinica proprio poco prima di morire, fu pubblicata qualche mese dopo la sua morte. In questo suo ultimo lavoro Nino Altomonte continua, in un certo senso, i temi già trattati: l’uomo contemporaneo ha perduto la sua identità e, come se vivesse sperduto nei suoi stessi pensieri ed incapace di ritrovare la via, si rifugia nella monotonia della quotidianità: il protagonista, Hitler, si ritrova, nella quotidianità, a portare a passeggio il suo cane … ma è il cane che cammina davanti a lui, costringendolo a corrergli dietro, tanto che «è difficile dire chi sia dei due a condurre il gioco». Pare quasi che Altomonte avesse in mente La carriola,  la famosa novella di Pirandello in cui un principe del foro, dimentico dei titoli altisonanti incisi sulla sua porta, si chiude nel suo studio e, senza essere visto, gioca con la sua cagnetta. Anche in cari Tiranni l’uomo appare vittima di ciò che sembra essere il suo potere.

Nel 1993 la città di Reggio Calabria gli conferì, alla memoria, "Il Bergamotto d'oro" e Carlo Bo non esitò ad affermare che «certe sue inchieste sono rimaste famose e non potranno essere trascurate neppure in avvenire».

A cura di Giuseppe Antonio Martino



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