D'Annunzio fu uno scrittore fortemente aristocratico, e la sua lingua si improntò sin dall'inizio a un lessico prezioso e raro. " Il Comandante" ( così fu sempre chiamato dai suoi uomini dopo l'impresa fiumana) possedeva, sotto il profilo linguistico, quella che Mario Praz ebbe a definire un "amor sensuale della parola", per cui egli si rivelò un vero e proprio ricercatore di termini ormai definitivamente disusati, che avevano sede soltanto nel vocabolario della Crusca. D'Annunzio, infatti, amava tenere sempre sotto mano i vocabolari, dai quali traeva il materiale linguistico ormai desueto e al quale egli dava nuova vita e circolazione sia nelle opere in prosa sia nelle liriche. Scriveva infatti Bruno Migliorini che tale lessico era acquisito " più ancora che con le intense letture di scrittori, con l'esplorazione del vocabolario della Crusca e di quello del Tommaseo" (1), strumenti con i quali " egli si procura una conoscenza enorme di parole che sono state italiane, pronte per essere rimesse in circolazione". Esempi tipici di tale gusto arcaizzante, segnali del rifiuto dannunziano per la parola d'uso quotidiano possono essere i seguenti: "antibraccio" per "avambraccio". "palagio" per "palazzo"; oppure la tendenza a mantenere la grafia antica delle parole: così, per esempio usa "comedìa" per "commedia", "drama" per "dramma", "conscienza" per "coscienza" o "trasparente" per "trasparente". per non fare che pochi esempi. Altre fonti del lessico aulico di D'annunzio furono ovviamente le lingue classiche, greco e latino, da cui "falbo", "flavo". Oltre che gran ricercatore della parola rara, D'Annunzio fu un coniatore di neologismi: l'esempio forse più noto fu il conio di "superuomo", una parola di sapore niciano che traduceva l' "Übermensch" dei tedeschi, e che in italiano fu resa con indubbio impaccio dai più diversi traduttori dal tedesco. Ne emersero termini come "più che uomo" oppure "oltreuomo", che scomparvero di fronte al genio linguistico di D'Annunzio, che diede vita a un neologismo che ormai è entrato a far parte del lessico quotidiano. Un'altra assoluta particolarità del suo stile era costituita dalla predilezione per le parole "sdrucciole", con accento sulla terz'ultima sillaba, più poetiche a suo modo di intendere delle parole piane con accento di penultima ( termini, a suo modo di vedere, da "bottegai"); alcuni personaggi del "Piacere", portavano infatti "nomi sdruccioli", per cui , anziché, Giulio Masellàro (piano), egli prediligeva Maséllaro (sdrucciolo).
Nota
1) Bruno Migliorini, Gabriele D'Annunzio e la lingua italiana, in Saggi sulla lingua del ‘900, Firenze, Sansoni, 1963, pp. 293-323.